La morte dei fatti: stimare il latitante non è obbligatorio

di Barbara Spinelli

«Il Fatto Quotidiano», 24 gennaio 2020

Non è del tutto chiaro quale sia il gesto che la figlia di Craxi si aspetta dal presidente Mattarella. Se una cerimonia pubblica che nobiliti un politico condannato fra il ’96 e il ’99 per corruzione e finanziamento illecito, e fuggito nel ’94 a Hammamet per sottrarsi alle imminenti sentenze. O se quel che si chiede è un sovvertimento linguistico che sostituirebbe il termine latitante con quello di esule, cambiando non solo una biografia ma la storia italiana postbellica.

Craxi ridefinito esule certificherebbe la natura liberticida di uno Stato da cui il leader socialista non poteva che emigrare, se voleva salvare la democrazia costituzionale. Attesterebbe la presenza di una giustizia forcaiola, l’invalidità generalizzata delle sue sentenze. Anche qualora il potere giudiziario avesse commesso errori negli anni 90, e certamente ne commise, la sua legittimità verrebbe devastata.

A vent’anni dalla morte di Craxi ancora si discute del suo status – latitante o rifugiato? – e la piena riabilitazione è invocata dai molti che in questo lasso di tempo hanno imitato i suoi modi di far politica: solitari, spesso brutali, martirologici quando si profilavano indagini giudiziarie. Primum Vivere era il suo motto e voleva dire: la politica è un’avventura di visibilità che deve sopravvivere a ogni costo, e la sua molla è un vittimismo costante, clanico, pregiudizialmente ostile ai giudici. I fatti evaporano, diventando opinioni e in quanto tali discutibili. Regna non l’autonomia della politica, ma l’autonomia delle tavole rotonde tra giornalisti. Evapora anche la sentenza della Corte europea dei diritti umani, che nel 2002 ritenne il comportamento dei giudici conforme al diritto italiano.

Questo non significa negare le novità che Craxi incarnò con le sue politiche. Novità che nella sostanza sono due: l’atteggiamento tenuto durante il rapimento di Moro nel ’78, e il gesto di indipendenza dagli Stati Uniti (spettacolare anche se effimero) nella vicenda di Sigonella dell’85.

Premetto che, nel caso Moro, non aderii al partito della trattativa guidato dal Psi, ma col passare dei mesi e degli anni mi sono convinta che la linea di Craxi (e probabilmente di Paolo VI) era giusta e avrebbe forse salvato la vita di Moro con danni ben minori di quelli prodotti da un assassinio che gli anti-trattativisti precipitarono.

Il secondo caso è più che complesso: un gruppo di terroristi sequestrò la nave di crociera italiana Achille Lauro ed eseguì un misfatto che nessuna battaglia contro l’occupazione della Palestina poteva giustificare: Leon Klinghoffer, passeggero Usa ebreo e paraplegico, venne ucciso e gettato in mare. Interpellato da Craxi, Arafat si disse ignaro dell’operazione e mandò Abu Abbas come mediatore, anche se in seguito un tribunale italiano lo condannò in contumacia come artefice del sequestro (basandosi tuttavia solo su documenti americani e israeliani). La tensione fra i due alleati quasi sfociò in una colluttazione militare, nella base di Sigonella, tra le forze italiane e i soldati Usa accorsi per catturare subito sia i dirottatori sia Abbas. Craxi non tollerò l’incursione extraterritoriale e difese il negoziato in corso con Arafat. La polizia prese in custodia i dirottatori ma non Abbas, imbarcato in un aereo jugoslavo perché non ritenuto a quel tempo autore o mandante del sequestro. Arafat e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina non erano in blocco terroristi, secondo Craxi. Su Israele e la Palestina occupata egli aveva una posizione autonoma, come l’ebbero altri statisti tra cui Moro.

Quel che crea turbamento, nella beatificazione di Craxi, è qualcosa di più profondo: è l’uso perverso che viene fatto, per fini politici contingenti, di personalità che vengono fatte parlare post mortem, e fagocitate cannibalescamente tramite riscrittura di particolari segmenti della loro storia. Fagocitate indistintamente da familiari e non familiari, in una confusione di ruoli che trasforma la giustizia in ordalia clanica tra consanguinei. È un vizio che da noi assume proporzioni grottesche: del defunto si fa subito un santino o parente stretto. È il caso di Craxi, ma in qualche modo anche del giornalista Giampaolo Pansa, nonostante le radicali differenze fra le responsabilità dell’uno e dell’altro. Ambedue sono osannati appena defunti e strumentalizzati per accendere polemiche, senza un interesse vero a quello che nell’arco di una vita hanno fatto o scritto (la sostanziale equiparazione tra violenze dei partigiani e violenze di Salò, negli scritti di Pansa degli ultimi 17 anni). Questa è, da noi, la “memoria condivisa”.

Ma torniamo a Craxi: di lui si ricorda oggi Sigonella, ma si dimentica che se fuggì fu perché sentiva venire condanne definitive, alla fine della legislatura quando la sua immunità sarebbe venuta meno. Non scandalizza che venga canonizzato da chi sempre lo sostenne: è segno di coerenza. Non coerenti sono i politici e giornalisti che ieri s’indignarono per la latitanza e oggi ammutoliscono imbarazzati. È come se fosse ormai un dato acquisito che in Italia esiste una dittatura dei giudici, che Craxi non poteva venire in Italia per curarsi e che non è cosa giusta difendersi nei processi e scontare le pene. Altre spiegazioni sono difficili da trovare.

Strano e opaco è il rapporto dell’Italia con il proprio passato. Non vi è stato, da noi, il lavoro sulla memoria storica avvenuto in Germania. Basti ricordare l’abbraccio di Andreotti al maresciallo Graziani, responsabile delle stragi in Etiopia e reduce di Salò, nel maggio del 1953. In Italia molto cattolicamente non si espia, ma si assolve con qualche Ave Maria e processione. E a forza di assolvere si crea appunto “memoria condivisa”: immenso malinteso di chi vuol abolire i conflitti ineliminabili per meglio attizzare conflitti evitabili.

In un articolo sul sito Jacobin Italia, Luca Casarotti rievoca una frase illuminante contenuta in una sentenza pronunciata nel 2004 dalla Cassazione, a proposito del reato di diffamazione: “Non è obbligatorio stimare qualcuno”. Invece sembra essere obbligatorio stimare o riabilitare, se si vuol far parte della gente invitata in Tv per condividere memorie. La frase è riferita ai libri di Pansa, ma funziona molto bene per Craxi.

L’unica cosa che non torna, in questa bulimica fagocitazione dei corpi, è l’ammirazione che continua a circondare Enrico Berlinguer. Non si può beatificare al tempo stesso chi fu condannato per corruzione, e chi negli anni 80 auspicava una società che non fosse un “immondezzaio”.

© 2020 Editoriale Il Fatto S.p. A.