Recent Posts by Barbara Spinelli

I rifugiati intrappolati in Grecia

COMUNICATO STAMPA

Bruxelles, 3 marzo 2016

«Il blocco della rotta balcanica è uno strumento usato per destabilizzare uno Stato Membro dell’Unione: la Grecia», ha detto questa mattina Barbara Spinelli nel corso di un dibattito del gruppo Gue/Ngl dedicato ai confini esterni dell’Unione e al tracollo di Schengen. «Penso che l’accusa fatta al governo greco di “spingere i popoli a fuggire” sia di un infantilismo estremo.

«In primo luogo,  chi fa simili accuse sa perfettamente come stanno le cose: i rifugiati sono oggi intrappolati in Grecia perché la rotta balcanica è stata chiusa al confine greco-macedone in seguito a una decisione adottata dall’Austria in accordo con il gruppo di Visegrad e, soprattutto, in un vertice di qualche giorno fa, con nove Paesi balcanici.

«Vienna sta organizzando una sorta di sottogruppo dell’Unione, una sua “area di influenza”,  e con l’aiuto di Paesi che non appartengono all’UE mette in ginocchio uno Stato dell’Unione. Il ministro della migrazione greco fa bene a parlare di caduta dell’Ue in politiche di potenza che ricordano l’Ottocento.

«C’è poi un secondo segno di infantilismo o malafede: non vedere i motivi per cui la gente fugge in massa verso l’Europa da Stati devastati da anni di guerra serve in realtà a nascondere il fatto che queste guerre sono state attivamente promosse o addirittura fatte dall’Occidente, e a sviare l’attenzione da quelle che si accinge a fare di nuovo in Libia», ha continuato l’eurodeputata del Gue-Ngl. «Per questo chiedo di riflettere sul fatto che alla seconda guerra in Libia intendono partecipare, accanto agli Usa, due Stati dell’Unione: Italia e Libia.

«Quanto alle operazioni della Nato alle frontiere Sud dell’Europa, sono d’accordo con il collega Nikolaos Chountis (Unità Popolare, Grecia): stiamo assistendo a un salto di qualità che va denunciato, perché stravolge la politica europea di asilo trasformandola in una politica concentrata per intero sui respingimenti, in violazione palese della Convenzione di Ginevra».

Ricominciare dall’economia sociale e solidale

Barbara Spinelli ha tenuto un discorso di inaugurazione del Forum europeo dell’Economia Sociale e Solidale organizzato a Bruxelles il 28 gennaio 2015 dal gruppo GUE-NGL. A dare il benvenuto ai partecipanti erano presenti i deputati Miguel Urbán Crespo (Podemos), Kostadinka Kuneva (SYRIZA) e Luke “Ming” Flanagan (Gue/NGL Indipendente), il vicepresidente di Social Economy Europe Alain Coheur, Josette Combes di RIPESS e Agnès Mathis di Cooperatives Europe. Il Forum europeo dell’Economia Sociale e Solidale è stato organizzato da nove delegazioni del GUE/NGL: Die Linke (Helmut Scholz), SYRIZA (Stelios Kouloglou e Kostadinka Kuneva), Bloco de Esquerda (Marisa Matias), Front de Gauche (Marie-Christine Vergiat), l’Altra Europa con Tsipras (Eleonora Forenza), Luke “Ming” Flanagan (Gue/NGL Indipendente), Podemos (Miguel Urban Crespo), Barbara Spinelli (Gue/NGL Indipendente), Eh Bildu (Josu Juaristi).

Intervento di Barbara Spinelli

Sessione plenaria di apertura

Cos’è l’economia Sociale e Solidale (ESS)? È al tempo stesso un rimedio alla crisi in cui siamo immersi da quasi dieci anni e un rivelatore di “grandi trasformazioni” – penso alle grandi trasformazioni di cui parlava Karl Polanyi. Continuiamo a parlare infatti di crisi, ma dobbiamo affrontarla sapendo, grazie a Polanyi, che di trasformazione si tratta.

Fu così nella rivoluzione industriale, quando per la prima volta apparve il termine “economia sociale”, intorno al 1830, e già prima, nella seconda metà del Settecento, quando nacquero organizzazioni di “aiuto e sostegno mutualistico” che davano voce e spazio ai gruppi sociali più colpiti dalle nuove condizioni lavorative.

Fu così all’inizio del secolo. Esperienze simili erano diffuse in Gran Bretagna, Spagna, Francia, Italia, fin dall’800. La Germania le conobbe dopo la prima guerra mondiale e negli anni della recessione che, non essendo combattuta, sfociarono nella vittoria di Hitler.

Ora ci troviamo in una situazione simile: alla recessione, l’establishment europeo reagisce esaltando la competitività nei sistemi fiscali e nel mercato del lavoro – una competitività che attizza i nazionalismi e fa crescere precise imprese ma non l’insieme della società, come spiegano economisti di prestigio come Martin Wolf, Paul Krugman, Robert Reich. Ancora una volta, manca una vera lotta alla recessione.

La questione sociale e la lotta di classe non sono defunte, come pretende il neo-liberalismo quando dice che la storia è finita. Sono vive più che mai. Ed è bene che sia così, se si vuole sostituire una democrazia inclusiva alla “democrazia di mercato” teorizzata da Clinton nel ’93, dopo la fine della guerra fredda. La lotta di classe d’altronde, anche se oggi assume aspetti diversi dal passato, è intrinseca al capitalismo, non al comunismo.

L’economia sociale e solidale ci restituisce esperienze apparentemente sepolte, che risalgono al ‘700, all’800, al ‘900. Nel suo essere rivelatore di grandi trasformazioni si comporta come un fiume carsico che a tratti si inabissa diminuendo la propria portata: quando nel secondo dopoguerra si affermò un Welfare forte, l’economia sociale vide il proprio peso diminuire. È ripartita con forza non appena – nella seconda metà degli anni ’70 – il Welfare cominciò a essere smantellato. [1]

Nel nostro primo incontro, dissi che l’economia sociale e solidale somiglia al minority report di Spielberg. Una parte della nostra storia resta regolarmente minoranza. Si tratta di farla divenire maggioritaria e governante, come chiedeva Pablo Echenique (Podemos) che tra i primi pensò questo Forum.

L’economia sociale e solidale va oltre il tutto-Stato, oltre il tutto-mercato. Per quanto mi riguarda, la parola che la riassume meglio è empowerment: dare potere a chi non ce l’ha, come suggerisce Amartya Sen nei suoi scritti. Penso che l’ora di reagire sia adesso, perché veniamo da quarant’anni di progressiva demolizione del Welfare e di politiche fallimentari, se guardiamo alle diseguaglianze che hanno creato e di cui sono espressione.

Questa economia si è comportata spesso come un settore di nicchia, che fatica a trovare i propri spazi. Penso che oggi debba presentarsi con aspirazioni maggioritarie, mettere “in rete” le esperienze, inventare nuove forme di produzione e distribuzione solidali.

Per concludere vorrei dire che il nuovo, se è rivelatore di una trasformazione e non una disperata reazione alla crisi, deve includere oggi i rifugiati. Si tratta di predisporre una politica che liberi quelli che saranno milioni di nuovi cittadini europei da forme schiavistiche di sfruttamento – in Italia gestite da mafie e caporalati – e di inserirli sempre più in settori come agricoltura, edilizia, energie rinnovabili, riassetto del territorio, assistenza delle persone in difficoltà. In altre parole, elementi centrali della trasformazione dovrano essere la rule of law, la legalità, il rispetto dei diritti sociali e civili. Tutelando diritti e legalità, penso che si darà un primo contributo alla democrazia inclusiva che ci si prefigge come obiettivo.

[1] Come documenta il Ciriec International (l’istituto che analizza e classifica il settore) il 6,5 per cento dell’occupazione nei paesi dell’Unione europea (che sale al 40 per cento se si considera il solo settore privato), pari a 14 milioni di lavoratori e al 10 per cento delle imprese, è attribuibile all’economia sociale e solidale, volontari esclusi. Otto nazioni hanno già legiferato in materia (Gran Bretagna, Belgio, Francia, Spagna, Portogallo, Grecia, Romania, Lussemburgo), così come alcune regioni come la Catalogna e, in Italia, in attesa che il Senato sblocchi la legge delega per la riforma del Terzo settore, l’Emilia Romagna, il Trentino, la Puglia e il Lazio.
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Poland, the rising of the far-right and the responsibilities of the Union

Speech of Barbara Spinelli, shadow rapporteur of GUE/NGL, during the group meeting
Strasbourg, 18 January 2016

Versione italiana

It is already a long time that we are discussing, in the European Parliament, on what the Union should do when facing with clear violations of fundamental rights in Member States. We already raised this issue with regard to Hungary, and we are now considering it again talking of the new Polish government. We ask ourselves if the Union will be able to deal with this situation, considering that it did not get much in the past; if the rule of law mechanism, triggered in these days by the Commission, will really work; if article 7 needs to be revised, since the procedures provided therein are complex and unlikely the Member States will unanimously apply it against one of them. New mechanisms for the protection of the rule of law are currently under discussion.

This analysis is undoubtedly appropriate and necessary but, in this context, I would like now to focus on something different that goes beyond the procedures and their content i.e. the roots of those phenomena and the rising of far-rights movements. The absence of a strong left-wing representation is equally a matter to understand. Having often frequented eastern European countries during the communist period and the transition, I will try to expose some ideas on this issue.

First of all, what is happening in Poland is neither an isolated incident nor an unwelcome surprise falling from heaven. The economic crisis, together with the refugees’ crisis, has uncovered a reality which the European élite wanted to hide for long time. The entire eastern European area seems on the verge of collapsing from the point of view of the principle of democracy founded on human rights and separation of powers (including the fourth power i.e. the independence of the media): I am thinking of Hungary, Czech Republic, Slovakia, the ethnic and russophobic closures in the Baltic countries, and of Poland, where the xenophobic and nationalist right-wing won for two times in 2005 and today with Jarosław Kaczyński – the brother of Lech, who was President and died in the plane crash in 2010.

Why the system is collapsing in this way? In my view it is happening because the transition from communism to constitutional democracy did not work, the enlargement was misconceived and the Polish liberal élites ruled the country without considering what their society demanded or suffered. Some speak of misunderstanding: the old Member States and the European Institutions did not clarify, during the accession negotiations, that the European project is not a merely neoliberal economic project based on an unbridled market. In reality, rather than misunderstanding we should speak about a deliberate strategy, carried out on the basis of a conscience which believes to be correct but, on the contrary, does not perceive its own limitations and deficiencies: a false consciousness, quoting Karl Marx. Europe, in the last thirty years and more, has intentionally reshaped the idea of Union as a neoliberal single market, with the result that the transition moved from the communism to the market democracy – as Clinton named it in 1992-93 – rather than from communism to the rule of law and a constitutional and inclusive democracy. Some argued that a victory against communism had produced an End of History, which means: the social issue belonged already to the past two centuries, the class struggle too; the rage of those left apart could be ignored.

The reality was and is completely different. The economic policies adopted by the Polish liberal élites, abiding by the Union’s central doctrine, still produce social anger. The class struggle is far from being dead – after all it is intrinsic to capitalism and not to communism. If denied – and especially deprived of its social-economic nature – the class struggle tends to appear in any case, following however spoiled and destructive dividing lines. It will express itself along nationalistic or religious or even moralistic dividing lines, as well described by the sociologist David Ost.[1] As long as social inequalities produced by neoliberalism increase, the anger falls in the arms of the far-right, which converts it into hatred towards the different, into research of a scapegoat: hatred for the ethnic, racial, religious, moral “Other” (for instance, think about the unemployed described as “morally lazy”). This is what happened in the “Eastern front”. But it is also what is happening for decades in the Western part of the Union. We cannot hide this.

How to explain the absence of a strong left-wing, capable of representing the interests of workers and of those who have paid a high price as a result of the choc therapy (the so-called Balcerowicz Plan) adopted in Warsaw after the ’89? The answer is that there was a basic agreement between the leadership of Solidarnosc and the Communist Party to move towards a “market democracy”. Additionally, the heirs of the Communist Party were occupying entirely the left area of the Parliament and were completely in favour of the “choc therapy”. There was no place for another left wing.

Long before 1989, the leadership of Solidarnosc – I refer particularly to Adam Michnik and Lech Walesa – was convinced that the country needed ultra-liberal economic reforms. For them, the greatest danger was represented by the class struggle and an independent and demanding trade union. I would like to quote what Walesa said in ’89: “We will not catch up to Europe if we build a strong trade union (…) We cannot have a strong trade union until we have a strong economy”. [2]

According to some analysts, including David Ost, the “round table” negotiations with the Communist Party in ’88-’89 was possible precisely for these reasons: Solidarnosc had preliminarily decided to commit suicide, abandoning its nature of trade union. I remember some conversation I had with representatives of Solidarnosc just before the ’89: many of them did not hesitate to sing the praises of the economic policy of Pinochet. That seemed to be the model. During the same period, I heard similar arguments concerning the “Chilean transition” in Hungary and in the Baltic countries. The Polish liberal élite is a child of Solidarnosc, albeit one thing must be said: Solidarnosc has many children, including the Kaczyński brothers.

I would like now to provide you with some data regarding the socio-economic situation in Poland.

Today, Poland is characterised – even in a period of economic growth – by a very high rate of inequality, widespread poverty and a serious lack of social protection. Less than a half of the working population has a stable employment, 27 per cent of the workforce is temporary (ten years ago the percentage was 15). 9 per cent of the young population under 18 lives in absolute poverty. 19 per cent of the active population works for paying, through its own income, social insurances, and only 16 per cent of them receive unemployment benefits. In the private sector, only 2 per cent of the working population is member of a trade union. The State has abandoned and practically liquidated key sectors (welfare, rail system, health care, postal services). What strikes me with regard to some Eastern European countries is the opinion that liberal élites have about trade union’s actions. These actions are from their point of view something to fear and hide, and never essential ingredients of an inclusive social system that need to be listened and integrated.

In this case too, the Union does not give any support: the welfare state is experiencing, even in the rest of Europe, the same process of dismantlement, and trade-union representatives are equally perceived as a hindrance. With regard to those States which joined Europe after the transition, the truth is that they acceded almost without any welfare system. In this context, far-right movements have been able to catalyse the anger caused by the austerity policies promoted from the beginning of the ’90, and to present themselves as the spokespersons of the most oppressed citizens.

The European Union appears to be concerned by this involution but – in my view – has actively contributed to the demolition and distortion of the social conflict, even favouring such distortion. The Union was itself the primary promoter of an idea of democracy bent exclusively to the free market, and the main conditions that the Union has created for the accession of new States were based, substantially, on neoliberal features. On one side it is true that Europe has demanded the respect of some rule of law’s criteria – the so-called Copenhagen criteria – in the process of accession but, on the other side, its concept of democracy was minimalistic, i.e. merely procedural.

All of this applies to some Eastern European countries which have been considered excellent pupils for implementing austerity policies.

Now, both the Commission and the President of the European Parliaments seem outraged by these developments, but they have done little to safeguard a European project including the social question and even the social conflict ad an essential ingredient of the project. Nor did they make the effort to abandon the false consciousness of an “ended history”. In other words, the victory of the far right in Poland and Hungary should not be considered an anomaly: “it is rather rooted in the practice and ideology that have dominated over the past quarter of a century”.[3]

The Union made also another mistake i.e. leaving the issue of peace and war in the hands – both from a conceptual perspective and partially in its management – of its front-line States, namely the Eastern and Baltic countries (the same happened during the Cold War with regard to the Federal Republic of Germany: it represented the bulwark of the West). Consequently, Hungary has chosen to strengthen the partnership with Russia while all other States have decided to place their trust more on the United States and NATO than on the European Union.

The above fragmentation originated from the continuous unwillingness of the Union to develop a real and coherent policy with regard to Russia; a policy aiming to become independent from the strategies adopted by the United Stated and NATO. This failure led to the revival, in the Eastern part of the new enlarged Union, of the “bulwark mentality” – in an anti-Russian perspective – which characterised the borderlands of the ancient Community during the Cold War period.

The recent request of the Polish government of establishing a permanent NATO and US troops’ presence in it’s own territory, to ward off security threats coming from Moscow, represents just the latest example in that sense.

I would like to conclude by recalling that in Poland there are left-wing forces which strongly oppose the policies adopted so far and criticise the far-right as well as the liberal élites who ruled the country in the last years. I am referring particularly to the Razem (“Together”) movement, which is inspired by Podemos. It is a small force, not even represented in the Parliament. It could be suitable to invite its representatives to a Group meeting, in order to give them the possibility to explain their positions and the situation in the country, and to support them if we consider this appropriate.

[1]. David Ost, Defeat of Solidarity: Anger and Politics in Postcommunist Europe, Cornell University Press, 2006.

[2] Ibid. pp. 37, 53.

[3]  Cfr. Gavin Rae, http://beyondthetransition.blogspot.be/2015/12/the-liberal-roots-of-polish-conservatism.html

Denunce di costanti abusi commessi dalla polizia bulgara contro i richiedenti asilo

7 dicembre 2015
O-000156/2015

Interrogazione con richiesta di risposta orale
alla Commissione
Articolo 128 del regolamento

Malin Björk, João Ferreira, Josu Juaristi Abaunz, Cornelia Ernst, Martina Anderson, Lynn Boylan, Matt Carthy, Liadh Ní Riada, Kostas Chrysogonos, Kostadinka Kuneva, Stelios Kouloglou, Dimitrios Papadimoulis, Sofia Sakorafa, Marie-Christine Vergiat, Younous Omarjee, Patrick Le Hyaric, Barbara Spinelli, a nome del gruppo GUE/NGL
Judith Sargentini, Josep-Maria Terricabras, a nome del gruppo Verts/ALE

Oggetto: Denunce di costanti abusi commessi dalla polizia bulgara contro i richiedenti asilo

Diversi volontari e ONG hanno recentemente pubblicato informazioni e video che documentano i costanti abusi commessi dalla polizia bulgara nei confronti dei richiedenti asilo che entrano in Bulgaria dalla Turchia. Un’indagine condotta dal Centro per i diritti umani di Belgrado e finanziata da OXFAM attesta che la polizia commette sistematicamente abusi contro i migranti, ad esempio sparando, percuotendoli e colpendoli con armi da fuoco, nonché servendosi di cani per costringere i richiedenti asilo, compresi i minori non accompagnati, a riattraversare la frontiera e tornare in Turchia.

Il commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muižnieks, aveva già espresso preoccupazioni a questo proposito; infatti, nella relazione pubblicata in seguito alla visita effettuata in Bulgaria dal 9 all’11 febbraio 2015, il commissario si rammaricava che, a quella data, il governo bulgaro si fosse rifiutato di avviare indagini in risposta alle numerose accuse relative a respingimenti e altre violazioni di diritti umani connesse.

Tali pratiche costituiscono una violazione degli articoli 18 (diritto di asilo) e 19 (protezione dalle espulsioni collettive e principio di non-refoulement) della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dell’articolo 3 della Convezione europea dei diritti dell’uomo, nonché del diritto internazionale dei rifugiati.

Alla luce di quanto precede, si chiede alla Commissione:

– ritiene che le pratiche denunciate siano conformi al diritto dell’UE, ivi inclusa la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea?

– Come intende agire per far fronte agli abusi che sono già stati commessi?

– Come intende agire per impedire che tali abusi si ripetano in futuro?

Scambio di opinioni con Frans Timmermans

AFCO – Riunione ordinaria di commissione del 3 dicembre 2015

Punto in agenda:

Scambio di opinioni con Frans Timmermans, primo Vicepresidente della Commissione europea, competente per il programma “Legiferare meglio”, le relazioni interistituzionali, lo Stato di diritto e la Carta dei diritti fondamentali

Buongiorno Vice-Presidente, grazie per l’introduzione.

Le vorrei porre una domanda su un tema che mi interessa particolarmente in quanto Rapporteur di un Relazione di Iniziativa sull’implementazione della Carta dei diritti. È una domanda che le pongo in seguito ai terribili attacchi terroristici a Parigi, nel Mali, in Tunisia. Mi ha molto preoccupato la decisione del Governo francese – oltre alla scelta di dare l’avvio ad uno stato di emergenza, sicuramente comprensibile, ma molto lungo – di richiedere l’attivazione della clausola derogatoria prevista dall’articolo 15 della Convenzione europea sui diritti umani. [1] Nel frattempo assistiamo alla sospensione della libertà di circolazione nello spazio Schengen, che si estende nell’Unione, e in precedenza Parigi aveva adottato una legge molto controversa sulla sorveglianza, che avrà implicazioni sui diritti dei cittadini. Considerato il rapporto che c’è tra i diritti sanciti nell’European Convention on Human Rights e le disposizioni della Carta dei diritti fondamentali, quello che le vorrei chiedere è se questa decisione di invocare la clausola derogatoria avrà influenza anche sull’applicazione del diritto primario dell’Unione. E che cosa significhi in sostanza questo continuo riferimento a uno stato di guerra e a cambiamenti costituzionali dovuti allo stato di guerra. Lo stato di guerra è una condizione nuova, in grado di sospendere i diritti umani. Mi piacerebbe avere una sua opinione a riguardo.

Grazie

[1] http://www.coe.int/en/web/secretary-general/home/-/asset_publisher/oURUJmJo9jX9/content/france-informs-secretary-general-of-article-15-derogation-of-the-european-convention-on-human-rights?_101_INSTANCE_oURUJmJo9jX9_viewMode=view

Radicalizzazione violenta: i rischi della politica della paura

Perché ho raccomandato di votare contro la Relazione sulla prevenzione della radicalizzazione

(relatrice Rachida Dati, PPE – relatore ombra per il GUE-NGL: Barbara Spinelli)

Non è stata una decisione semplice. Dopo mesi di discussione tra la relatrice e i rappresentanti “ombra” degli altri gruppi politici, ho deciso di dare al mio gruppo un’indicazione di voto contrario. Nonostante i negoziati si siano svolti nel rispetto delle reciproche posizioni, e una serie di nostri emendamenti non irrilevanti sia stata accolta nella Commissione Libertà pubbliche e nell’Assemblea plenaria, il risultato finale ha risentito in maniera a mio parere affrettata degli attentati parigini del 13 novembre: il gruppo politico PPE nel suo insieme ha accentuato negli ultimi giorni la natura repressiva del rapporto e ulteriori misure anti-terrorismo sono state adottate, senza che ancora siano valutate la necessaria proporzionalità nonché la necessità legale. La politica della paura, sotto molti aspetti, ha prevalso nella maggioranza dei gruppi, pur creando importanti divisioni nel gruppo socialista, in quello dei Verdi, e perfino nel GUE-NGL.

Inizialmente avevamo presentato 95 emendamenti, la maggior parte dei quali basati su rapporti e raccomandazioni di 13 ONG [1], che mi sono state vicine con consigli molto circostanziati sino al momento del voto. Un certo numero di tali proposte era già stato incorporato nella risoluzione sotto forma di emendamenti di compromesso o durante il voto in Commissione Libertà pubbliche. Mi riferisco in particolare agli emendamenti sul ruolo delle scuole e in genere dell’educazione nella prevenzione della radicalizzazione violenta (promozione di corsi sulla tolleranza e diritti umani), sugli indispensabili investimenti in progetti sociali volti a superare l’emarginazione economica e geografica, sulla domanda rivolta agli Stati membri di attuare diligentemente gli strumenti anti-discriminazione dell’UE e di adottare misure efficaci per affrontare la discriminazione, l’incitamento all’odio e i reati di odio nel quadro della strategia di lotta alla radicalizzazione violenta.

Altri nostri emendamenti sono stati adottati durante il voto in plenaria, e questo migliora la risoluzione. In particolare, è inaspettatamente passato un mio emendamento che fa risalire l’estendersi in Europa dell’islamofobia a “anni di guerra contro il terrorismo”, soffermandosi sulle argomentazioni sfruttate in questo quadro dagli estremisti violenti per reclutare i giovani e biasimando il fatto che “l’Europa non sia più un luogo in cui i musulmani sono benvenuti o possono vivere in condizioni di parità e praticare la loro fede senza essere discriminati e stigmatizzati”. Così come è stato approvato un nostro emendamento, nel quale si esprime cordoglio e solidarietà con le vittime degli attentati di Parigi e con le loro famiglie, condannando al tempo stesso l’uso di stereotipi, di parole e di pratiche xenofobe e razziste: uso che tende a collegare gli attacchi terroristici alla questione rifugiati. Nella stessa direzione va un emendamento – anch’esso approvato – in cui ricordiamo che l’aumento dell’islamofobia nell’Unione europea contribuisce all’esclusione sociale dei musulmani e raccomandiamo dunque l’approvazione di un quadro europeo per l’adozione di strategie nazionali intese a combattere l’islamofobia, anche allo scopo di lottare contro la discriminazione che ostacola l’accesso all’istruzione, all’occupazione e all’alloggio. Infine, un emendamento GUE sancisce che combattere il traffico di armi deve essere una priorità dell’UE nella lotta contro le forme gravi e organizzate di criminalità internazionale. Ulteriore punto adottato: il potenziamento della cooperazione nell’ambito dei meccanismi di scambio di informazioni, nonché della tracciabilità e distruzione delle armi proibite.

Restano i punti negativi. Il GUE-NGL è contrario da tempo all’introduzione della Direttiva PNR (soprattutto se estesa ai voli interni all’Unione, come richiesto nella risoluzione): si tratta di una misura che il Garante europeo per la protezione dei dati e altre importanti autorità hanno definito non necessaria né proporzionata. Allo stesso modo, concordiamo con l’analisi effettuata da European Digital Rights (EDRI) secondo cui gli standard di crittografia non dovevano essere arbitrariamente indeboliti, come di fatto lo sono nel rapporto approvato dal Parlamento, perché ciò rischia di avere effetti negativi sulla privacy di persone innocenti.

Riteniamo inoltre che la risoluzione criminalizzi le compagnie internet, obbligandole a una sistematica cooperazione con gli Stati e mettendole praticamente sotto la loro tutela. È un messaggio assai pericoloso che per questa via viene trasmesso a regimi autoritari nel mondo, tanto più che di tale misura si chiede l’applicazione perfino per quanto concerne materiale considerato legale.

Anche se di per sé non sono affatto contraria ai controlli alle frontiere, ritengo tuttavia – come si affermava in un emendamento presentato dal gruppo S&D sfortunatamente rigettato – che gli Stati Membri “debbano astenersi dal ricorrere a misure di controllo alle frontiere finalizzate alla lotta contro il terrorismo e all’arresto di individui sospettati di terrorismo, con lo scopo di esercitare un controllo dell’immigrazione“. Più precisamente, l’emendamento manifestava estrema preoccupazione “per le misure adottate da alcuni governi dell’UE, volte a introdurre ulteriori controlli alle frontiere onde impedire l’ingresso nell’Unione di rifugiati e migranti, con il rischio che tali misure siano basate sull’arbitrarietà e su un ‘profiling’ razziale o etnico del tutto contrario ai principi dell’UE, e che viola inoltre gli obblighi internazionali degli Stati membri in materia di diritti umani“.

Al pari dell’European Network Against Racism (ENAR), quel che temo è che una serie di proposte contenute nella relazione possa mettere a repentaglio alcuni diritti fondamentali nell’UE, soprattutto nei confronti dei rifugiati e delle persone di fede musulmana o delle persone percepite come tali, esplicitamente confusi gli uni con le altre.

Particolarmente grave mi è parso il rifiuto di un nostro emendamento specifico contro la vendita di armi a paesi della Lega Araba come Arabia Saudita, Egitto e Marocco, e contro la collusione politica con Paesi terzi a guida dittatoriale. Nonostante il voto a maggioranza espresso sul legame fra l’estendersi dell’islamofobia e gli “anni di guerra contro il terrorismo”, un emendamento GUE più preciso in materia è stato respinto: quello che criticava il ruolo esercitato dagli interventi militari dell’Occidente in Afghanistan, Medio Oriente e paesi dell’Africa del Nord nelle esperienze individuali di radicalizzazione violenta.

Per quanto riguarda la politica interna, è stato rifiutato un nostro emendamento che raccomandava, con terminologia più dettagliata, interventi di risanamento nelle periferie urbane d’Europa.

Per finire, è stato rigettato uno dei nostri emendamenti che consideravamo fondamentale: il rifiuto della “falsa dicotomia tra sicurezza e libertà”. In ogni democrazia il rifiuto di tale dicotomia dovrebbe essere un concetto ovvio. Non lo è più di questi tempi, dominati più dalla paura e dalla collera che dalla ragione e dalla rule of law.

 

[1] Tra cui Amnesty International, Statewatch, European Digital Rights (EDRI), European Network Against Racism (ENAR), Forum of European Muslim Youth and Student Organisations (FEMYSO), A Jewish Contribution to an Inclusive Europe (CEJI).


Si veda anche:

Versione finale del rapporto Dati  (qui il testo inglese):

Terrorismo: non imitare Tony Blair

Statement by GUE/NGL MEP Barbara Spinelli on the prevention of radicalisation report vote

Barbara Spinelli. Radicalizzazione violenta: i rischi della politica della paura

Addio a Luciano Gallino

di domenica, Novembre 8, 2015 0 Permalink

Senza Luciano Gallino mi sento molto povera. Perdo un punto di riferimento sicuro, e un amico. Ricordo le sue analisi acute sulla crisi dell’Europa e sul colpo di stato delle banche e dei governi dell’Unione. Ogni volta che avevo un dubbio, è a lui che mi rivolgevo. Non dimenticherò mai la sua estrema e costante gentilezza, i suoi consigli sempre saggi e calmi, la sua solidarietà anche personale, che non è mai venuta meno. Non cesserò, per tutto questo, di essergli grata e di rimpiangerlo.

barbara spinelli

Contro gli accordi di rimpatrio in Turchia

(Discorso previsto ma non pronunciato per chiusura del dibattuto)

Strasburgo, 27 ottobre 2015

KEY DEBATE: Conclusions of the European Council meeting of 15 October 2015, in particular the financing of international funds, and of the Leaders’ meeting on the Western Balkans route of 25 October 2015, and preparation of the Valletta summit of 11 and 12 November 2015.

Presenti per la Commissione: Jean-Claude Juncker, Frans Timmermans, Federica Mogherini, Dimitris Avramopoulos.

Presente per il Consiglio Europeo: Donald Tusk

Temo gli accordi con la Turchia, perché rischiano di esser conclusi con il solo obiettivo di allontanare dai nostri confini il dramma dei rifugiati. Temo che venga avallato, con il nostro consenso, un regime che sta reprimendo la minoranza curda. Che rinchiuderà i rifugiati in campi per anni, magari mandando a scuola i bambini come ci garantisce Jean Claude Juncker, ottenendo il nostro silenzio sui diritti fondamentali violati in Turchia. Temo infine sia avallata – nella guerra in Siria – una linea turca intesa a colpire i curdi più che l’Isis. Il Presidente del Consiglio Europeo Tusk è stato esplicito: “La Turchia ci sta chiedendo di sostenere la formazione di una safe zone nel Nord della Siria, opzione che Mosca rifiuta”. Dovremmo rifiutarla anche noi: la safe zone serve solo a controllare e intrappolare i curdi in Siria.

Caro Presidente Juncker, Lei minaccia: “No registration, no right”. Sono formule del tutto inappropriate, oltre che pericolose. Ci sono diritti (a non subire violenze nelle registrazioni e nel rilevamento delle impronte digitali, al non refoulement) che sono incondizionati.

Pablo Iglesias denuncia le larghe intese che umiliano la democrazia in Europa

Un discorso di addio al Parlamento europeo che vale la pena ricordare. Pablo Iglesias, che riprende la battaglia politica in Spagna dopo quindici mesi di lavoro a Bruxelles, condanna la grande coalizione parlamentare che blocca e umilia la democrazia in Europa. Condanna il compromesso parlamentare che ha permesso a Jean-Claude Juncker di restare al suo posto nonostante le accuse di frode fiscale che lo hanno coinvolto in Lussemburgo. Condanna la falsa retorica di Gianni Pittella, presidente del gruppo socialista, che cita Dante e intanto avalla tutte le regressioni  delle larghe intese tra popolari, socialisti e liberali. Diffida Manfred Weber, capogruppo dei Popolari, dall’interferire nell’esito delle elezioni portoghesi con giudizi simili a quelli, indecenti, espressi nei giorni scorsi dal Presidente del Portogallo Aníbal Cavaco Silva contro un possibile accordo di governo tra socialisti e sinistre radicali («Devo fare di tutto, e rientra nei miei poteri costituzionali, per prevenire l’invio di falsi segnali alle istituzioni finanziarie, agli investitori e ai mercati»).

Strasburgo, 27 ottobre 2015

KEY DEBATE: Conclusions of the European Council meeting of 15 October 2015, in particular the financing of international funds, and of the Leaders’ meeting on the Western Balkans route of 25 October 2015, and preparation of the Valletta summit of 11 and 12 November 2015

Pablo Iglesias, en nombre del Grupo GUE/NGL. Señor Presidente, la primera vez que intervine aquí fue hace quince meses, en representación de este Grupo. Fue un honor hacerlo y fue un honor competir con usted por la presidencia de este Parlamento. Dije entonces que aspirábamos a una Europa diferente, a una Europa que fuera un poco menos dura con los débiles y un poco menos complaciente con los poderosos. Creo que, por desgracia, esa afirmación de hace quince meses sigue siendo y sigue estando vigente hoy.

Recordé, en aquel discurso de hace quince meses, a los combatientes españoles que lucharon contra el fascismo y contra el horror como la mejor contribución de mi patria al progreso de Europa, como la mejor contribución de mi patria a una Europa social, una Europa democrática y una Europa respetuosa de los derechos humanos. Cuando oigo gritos xenófobos en esta Cámara recuerdo que, en mi patria, a aquellos que insultaban, a aquellos que atemorizaban, se les decía «No pasarán». Pero también me molesta escuchar cierta hipocresía en esta Cámara en algunos que lloran lágrimas de cocodrilo y defienden —dicen defender— los derechos humanos.

Señor Weber, ha hablado usted de extremismos para referirse a lo que puede ocurrir en Portugal. Aprendan ustedes a respetar la democracia. Aprendan ustedes que, a veces, los ciudadanos votan cosas distintas a lo que representan ustedes.

(Aplausos)

El señor representante del Grupo liberal —me va a perdonar que, después de quince meses practicando todas las mañanas frente al espejo, siga siendo incapaz de pronunciar su apellido— ha dicho que esto no es un problema de socialdemócratas, de liberales o de populares. Sí, efectivamente. Efectivamente, ustedes han estado de acuerdo en los elementos fundamentales que han implicado una política exterior europea que ahora estamos pagando y que tiene que ver con la situación de miseria y humillación que están viviendo millares de familias a las puertas de Europa.

Hoy hablamos, otra vez, de guerra y de desolación a las puertas de Europa, de familias a las que se está respondiendo con alambradas. Y yo digo que los europeos no podemos olvidar lo que significa una guerra, no podemos olvidar lo que significan el horror y la pobreza y tener que huir del horror y de la pobreza. Y no podemos humillar a esa gente, porque humillar a esa gente es humillar a Europa. Como es humillar a Europa, señor Weber, acabar con el Estado del bienestar. Como es humillar a Europa acabar con los derechos sociales. Es humillar a Europa entregar a los Gobiernos a la arrogancia de los poderes financieros y atacar la soberanía. Es humillar a Europa favorecer el fraude fiscal, como usted, señor Juncker. Como usted, que favoreció —cuando era ministro de Hacienda— negocios secretos, tratos secretos con multinacionales para que tuvieran que pagar impuestos al 1 %, mientras los ciudadanos europeos tienen que pagar impuestos. Y luego hablan ustedes de presupuestos. Y usted se sienta ahí, señor Juncker, porque gente como usted, señor Pittella, ha permitido que el señor Juncker esté sentado ahí; porque ustedes, los socialistas, han mantenido una gran coalición con los populares en esta Cámara.

Así que, menos citar a Dante, señor Pittella, y más ponerse del lado de la gente y acabar de una vez con esta maldita gran coalición.

(Aplausos)

Vuelvo a mi país para que no haya, para que no siga habiendo en España gente como ustedes en el Gobierno, pero quiero pedirles algo antes de marcharme: cambien su política. La crisis de los refugiados no se resuelve con alambradas. La crisis de los refugiados no se resuelve con policía. Se resuelve con una política responsable. Dejen de jugar al ajedrez con los pueblos del Mediterráneo. Trabajen por la paz en lugar de fomentar guerras. Ayuden a las personas que están huyendo del horror. No sigan destruyendo la dignidad de Europa, señor Juncker.

(Aplausos)

L’intollerabile intrusione dei cittadini

Mercoledì 28 ottobre il Parlamento ha votato in plenaria una risoluzione sull’Iniziativa cittadina europea (Ice), di cui ero “relatore ombra”. La risoluzione migliora in misura apprezzabile una serie di aspetti tecnici, ma purtroppo è passato un emendamento – firmato da socialisti e popolari – che lascia alla Commissione il monopolio sull’essenziale: il necessario seguito legislativo da dare alle Iniziative coronate da successo. È un emendamento che svuota del tutto questo strumento di democrazia diretta e in pratica lo uccide, confermando lo status quo: da quando l’Iniziativa è stata istituita, solo 3 ICE hanno superato la soglia di 1 milione di firme e nessuna di esse è stata presa in considerazione dalla Commissione, come promesso nei Trattati. È caduto anche l’emendamento che chiedeva di poter estendere i poteri dell’ICE alle modifiche dei Trattati esistenti. Per questo il voto che ho raccomandato al gruppo GUE-NGL è passato dal positivo all’astensione.


Per una sintesi dei risultati del voto si veda anche:

MEPS push for simpler rules on EU quasi-referendums

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