I disastri dello status quo

La versione inglese di questo testo è stata pubblicata da openDemocracy

È opinione molto diffusa che Alexis Tsipras abbia smentito chi lo considerava sconfitto, annunciando il ritorno alle urne il 20 settembre e chiedendo un nuovo mandato popolare. È un’opinione non solo affrettata ma soprattutto irrealistica, perché nella sostanza nulla cambierà in Grecia, tutto è già scritto nel Memorandum d’intesa che il Premier ha sottoscritto con le istituzioni europee il 12 luglio scorso: l’austerità che continua e si inasprisce, la svendita di gran parte del patrimonio ellenico a imprese in gran parte tedesche, il fallimento di una sinistra che si illudeva di scardinare l’europeismo realmente esistente per fondarne un altro, non più germanocentrico e non più prigioniero del dogma neoliberista. Anche se il debito greco venisse ristrutturato – prima o poi lo sarà, dal momento che resta insostenibile – la strada è tracciata e non sono i greci ad averla decisa né a poterla cambiare. La constatazione di Stefano Fassina, ex vice ministro dell’economia uscito dal Pd italiano, è impietosa e appropriata: «Promettere un’interpretazione ‘sociale’ del Memorandum è propaganda. Quando ti sei impegnato a fare un avanzo primario di 3,5 punti percentuali e tagli pesanti già da quest’anno puoi dire addio al sostegno del reddito».[1]

Una via d’uscita differente era ed è possibile? Fuori dalle istituzioni europee era forse possibile, ma impraticabile: un Grexit gestito in maniera ordinata non è al momento consentito né dagli Stati forti dell’Unione né dalla Bce. Quanto alla proposta fatta a suo tempo da Yanis Varoufakis (rifiutare il memorandum, creando la liquidità necessaria a fronteggiare la chiusura delle banche tramite una provvisoria moneta parallela), sarebbe stata rigettata durante una riunione ristretta di gabinetto. Restano le riforme interne, che Tsipras vuol ottenere all’ombra del Memorandum: associando ad esempio il Parlamento europeo, “unico organo dell’Unione eletto dai cittadini” al Quartetto dei Creditori che ha preso il posto della Trojka (Commissione europea, Banca centrale europea, Fondo Monetario, Meccanismo europeo di stabilità). Difficile pensare che gli elettori greci si entusiasmino all’idea che il loro potere venga prima svuotato, poi trasferito a un Parlamento europeo dominato stabilmente da ben diverse coalizioni di forze. Il Premier dimissionario è certamente consapevole che il suo odierno orizzonte è quello di un fallimento: altrimenti non avrebbe ammesso di aver firmato “sotto ricatto” il Memorandum.

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Atene, Europa

Atene, Giornate di studio GUE/NGL, 2-4 giugno 2015

Intervento di Barbara Spinelli (English version here)

Da quando la crisi ha colpito l’Europa, siamo abituati a dire che l’Unione ha usato la Grecia come cavia. L’animale da esperimento andava sottoposto a una terapia intensiva di austerità, e la cura doveva essere somministrata da un potere oligarchico – la trojka – che in parte si spacciava per europeo e addirittura federale, in parte includeva il Fondo monetario ed era quindi inter-nazionale. L’esistenza di un laboratorio greco è pienamente confermata dal negoziato che Syriza ha avviato con l’Unione e il Fondo monetario da quando ha vinto le elezioni del 25 gennaio.

È venuto tuttavia il momento di andare più a fondo nell’analisi. Dobbiamo capire la genesi dell’esperimento in corso da 5 anni, e quel che ci dice sull’Europa e sulle finalità del test. Lo scopo comincia infatti a essere chiaro: un’oligarchia tecnico-politica sta usando la Grecia per accrescere il proprio potere disciplinatore nell’Unione, e ciò avviene collaudando un preciso modello di democrazia, de-costituzionalizzata e de-parlamentarizzata. Di questa de-costituzionalizzazione vorrei parlare, altrimenti non capiremo come mai gli sperimentatori continuino ad affermare che l’esperimento è stato non solo necessario ma addirittura efficace, pur sapendo che l’efficacia è più che dubbia e che l’Unione è in frantumi. Il Fondo monetario per primo ha confessato nel 2013 di aver mal calcolato gli effetti dell’austerity su crescita e occupazione.

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Immigrazione: idee e parole sbagliate, si perdono tempo e vite

Intervista di Stefano Citati, «Il Fatto Quotidiano», 13 maggio 2015

Le richieste fatte all’Onu da Federica Mogherini sull’emergenza immigrazione verranno soddisfatte?
Ho forti dubbi che venga approvata una risoluzione in tal senso; e Gentiloni e Mogherini paiono troppo sicuri dell’appoggio di Russia e Cina nel Consiglio di Sicurezza. E poi, come ha giustamente ricordato Mattarella, ci vuole l’accordo dei libici, che sono parecchio arrabbiati perché dicono di non esser stati consultati. E anche il segretario Onu Ban Ki-moon si era detto contrario all’uso della forza: una scelta – preconizzata dall’Agenda predisposta dalla Commissione – che per me rimane sciagurata.

In questi giorni si gioca con le parole, i distinguo sui termini: l’operazione militare di cui parlò Renzi è divenuta una “operazione navale” nelle dichiarazioni della Mogherini.
Al di là delle sfumature, nell’Agenda si parla di un’“operazione di distruzione”; quella che con Mare Nostrum era una missione di Search & Rescue (ricerca e soccorso) è ora un Search & Destroy (cerca e distruggi): è scritto nero su bianco il proposito di distruggere le barche dei presunti trafficanti, addirittura all’interno delle acque territoriali libiche. Ma come capire a chi appartengono i barconi? Possono essere pescherecci usati occasionalmente per altri scopi.

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Summit inutile, Europa e Roma ipocrite

Intervista di Stefano Citati, «Il Fatto Quotidiano», 25 aprile 2015

Barbara Spinelli, alla fine del vertice europeo sull’immigrazione Angela Merkel ha detto che oltre triplicare i fondi per Triton un accordo non c’era; subito dopo si è presentato Renzi magnificando il risultato del summit. Chi ha ragione?
Non aderisco alla politica della Merkel sul Mediterraneo, ma sono sicuramente più d’accordo con l’interpretazione data dal Cancelliere che col presidente del Consiglio. Al di là dell’ipocrisia spettacolare del Consiglio europeo tutto intero, e non solo di Renzi, ho letto nel comunicato finale grandi frasi di condanna e impegno, ma sul piano dell’azione non ho trovato assolutamente nulla all’altezza del numero dei morti nel Mediterraneo. Nel dettaglio, i fondi annunciati restano insufficienti, si torna alle cifre spese per Mare Nostrum. La sostanza non cambia: nel mandato che Frontex affida a Triton non ci sono le missioni di search & rescue, ricerca e salvataggio; non si estende l’orizzonte delle operazioni che restano limitate alle 30 miglia dalle coste italiane, mentre generalmente i naufragi accadono in alto mare, presso Libia o Tunisia. Altro errore: l’azione si concentra praticamente solo sui trafficanti, mutuando il tipo di mandato, militare o paramilitare, dalle missioni anti-pirati nel Corno d’Africa.

In questo caso è passata la linea Renzi, che poi è la stessa proposta da Berlusconi, Santanchè e Salvini. Il premier e la Ue l’hanno fatta propria. L’idea di fondo è che il solo modo per non far morire i migranti è di non farli partire: l’incomprensione degli esodi odierni è totale. Non sono i trafficanti a far partire i migranti: sono le guerre – di cui siamo in parte responsabili – le carestie e la povertà, che spingono a fuggire. E resta da capire: come distruggere i barconi, come individuarli? Ce lo dicono i pre-cog di Minority Report, quali sono quelli illegali? Spesso si tratta di pescherecci, e i pescatori stessi si trasformano in trafficanti.

In pochi giorni si è avuta un successione di eventi legati gli uni agli altri: il naufragio dei migranti, l’annuncio dell’uccisione dell’ostaggio italiano da parte di un drone Usa e l’annuncio dello smantellamento di una cellula di al Qaeda ben ramificata in Italia. Una serie di coincidenze casuali o qualcosa di più?
I droni hanno dimostrato che i danni collaterali che producono possono essere più gravi dei risultati che ottengono. Il governo si è comportato da vero vassallo, lasciando la rivelazione dell’accaduto al presidente Usa. La catena degli eventi non mi pare del tutto casuale. Giovedì sul «New York Times» Renzi ha detto una cosa vergognosa: “Non tutti i migranti sui barconi sono famiglie innocenti”. Vengono così messi sullo stesso piano migranti economici, fuggitivi, trafficanti, terroristi. L’equiparazione dà vita a un diritto emergenziale: uno stato di eccezione europeo. Dal 2001 in nome della lotta antiterrorista vengono sospesi parecchi articoli delle Costituzioni nazionali e della Carta europea dei diritti fondamentali. Bisognerebbe guardare in faccia le vere radici dell’esodo: l’arco di instabilità tra Africa e Asia, dove conflitti e Isis sono stati facilitati proprio dalla guerra permanente al terrorismo.

L’Ue stenta anche sul fronte interno: la vicenda della Grecia si trascina tra contrasti e aperture.
L’illusione è quella iniziale dell’euro: l’idea che si possa avere una moneta unica senza unità politica. Il conflitto con Atene sarebbe inimmaginabile in una Federazione: Washington non farebbe uscire dal dollaro uno Stato in default. La verità è che Atene è stata usata come una cavia, senza che nessuno voglia ammetterlo. Tanto più triste perché, mentre di solito in Europa è la destra estrema ad avvantaggiarsi delle grandi crisi, stavolta è la sinistra a gestire la situazione: una sinistra che per di più non vuol rompere con l’Unione. Con la Grecia, la Ue sta fallendo uno dei suoi mandati fondamentali: quello della solidarietà.

Come andranno a finire le due vicende?
Sul Mediterraneo, l’Europarlamento potrebbe contare molto. Il trattato di Lisbona gli dà il potere di votare contro l’aumento dei fondi a Frontex, obbligando il Consiglio a cambiare politica. Quanto alla Grecia, tutte e due le parti devono sforzarsi. Atene farebbe bene a non irritare Berlino con richieste di riparazioni belliche. E i suoi partner devono ridurre il disastro provocato in Grecia dall’austerity, se non vogliono distruggere l’Unione.

Perché deve intervenire l’Onu

Articolo pubblicato su «Il Sole 24 Ore», 21 aprile 2015

Settecento morti nel Mediterraneo nella notte tra sabato 18 aprile e domenica, a 60 miglia dalle coste libiche. È il più grande sterminio in mare dal dopoguerra, dopo i 366 morti del 3 ottobre 2013 a Lampedusa. Inutile snocciolare i numeri delle scorse settimane, le percentuali in costante aumento: sempre giunge l’ora in cui il numero acceca la vista lunga, la storia che sta alle spalle, le persone che la cifra indica e al tempo stesso cancella. Enumerare non serve più, se non chiamiamo a rispondere gli attori politici del dramma: la Commissione europea, gli Stati dell’Unione, l’Alto Commissariato dell’Onu. A tutti va ricordato che le normative sul soccorso dei naufraghi e sul non respingimento sono divenute cogenti in contemporanea con l’unificazione europea, in memoria del mancato soccorso alle vittime dei genocidi nazisti. Sono la nostra comune legge europea.

A questi attori politici bisogna rivolgersi oggi con una preliminare e solenne domanda: smettete l’uso di parole altisonanti; passate finalmente all’azione; non reagite con blocchi navali che tengano lontani i fuggitivi dalle nostre case, come si tentò di tener lontani gli ebrei in fuga dal nazismo. Questo è un giorno di svolta. A partire da oggi non è più possibile evocare imprevisti incidenti, e al posto di emergenza occorre mettere la parola urgenza. Bisogna guardare in faccia la realtà, e chiamarla col nome che merita: siamo di fronte a crimini di guerra e sterminio in tempo di pace, commessi dall’Unione europea, dai suoi 28 Stati, dai Parlamentari europei e anche dalle Nazioni Unite e dall’Alto Commissariato dell’Onu. Il crimine non è episodico ma ormai sistemico, e va messo sullo stesso piano delle guerre e delle carestie acute e prolungate. Il Mar Mediterraneo non smette di riempirsi di morti dal 28 marzo 1997, quando, nel naufragio della Katër i Radës, 81 profughi albanesi perirono nel canale di Otranto; di altri 25 il mare non restituì mai i corpi. Lo sterminio dura da almeno 18 anni: più delle due guerre mondiali messe insieme, più della guerra in Vietnam. È indecenza parlare di “cimitero Mediterraneo”. Parliamo piuttosto di fossa comune: non c’è lapide che riporti i nomi dei fuggitivi che abbiamo lasciato annegare.

Le azioni di massima urgenza che vanno intraprese devono essere, tutte, all’altezza di questo crimine, e della memoria del mancato soccorso nella prima parte del secolo scorso. Non sono all’altezza le missioni diplomatiche o militari in Libia, dove per colpa dell’Unione, dei suoi governi, degli Stati Uniti, non c’è più interlocutore statale. Ancor meno lo sono i blocchi navali, gli aiuti alle dittature da cui scappano i richiedenti asilo, il silenzio sulla vasta destabilizzazione nel Mediterraneo – dalla Siria alla Palestina, dall’Egitto al Marocco – di cui l’Occidente è responsabile da anni.

Le azioni necessarie nell’immediato, eccole:

Urge togliere alle mafie e ai trafficanti il monopolio sulle vite e le morti dei fuggitivi, e di conseguenza predisporre vie legali di fuga presidiate dall’Unione europea e dall’Onu.

Urge organizzare e finanziare interventi di ricerca e salvataggio in mare, non solo lungo le coste europee ma anche in alto mare, lungo le coste del Nord Africa, come faceva Mare Nostrum e come ha l’ordine di non fare Triton. Questo, nella consapevolezza che la stabilizzazione del caos libico non è ottenibile nel breve-medio periodo, e che l’Egitto non è uno Stato democraticamente affidabile.

Urge che gli Stati europei collaborino lealmente a tale scopo (art. 4 del Trattato dell’Unione), smentendo quanto dichiarato da Natasha Bertaud, portavoce della Commissione di Bruxelles: “Al momento attuale, la Commissione non ha né il denaro né l’appoggio politico per predisporre un sistema di tutela delle frontiere, capace di impegnarsi in operazioni di search and rescue”. Una frase che ha il cupo suono dell’omissione di soccorso: un reato contro la persona, nei nostri ordinamenti giuridici.

Occorre che l’Onu stessa si mobiliti e decida azioni d’urgenza, e che il Consiglio di sicurezza sia incaricato di far fronte al dramma con una risoluzione. Se i crimini in mare somigliano a una guerra prolungata o a carestie nate dal tracollo diffuso di strutture statali nei paesi di transito o di origine, non vanno esclusi interventi dei caschi blu, addestrati per il search and rescue. I soccorsi e gli aiuti agli affamati e sfollati sono una prassi sperimentata delle Nazioni Unite. Una prassi da applicare oggi al Mediterraneo.

Ma questo è solo il primo passo. Occorre rivedere al più presto i regolamenti di Dublino. Con una sentenza del 21 dicembre 2011, la Corte di giustizia europea a Lussemburgo pone come condizione essenziale per procedere al trasferimento l’aver positivamente verificato se il migrante corra il rischio di essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti. Si tratta di un vero e proprio obbligo di derogare ai criteri di competenza enumerati nelle norme di Dublino.

Al tempo stesso e con la medesima tempestività, occorre tener conto che i paesi più esposti ai flussi migratori sono oggi quelli del Sud Europa (Grecia, Italia, Cipro, Malta, Spagna): gli stessi a esser più colpiti, dopo la crisi economica iniziata nel 2007-2008, da politiche di drastica riduzione delle spese pubbliche sociali. Spese che includono l’assistenza e il salvataggio di migranti e richiedenti asilo. Il peso che ingiustamente grava sulle loro spalle va immediatamente alleviato.

Occorre pensare a un sistema di accoglienza in Europa che garantisca il diritto fondamentale all’asilo, con prospettive di reinsediamento nei Paesi disponibili, nel rispetto della volontà dei rifugiati.

Infine, la questione tempo. È dallo sterminio presso Lampedusa che Governi e Parlamenti in Europa preconizzano un’organica cooperazione con i paesi di origine e di transito dei fuggitivi, al fine di “esternalizzare” le politiche di search and rescue e di asilo. Il Commissario all’immigrazione Avramopoulos ha addirittura auspicato una “cooperazione con le dittature”, dunque il ricorso ai respingimenti collettivi che sono vietati dalla Convenzione di Ginevra sullo statuto dei Rifugiati del 1951 (art. 33) e dagli articoli 18 e 19 della Carta europea dei diritti fondamentali.

Qui non è solo questione di diritti. È questione anche di tempi, di efficacia. Non c’è tempo per costruire relazioni diplomatiche – nei cosiddetti processi di Rabat e Khartoum – perché i fuggitivi sono in mare qui e ora, e qui e ora vanno salvati: sia dalla morte, sia dalle mafie che fanno soldi sulla loro pelle e riempiono un vuoto di legalità che l’Unione deve colmare. Gli Stati europei e l’Onu si macchiano di crimini e vivono inoltre nell’illusione. Carlotta Sami, portavoce dell’UNHCR, parla chiaro: “Far morire le persone in mare non impedirà ai fuggitivi di cercare sempre di nuovo la salvezza” dalle guerre, dalla fame, dall’odio che oggi si scatena contro i cristiani o altre minoranze religiose, e in futuro sempre più anche dai disastri climatici.

Il tempo delle parole, e dei negoziati diplomatici con i paesi d’origine o di transito, è senza più alcun rapporto con l’urgenza che si impone. È adesso, subito, che bisogna organizzare un’operazione salvataggio dell’umanità in fuga verso l’Europa.

 

C’è ancora un’Europa?

di martedì, Febbraio 10, 2015 0 , , , , Permalink

Editoriale pubblicato su «Il Fatto Quotidiano», 10 febbraio 2015

English version

In un’Unione malata, divisa, minacciata da povertà e diseguaglianze crescenti, le proposte avanzate dal governo greco dopo le elezioni del 25 gennaio andrebbero attentamente esaminate e discusse: tra i 28 Stati membri, tra i 19 governi dell’eurozona, e nella Commissione, nel Parlamento europeo, nella Banca centrale europea. Le risposte fin qui date ad Atene sono non soltanto ingiuste e in alcuni casi pericolosamente antidemocratiche, ma del tutto controproducenti. La possibilità di cambiare radicalmente rotta, nell’amministrazione della crisi e nei programmi di austerità, viene esclusa a priori. La domanda stessa formulata dal governo Tsipras – non una cancellazione del debito ma un negoziato sulle modalità dei rimborsi e un aggancio di questi alla crescita – viene arbitrariamente travisata, demonizzata, e rigettata. Vince l’autocompiacimento della fede, contro i fatti e l’evidenza dei fatti. La malattia, non curata, coscientemente la si vuol perpetuare.

Per questo c’è da allarmarsi, quando i governi (e in primis il governo tedesco) lasciano sola la Banca Europea, con le uniche risposte tecniche che le sono consentite, a sciogliere nodi che essendo eminentemente politici non le spettano. Sola, ad annunciare che non accetterà più i titoli di Stato ellenici, e a dare alla Grecia pochi giorni di tempo per rientrare nei ranghi e obbedire alle direttive impartite a suo tempo dalla troika (la BCE lascia tuttavia una porta aperta: la possibilità di erogare Liquidità d’Emergenza attraverso l’ELA). Vuol dire che la richiesta di studiare il piano ellenico di rientro dal debito non sarà neppure presa in considerazione. Che al governo greco è vietato fronteggiare l’emergenza umanitaria con aumenti del reddito minimo, con la restaurazione di servizi pubblici basilari nell’istruzione e nella sanità, con nuovi investimenti, con tasse patrimoniali. Vuol dire che non si discuterà del Piano Marshall – ben più consistente del Piano Juncker – che il ministro del Tesoro Yanis Varoufakis ha proposto al governo Merkel, chiedendogli di divenire l’“egemone” di un’Europa da guarire e rifondare. Vuol dire che l’Europa così com’è non è considerata affetta da una crisi sistemica tale da mettere in questione non qualche Stato indebitato ma l’intera architettura dell’unione monetaria. Significa infine chiudere gli occhi di fronte all’essenziale: il divario che va estendendosi fra la sovranità dei cittadini, iscritta nelle singole costituzioni, e quello che un’élite decide al loro posto. Il fastidio è palpabile e diffuso, verso il tribunale democratico che sono le elezioni.

Personalmente non auspico il ritorno delle Banche centrali nelle mani degli Stati, né la fine dell’indipendenza dell’istituto di emissione. Ritengo che tale indipendenza rappresenti non un ostacolo, ma una precondizione perché il pubblico interesse sia almeno parzialmente tutelato dall’intrusione imprevedibile e infida dei mercati, delle lobby, delle forze politiche di questo o quello Stato. La vera insidia non è racchiusa nell’indipendenza della Banca centrale, ma nella sua eccessiva solitudine. Un comune istituto di emissione senza Europa politica sarà per forza di cose accusato di ingerenza e prepotenza. La Banca centrale è, e deve rimanere, un’istituzione con compiti limitati; non può colmare le lacune della politica. Tuttavia, deve essere più che mai consapevole delle speciali difficoltà e responsabilità che derivano dall’anomalia di una moneta senza Stato.

Una moneta è legittimata se costituisce lo strumento di pagamento e di scambio di un territorio dotato di un governo, di un sovrano politico: in democrazia, un sovrano legittimato dalle urne. Se l’euro non è legittimato, è appunto perché continua a essere una moneta senza Stato. Contrapporre le riforme strutturali dell’eurozona al verdetto delle urne, affermare che le elezioni democratiche non hanno effetto alcuno sugli accordi di gestione della crisi che hanno prodotto disastri umanitari in uno Stato membro è una regressione gravissima. Questa regressione è in atto da molti anni: perdono peso le Costituzioni, i Parlamenti, gli appuntamenti elettorali. La crisi economica che traversiamo è sfociata in crisi delle democrazie. Cresce la propensione a ripetere errori del passato, precipitando un popolo nell’umiliazione: tende a ripeterli proprio Berlino, che sperimentò tale umiliazione dopo la Prima guerra mondiale.

Continuare a ripetere che “l’euro è irreversibile” non ha più senso. È un sotterfugio performativo, che appartiene alla sfera del pensiero magico e non ha nulla a che vedere con la realtà e con la sua possibile evoluzione. Nessuna conquista politica o sociale è irreversibile. Non dobbiamo andare molto indietro nella storia per sapere che la nostra civiltà è, come tutte le altre, mortale.


Is there still a Europe at all?

In a Union which is ill, divided and threatened by growing poverty and inequality, the proposals presented by the Greek government after the elections on 25 January should be examined and discussed carefully: among the 28 member states, among the Eurozone’s 19 governments and within the Commission, the European Parliament and the European Central Bank. The answers Athens has received so far are not just unfair and sometimes dangerously antidemocratic, they are entirely counter-productive. The possibility of radically changing course in managing the crisis and regarding the austerity programmes, is excluded without discussion. The very request made by the Tsipras government – not the cancelling of the debt, but rather, negotiations on how to pay it back, linking repayments to growth – has been arbitrarily misconstrued, demonised and rejected. What wins out is complacency deriving from faith, against the facts and the evidence they provide. No cure is provided for the disease, and there is a conscious will to perpetuate it.

This is why there is cause to be alarmed, when governments (and first of all the German government) leave the European Bank on its own with the only technical answers that it is allowed to offer, to untie knots that are eminently political and, hence, are not its competence. Without any political indication, alone on the stage, the ECB announced that it will no longer accept Greek bonds and gave Greece a few days to return within the ranks and obey the directives issued by the troika some time ago (nonetheless, it left a door open: the possibility of providing emergency assets through Emergency Liquidity Assistance, ELA).

This means that the request to examine the Hellenic plan to pay back its debt won’t even be considered. That the Greek government has been forbidden from tackling a humanitarian emergency by reintroducing the minimum wage, by restoring essential public education and health services, through new investments, by taxing property and assets. This means that there won’t be any discussion of the Marshall Plan – a lot more consistent than the Juncker Plan – which Yanis Varoufakis, the minister of the Treasury, has proposed to the Merkel government, asking it to become the “hegemonic” force in a Europe that must be cured and founded anew. This means that Europe is not deemed to be affected by a systemic crisis which calls into question the entire architecture of the monetary union, rather than a few indebted states. Finally, it means closing one’s eyes when facing something that is of fundamental importance: the gap that is widening between citizens’ sovereignty, which is written into national constitutions, and what an elite decides in their stead. Annoyance towards the democratic tribunal which is represented by elections is noticeable and widespread.

Personally, I neither wish for a return to central banks in the hands of states, nor for an end of their independence. I do not consider this independence an obstacle, but rather a prerequisite in order for public interest to be at least partly safeguarded from the unpredictable and treacherous intrusions by the markets, lobby groups, or one state or another’s political forces. The real pitfall does not lie in the Central Bank’s independence, but rather in its excessive solitude. A common central bank without a politically united Europe will necessarily end up being accused of interference and bullying. The Central Bank is, and must remain, an institution with limited functions; it cannot fill the gaps left by politics. However, now more than ever, it must be conscious of the special difficulties and responsibilities that derive from the anomaly of having a currency without a state.

A currency is legitimated if it constitutes the payment and exchange instrument for a territory that has a government, a political sovereign: in a democracy, it is a sovereign legitimated by the ballot boxes. If the euro is not legitimated, it is precisely because it continues to be a currency without a state. Placing the Eurozone’s structural reforms in opposition with the verdict from the ballot boxes, and stating that democratic elections do not have any bearing whatsoever on the crisis management agreements that have produced humanitarian disasters in a member state, is a very serious regression. This regression has been taking place for many years: the Constitutions, Parliaments and electoral results have been losing importance. The economic crisis that we are experiencing has given rise to a crisis of democracies. The inclination to repeat past mistakes is growing, plunging a people in humiliation: and it is Berlin which is bent on repeating them, in spite of experiencing this kind of humiliation itself after the First World War.

Continuing to repeat that “the Euro is irreversible” no longer makes any sense. It is a performative subterfuge that belongs to the sphere of magical thought and has no relation with reality and its possible evolution. There isn’t any political or social gain that is irreversible. We don’t need to dig too deep into history to know that our civilisation, like all the others, is mortal.

Immigrazione e crisi della civiltà europea

di lunedì, Febbraio 2, 2015 0 , , , Permalink

Il 30 gennaio 2015 a Bobigny, in Francia, si è svolta per iniziativa del Front de Gauche una conferenza sul tema “Entre défis démocratiques et alternative, quel avenir pour les peuples?” che ha riunito più di cento esponenti della sinistra radicale europea. Vi hanno preso parte Natasha Theodoralopoulou di Syriza, Jose Calderón di Podemos, Renato Soeiro del Bloco de Esquerda (Portugal), Fathi Chamkhi, deputato del Front populaire (Tunisia), Barbara Spinelli, de L’Altra Europa con Tsipras, Marie-Christine Vergiat, eurodeputata del Front de gauche, Éric Coquerel del Parti de Gauche, Pierre Laurent del Parti Communiste Français e Myriam Martin, portavoce del movimento Ensemble.

Questo il testo dell’intervento in francese di Barbara Spinelli.

J’aimerais commencer par quelques chiffres qui me paraissent éclairants. Nous savons que les réfugiés syriens se comptent par millions, suite à une guerre qui semble interminable et dans laquelle l’Europe et les Etats Unis jouent un rôle pour le moins équivoque. 1 million et demi d’entre eux sont accueillis en Tunisie (sur 10 millions d’habitants), 2 millions au Liban (sur 4 millions d’habitants), 1 million en Jordanie (sur 7 millions). Tâchons de ne jamais l’oublier, lorsque nous nous alarmons des 3000 réfugies syriens en France ou des 3.970 débarqués en Italie l’année dernière (en 2014, les demandeurs d’asile syriens dans toute l’Union européenne ont été 48.400). Des amis et camarades syriens me rapportent que les organisations de la société civile de ces pays s’activent de mille manières –  bien davantage que nous ne le faisons – dans l’accueil, voire dans l’intégration.

Mais il n’y a pas que la Syrie, bien entendu. Nous savons que les réfugiés de guerre représentent aujourd’hui une partie consistante de la migration en Europe, e que parmi les réfugiés il y a des Syriens, des Erythréens en fuite de la dictature d’Issayas Afewerki, des Iraquiens, des Afghans et des Soudanais.

Ces faits et ces chiffres illustrent de manière spectaculaire la crise que nous traversons. C’est certes une crise économique et sociale, dans la mesure où tous les pays qui accueillent ces millions de réfugiés sont loin d’être riches. Mais c’est aussi et surtout une crise de civilisation. Toujours encensée, la civilisation européenne figure telle une formidable conquête dans notre Charte des droits fondamentaux et dans le préambule du Traité de Lisbonne. “L’unité dans la diversité” est la devise officielle de l’Union (hélas, elle ne figure pas dans notre Charte – ses rédacteurs aurait-ils été pris de remords ? je me pertmets d’en douter). En réalité, cette civilisation est profondément malade. Elle dit le contraire de ce qu’elle est réellement disposée à faire et de ce qu’elle fait. Le Commissaire à l’immigration Dimítris Avramópoulos, qui se limite pour le moment à la lutte contre les passeurs et au contrôle des frontières via le dispositif Frontex, contribue à la forteresse Europe tout en affirmant haut et fort, lors des les auditions parlementaires à Strasbourg et à Bruxelles, que “jamais l’Union ne sera une forteresse”.

La crise économique, l’appauvrissement de nos peuples et de nos Etats sociaux sont flagrants. Mais notre maladie a des causes plus profondes, qu’ils nous faut reconnaître, étudier, et combattre. C’est justement la maladie de la forteresse et de la fermeture. Les japonais ont un mot pour décrire une pathologie psychosociale qui a pris de vastes proportions lors de la “décennie perdue” commencée au début des années 90: c’est le phénomène des hikikomori, qui nous est désormais familier grâce à la littérature et au cinéma. Les hikikomori sont des adolescents ou des adultes (on parle d’un million de japonais atteints par la maladie) qui ont décidé “tout à coup” de ne plus sortir de leur chambre: par peur, par désespoir, par solitude. Bref, parce qu’ils ont décroché. La traduction du mot est “retrait”.

En quelque sorte, c’est toute l’Union européenne qui est atteinte d’une pathologie hikikomori. Et là où elle ne semble pas “décrocher”, là où elle possède une tradition multiculturelle et accueille davantage de migrants – comme en Suède, en Allemagne ou en France – elle connaît la montée de forces xénophobes ou islamophobes.

Concernant l’immigration et l’absence d’une politique d’accueil, je pourrais vous parler de différents lieux emblématiques. Je pourrais vous parler de Ceuta et Melilla, de Sangatte, de la fermeture des frontières terrestres en Grèce ou du mur anti-immigrants en Bulgarie. Mais puisque mon temps de parole est limité, je me limiterai à l’Italie et aux morts en Méditerranée : parce que le grand naufrage survenu près des côtes de Lampedusa le 3 octobre 2013 a tragiquement montré au monde entier l’ampleur du problème, et parce qu’en Italie la pathologie civilisationnelle dont nous avons parlé prend des allures extraordinaires et est à l’origine d’infinies hypocrisies, affectant jusqu’au langage utilisé pour décrire la situation.

Après le désastre de Lampedusa, le gouvernement italien mit en place une opération de recherche et sauvetage (Search and rescue) appelée Mare Nostrum. Les navires de la marine italienne allaient en haute mer, près des côtes libyennes ou egyptiennes, afin de mieux répondre aux appels de secours et intervenir en cas de risque de naufrage. Plus de 10.000 vies ont été officiellement sauvées, selon les autorités italiennes et européennes : je me souviens que Cecilia Malmström, Commissaire aux Affaires intérieures avant Avramópoulos, s’était exprimée en ce sens devant le Parlement européen. Toutefois, l’opération s’avérant particulièrement onéreuse pour la seule Italie, on a décrété sa substitution par le dispositif communautaire de Frontex (avec l’opération nommée Triton). Mais en réalité, plus que de “substitution”, il faudrait parler de mort de Mare Nostrum – et plus précisément de mort des migrants en mer. Le gouvernement italien (c’est-à-dire la fausse gauche de Renzi en entente avec une partie de la droite) s’est réjoui, en annonçant avec grande fierté que Mare Nostrum était de fait européanisé, du point de vue du financement, mais que sa substance était sauvegardée. C’est un pur mensonge, couvert par l’hypocrisie: Frontex et Triton ne peuvent et ne veulent se substituer à Mare Nostrum, parce que leur tâche est le contrôle des frontières, non le search and rescue. Et parce que leur règle est claire et impérative : ses navires ont l’interdiction d’opérer au delà de 30 miles des côtes italiennes, sur le tracé des frontières européennes, et se limitent à des opérations de contrôle et d’endiguement de l’immigration clandestine. Que reste-t-il du search and rescue? Que reste-t-il de la mémoire du naufrage de Lampedusa?

Permettez-moi de répondre à ces questions par un exemple récent. En novembre dernier, les navires de la garde côtière italienne se sont aventurés en haute mer, pour sauver un certain nombre de fugitifs. Quelques jours plus tard, une lettre signée par le directeur de Frontex Klaus Rosler parvient au département immigration du Ministère de l’Intérieur, dans laquelle l’Italie est sévèrement rappelée à l’ordre. Il ne faut plus s‘aventurer au delà des 30 miles, car la mission de Frontex ne le prévoit pas. En d’autres mots, il faut laisser mourir les fugitifs, point final.

Il en va de même pour ce qui concerne la lutte contre les passeurs et les groupes de nature mafieuse qui contrôlent de fait les flux migratoires. On leur déclare la guerre mais on leur laisse le pouvoir. Ce dernier pourrait être réduit de manière draconienne, en instituant des corridors humanitaires sous la protection de l’Union européenne et de l’Onu. Il n’en est rien. L’Europe est faite par des policiers de frontière, non par des hommes politiques qui réfléchiraient à des stratégies et reprendraient le monopole de l’immigration, en en réduisant ainsi la violence. Résultat : on continue à mourir noyé en Méditerranée. On l’appelle le cimetière, mais je refuse ce terme. Dans un cimetière il y a des signes, des stèles, des noms : on s’y rend avec la certitude de trouver l’endroit où nos chers disparus sont ensevelis. La mer Méditerranée est une fosse commune, remplie de cadavres sans nom. Cela permet d’oublier.

C’est donc de crise de civilisation qu’il convient de parler, là où les lois de celle-ci sont violées ou ne sont que des coquilles vides. A commencer par la loi plus ancienne de l’humanité civilisée, à savoir la loi de la mer, qui prescrit le sauvetage de la personne ou du navire en danger. Ce n’est pas sans raison que l’on assiste à une déconstitutionnalisation et à une dé-parlamentarisation de nos démocraties, dans les nations et dans l’Union.

En ce sens, et pour conclure, vous aurez sans doute remarqué qu’on parle beaucoup de “valeurs” de l’Union. C’est le mot récurrent dans toutes les motions que nous discutons au Parlement européen. Marie-Christine Vergiat le sait bien parce qu’elle se bat sur ces questions, quotidiennement et dans toutes les plénières. Je n’aime pas ce mot, car il est vidé de substance. Je préfère parler de loi, d’Etat de droit, de droit codifié de la personne. Récemment, c’était cinq jours après l’attentat de Charlie Hebdo, j’ai rencontré un ministre du gouvernement français dans le train Paris-Strasbourg. On a parlé juste une minute du massacre, et je lui ai fait part de mes craintes concernant l’Etat de droit. Il m’a répondu avec un ton solennel: “Les droit, oui… mais plus encore les valeurs… les valeurs…”. En entendant ces mots, j’ai eu le sentiment d’un échec, d’une impuissance. Et plus que jamais j’ai ressenti l’envie de me battre encore davantage pour mettre le mots “droit” et “loi”, à la place de “valeurs”.

Spinelli: «Tsipras va con la destra? La crisi lo impone»

di venerdì, Gennaio 30, 2015 0 , , , Permalink

Intervista di Antonietta Demurtas, Lettera43.it, 30 gennaio 2015

Creditori contro debitori. È questo il nuovo fronte politico su cui l’Unione europea sta combattendo la sua guerra civile. Altro che destra e sinistra o Nord contro Sud.
La crisi economica ha cambiato regole e strategie. Ma soprattutto ideali. E in prima linea c’è ancora una volta la Germania.

«SENZA I TEDESCHI NESSUNA EUROPA».
«La battaglia culturale sulle dottrine economiche buone contro la crisi deve partire proprio da Berlino», dice a Lettera43.it l’eurodeputata Barbara Spinelli, capolista per ‘L’Altra Europa con Tsipras’ nelle ultime elezioni europee.
«Perché senza i tedeschi un’altra Europa non la potremo avere».
Intanto a cercare di abbattere quella vecchia, basata sull’austerità e il rigore di bilancio, è stata la Grecia.

«L’ECONOMIA PASSATA IN PRIMO PIANO».
La prima cannonata è arrivata con la vittoria di Syriza, il partito di sinistra radicale che per la prima volta è salita al potere. Ma per governare si è alleata con la destra.
Una scelta che non deve più stupire, perché «considerata l’enormità della crisi e il prezzo pagato da così tanti cittadini, l’economia passa davvero al primo posto», sottolinea Spinelli.
Insomma gli ideali politici di un tempo non servono più per cambiare la società: «Quello che bisogna riconquistare oggi», dice Spinelli, «è la solidarietà tra gli europei».
Un valore «ormai in via di estinzione», molto più di quello politico. «E poi bisogna vedere oggi cos’è la destra e cos’è la sinistra».

DOMANDA. Ma questa vittoria di Syriza è di destra o di sinistra?
RISPOSTA.
 È prima di tutto una vittoria importantissima per la Grecia, perché è un riscatto dopo anni di miseria e impoverimento, ma anche di umiliazione. Il Paese è stato usato come una cavia per le politiche di austerità.
D. Che ripercussioni può avere sull’Europa?
R.
 Può avere un’importanza enorme perché in questi sei anni la terapia anti-crisi, basata sul contenimento della spesa pubblica ed essenzialmente sulla riduzione del reddito dei cittadini, è fallita. Siamo di nuovo caduti in una profondissima deflazione.
D. Eppure c’è chi ci crede ancora: «Gli impegni per la Grecia restano gli stessi», ha ribadito il vice presidente della Commissione Ue, il falco rigorista finlandese Jyrki Katainen.
R.
 Invece se l’Europa fosse intelligente questa sarebbe davvero la grande occasione per dire: proviamo altre ricette, altre visioni della crisi, altri modi di uscirne.
D. Per ora sono più quelli che parlano di Grexit: di fare uscire la Grecia dall’euro.
R.
 La cosa interessante e promettente è che questa di Syriza è la vittoria di una forza radicalmente critica delle politiche europee, ma intenzionata a restare nell’Ue. Quindi non ha vinto un partito che vuole uscire dall’euro.
D. In un momento in cui si parla di radicalizzazione solo in termini negativi (politici e religiosi), quella di Syriza può rappresentare un’eccezione positiva?
R.
 Sì, perché in fondo siamo abituati a pensare che la sinistra radicale sia contro il capitalismo, contro l’Unione europea. Invece qui abbiamo una sinistra che è radicale perché vuole cambiamenti e miglioramenti nella conduzione dell’economia capitalistica. E allo stesso tempo crede nelle istituzioni comunitarie.
D. Tanto da volere anche un’Europa federale?
R.
 Sì, i principali dirigenti del partito, da Tsipras al vice presidente dell’europarlamento Dimitris Papadimoulis, sono tutti adepti del Manifesto di Ventotene. Che è anche il tema del primo capitolo del libro che sta scrivendo l’eurodeputato Manolis Glezos.
D. In Europa chi può andare nella stessa direzione?
R.
 La Spagna è già molto avanti. Con Podemos ha una sinistra simile, in un certo modo anche più libera di Syriza.
D. Perché?
R.
 Perché Syriza ha messo insieme dei pezzetti un po’ vecchi della sinistra radicale con parti nuove. Podemos è completamente nuova, non si basa più sul contrasto destra-sinistra, ma si rivolge a tutto l’elettorato, senza etichette politiche. E a questa radicalità non eravamo abituati.
D. In che cosa consiste esattamente?
R.
 Nel salvare il welfare state, nell’essere fedeli alle conquiste sociali che l’Europa ha fatto nel Dopoguerra e che non sono state fatte solo dalla sinistra, ma da tutti: italiani, francesi… Si tratta quindi di salvare quello che teneva insieme l’Ue.
D. In Italia e Francia questa radicalità esiste?
R.
 La sua affermazione sarà un processo più lento, perché c’è una sinistra socialdemocratica moderata ancora molto forte, che ha finito con l’adottare le politiche dell’austerità e che quindi dovrebbe lei stessa cambiare.
D. E se non ci riesce?
R.
 Si dovrebbero formare delle forze alternative a Hollande e a Renzi.
D. L’economista francese Thomas Piketty ha invitato i socialisti francesi e italiani a unirsi a Tsipras prima prima di sparire definitivamente. È uno scenario possibile?
R.
 Sì, ma prima questi partiti di centrosinistra dovrebbero fare un mea culpa: ammettere di essersi sbagliati, che il trattato sui bilanci adottato nel 2012 è stato un fallimento.
D. Troppo orgogliosi per farlo?
R.
 Che lo facciano o no dipende da loro, per ora hanno fatto delle aperture a Syriza, ma solo a parole.
D. L’Italia ha fatto una battaglia sulla flessibilità però.
R.
 Era tutta aria fresca, perché flessibilità vuol dire combattere per delle percentuali. Invece è proprio il meccanismo del fiscal compact che va rinegoziato tutto. Oggi in Europa, più che la divisione tra destra e sinistra, c’è quella tra debitori e creditori: uno squilibrio che non deve più esistere.
D. La Germania non sembra essere molto favorevole al cambiamento.
R.
 La battaglia culturale sulle dottrine economiche buone contro la crisi deve partire invece proprio dalla Germania, perché senza di loro un’altra Europa non la potremo avere. E non sarebbe nemmeno giusto.
D. Ma la cancellazione del debito chiesta da Syriza non ha molti sostenitori a Berlino.
R.
 Non dico di ripetere la stessa Conferenza del 1953. Che tra l’altro non ha cancellato il debito tedesco, ma lo ha talmente diluito nel tempo e legato a una ripresa economica della Germania che alla fine una parte non è stata pagata perché si trattava di decenni di rinvio.
D. E cosa propone allora?
R.
 Ci si deve sedere tutti insieme intorno a un tavolo e discutere il debito greco, ristrutturandone una parte, rinviando i rimborsi, con l’idea che è in gioco la ricreazione di una solidarietà ormai perduta. E che è uno dei fondamenti dell’Ue.
D. È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago?
R.
 La Germania non chiuderà in maniera drastica a qualsiasi negoziato. Molte regioni ormai sono governate dai socialdemocratici e dalla sinistra radicale, Linke. E nella prossima legislatura non è escluso che tra loro ci possa essere un’alleanza chiamata rossa-rossa.
D. Invece in Grecia Tsipras ha preferito fare un’alleanza rosso-nero con la destra di Anel. È delusa?
R.
 No. Purtroppo Tsipras ha tentato varie alleanze: il Kke, partito comunista estremamente stalinista ha subito detto di no, e Potami, partito liberale, ha detto sì, ma a patto che si annacquasse la parte anti-austerity.
D. Meglio allora sacrificare un ideale politico?
R.
 Il problema di Tsipras è che deve dare risultati economici nell’immediato, deve far respirare di nuovo la popolazione greca. Un po’ come fece François Mitterand quando aumentò subito il salario minimo. Anel è un conglomerato di forze diverse, ma per il momento la maggioranza è anti-austerity. Questo è il link.
D. Un compromesso storico alla greca?
R.
 No, il compromesso storico è qualcosa di più strutturato e di lungo periodo. Ed era talmente strutturato che poi anche Enrico Berlinguer lo rinnegò. Questo è più un compromesso strategico, che potrebbe anche saltare perché in realtà Tsipras ha bisogno solo di altri due deputati per avere la maggioranza assoluta.
D. E che siano di destra non conta?
R.
 No, in Grecia oggi la divisione è tra chi è a favore e chi è contro il memorandum della Troika.
D. Così si è sostituito un ideale economico a uno politico?
R.
 Considerata l’enormità della crisi e il prezzo pagato da milioni di cittadini, sì. Oggi l’economia passa davvero al primo posto. Poi bisogna vedere anche cos’è la destra e cos’è la sinistra.
D. Nel suo ultimo libro, Sottomissione, Michel Houllebecq ha scritto «l’opposizione sinistra-destra struttura il gioco politico da così tanto tempo che ci sembra impossibile superarla. Eppure in fondo non c’è nessuna difficoltà». È d’accordo?
R.
 Dipende, in Italia per esempio difficilmente vedo possibile un accordo tra sinistra radicale e Lega Nord.
D. Anche perché in Italia la sinistra radicale è praticamente estinta.
R.
 Non sono d’accordo, diciamo che è in letargo. Bisogna fare come Tsipras, che ha preso tante cellule dormienti della vecchia sinistra e ne ha fatto qualcosa di nuovo.
D. Andando con Anel ha più che altro fatto una chimera.
R.
 La sinistra in molti Paesi è sociologicamente minoritaria, se vuole governare, per forza deve andare a pescare voti nel centro e nella destra.
D. Insomma come ha fatto Renzi?
R.
 No, il centrosinistra in Italia ha tagliato fuori la parte radicale, Syriza invece si è assicurata prima di avere tutti i voti della sinistra e poi ha aperto ad altri.
D. In questo caso il fine giustifica i mezzi?
R.
 In Grecia la situazione è talmente grave – siamo ai livelli della depressione americana degli Anni 30 – che per forza saltano divisioni vecchie tra destra e sinistra. E poi i Greci indipendenti più che alla destra mi fanno pensare al Movimento 5 stelle, che sull’immigrazione è prudente mentre sul sociale e sui diritti è più aperto.
D. Ma quali sono i rischi che Tsipras corre con questa alleanza?
R
. Di cedere su alcuni diritti fondamentali, in particolare sui temi dell’immigrazione. Questo è un periodo in cui l’Ue sta combattendo una guerra economica interna, ma all’esterno è circondata da guerre che portano migliaia di richiedenti asilo, non più immigrati, alle nostre porte. E il pericolo è che l’Ue si chiuda in una fortezza.
D. Adesso a controllare quella porta c’è proprio un greco, Dimitris Avramopoulos, commissario europeo con il portafoglio per le Migrazioni, gli Affari interni e la Cittadinanza.
R.
 Sì ma Avramopoulos, che è di destra, forse andrà a fare il presidente della Repubblica. Una scelta che ha creato scontenti, ma è una mossa strategica molto astuta.
D. Perché?
R.
 Syriza pensa sia più importante avere un proprio uomo a Bruxelles come commissario all’immigrazione che averne uno presidente della Repubblica, un ruolo che tra l’altro non ha un gran peso come invece in altri Paesi.
D. In Italia ne ha tanto per esempio. Chi le piacerebbe?
R.
 Tra quelli usciti nessuno, anche se sicuramente il migliore è Romano Prodi. Ma il mio candidato ideale è Gustavo Zagrebelsky, che però non candideranno mai.

Syriza, Anel e la strategia della paura

di mercoledì, Gennaio 28, 2015 0 , , Permalink

Mercoledì 28 gennaio 2015, riunione del gruppo GUE-NGL.
Intervento di Barbara Spinelli

La vittoria di Syriza è un evento di primaria importanza per la Grecia e per l’intera Unione, perché a tutti i popoli europei lancia un preciso segnale: uscire dalla logica dell’austerità e delle sanzioni inflitte ai paesi debitori è possibile.

Al tempo stesso, sono d’accordo con quanto ha detto in quest’aula Pablo Iglesias (Podemos): la strategia della paura che ha preceduto il voto greco non si fermerà qui, ma riprenderà con accentuato vigore. Ad essa si aggiungerà poi una strategia dello screditamento, in seguito alla coalizione di Syriza con il partito Anel.

Penso che a questa duplice strategia occorrerà rispondere con la discussione e l’elaborazione, all’interno del nostro gruppo, di risposte forti e convincenti.

Per quanto riguarda la strategia della paura, occorrerà insistere sui necessari legami di solidarietà tra paesi del Sud Europa, ma al tempo stesso cercare l’indispensabile raccordo con i paesi non mediterranei. Penso al ruolo cruciale che nell’Unione europea svolge la Germania, e che dentro la Germania può svolgere la Linke. Dovremo conquistare i cuori e le menti anche dei cittadini tedeschi.

Per quanto riguarda la strategia dello screditamento, dunque gli accordi di governo che Alexis Tsipras ha stretto con la destra di Anel, credo che la spiegazioni esposte dagli europarlamentari di Syriza siano preziose, ma che avremo tutti bisogno di molta documentazione in più, sul significato di quest’alleanza e sulla natura di Anel. Anche Anel, da parte sua, dovrebbe esser chiamata a spiegare il perchè della sua decisione di coalizzarsi con Syriza: perché in Europa si possa meglio capire la natura di questo partito e la convivenza al suo interno di diverse posizioni, sia sull’austerità – che è la preoccupazione numero uno di Tsipras – sia sull’immigrazione.

Tsipras, la divina sorpresa

di martedì, Gennaio 27, 2015 0 , , , Permalink

«Il Fatto Quotidiano», 27 gennaio 2015

Nella storia francese, quel che è accaduto domenica in Grecia ha un nome: si chiama “divine surprise”. Il maggio 68 fu una divina sorpresa, e prima ancora – il termine fu coniato da Charles Maurras – l’ascesa al potere di Pétain. La storia inaspettatamente svolta, tutte le diagnosi della vigilia si disfano. Fino a ieri regnava l’ortodossia, il pensiero che non contempla devianze perché ritenuto l’unico giusto, diritto. L’incursione della sorpresa spezza l’ortodossia, apre spazi ad argomenti completamente diversi.

La vittoria di Alexis Tsipras torce la storia allo stesso modo. Non è detto che l’impossibile diventi possibile, che l’Europa cambi rotta e si ricostruisca su nuove basi. Non avendo la maggioranza assoluta, Syriza dovrà patteggiare con forze non omogenee alla propria linea. Ma da oggi ogni discorso che si fa a Bruxelles, o a Berlino, a Roma, a Parigi, sarà esaminato alla luce di quel che chiede la maggioranza dei greci: una fondamentale metamorfosi – nel governo nazionale e in Europa – delle politiche anti-crisi, dei modi di negoziare e parlarsi tra Stati membri, delle abitudini cittadine a fidarsi o non fidarsi dell’Unione. Ricominciare a sperare nell’Europa è possibile solo in un’esperienza di lotta alla degenerazione liberista, alla fuga dalla solidarietà, alla povertà generatrice di xenofobie: è quel che promette Tsipras. I tanti che vorrebbero perpetuare le pratiche di ieri proveranno a fare come se nulla fosse. I partiti di centrodestra e centrosinistra continueranno a patteggiare fra loro – son diventati agenzie di collocamento più che partiti – ma la loro natura apparirà d’un tratto stantia; per esempio in Italia apparirà obsoleto qualunque presidente della Repubblica, se i nomi vincenti sono quelli che circolano negli ultimi giorni. Dopo le elezioni di Tsipras, anche qui sono attese divine sorprese che scompiglino i giochi tra partiti e oligarchie. Non si può naturalmente escludere che Tsipras possa deludere il proprio popolo, ma il pensiero nuovo che impersona è ormai sul palcoscenico ed è questo: non puoi, senza il consenso dei cittadini che più soffrono la crisi, decretare dall’alto – e in modo così drastico – il cambiamento in peggio della loro vita, dei loro redditi, dei servizi pubblici garantiti dallo Stato sociale. Non puoi continuare a castigare i poveri, e non far pagare i ricchi. Non esiste ancora una Costituzione europea che cominci, alla maniera di quella statunitense, con le parole “Noi, popoli d’Europa…”, ma quel che s’è fatto vivo domenica è il desiderio dei popoli di pesare, infine, su politiche abusivamente fatte in loro nome.

L’establishment che guida l’Unione è in stato di stupore. Meglio sarebbe stato, per lui, che tra i vincitori ci fosse solo l’estrema destra di Alba Dorata, e che Syriza avesse fatto un’altra campagna: annunciando l’uscita dall’Euro, dall’Unione. Non è così, per sfortuna di molti: sin dal 2012, Tsipras ha detto che in quest’Europa vuol restare, che la moneta unica non sarà rinnegata, ma che l’insieme della sua architettura deve mutare, politicizzarsi, “basarsi sulla dignità e sulla giustizia sociale”. La maggioranza di Syriza – da Tsipras a eurodeputati come Dimitrios Papadimoulis o Manolis Glezos  – ha scelto come propria bandiera il Manifesto federalista di Ventotene.

Dicono che Syriza sfascerà l’Unione, non pagando i debiti e demolendo le finanze europee. Non è vero. Tsipras dice che Atene onorerà i debiti, purché una grossa porzione, dilatata dall’austerità, sia ristrutturata. Che gli Stati dell’Unione dovranno ridiscutere la questione del debito come avvenne nel ’53, quando furono condonati – anche con il contributo della Grecia, dell’Italia e della Spagna – i debiti di guerra della Germania (16 miliardi di marchi). Che l’Europa dovrà impegnarsi in un massiccio piano di investimenti comuni, finanziato dalla Banca europea degli investimenti, dal Fondo europeo degli investimenti, dalla Bce: è la “modesta proposta” di Yanis Varoufakis, l’economista candidato di Syriza in queste elezioni. Quanto al dissesto propriamente greco, Tsipras ne ha indicate le radici anni fa: i veri mali che paralizzano la crescita ellenica sono la corruzione e l’evasione fiscale. “È un fatto che la nostra cleptocrazia ha stretto un’alleanza con le élite europee per propagare menzogne, sulla Grecia, convenienti per gli eurocrati ed eccellenti per le banche fallimentari” (Tsipras al Kreisky Forum di Vienna, 20-9-2013). Questi anni di crisi hanno trasformato l’Unione in una forza conflittuale, punitiva, misantropa. Hanno svuotato le Costituzioni nazionali, la Carta europea dei diritti fondamentali, lo stesso Trattato di Lisbona. Hanno trasformato i governi debitori in scolari minorenni: ogni tanto scalciano, ma interiorizzano la propria sottomissione a disciplinatori più forti, a ideologi che pur avendo fallito perseverano nella propria arroganza. Quel che muove Tsipras è la convinzione che la crisi non sia di singoli Stati, ma sistemica: è crisi straordinaria dell’intera eurozona, bisognosa di misure non meno straordinarie. Tsipras rimette al centro la politica, il negoziato tra adulti dell’Unione, la perduta dialettica fra opposti schieramenti, il progresso sociale. L’accordo cui mira “deve essere vantaggioso per tutti”, e resuscitare l’idea postbellica di una diga contro ogni forma di dispotismo, di riforme strutturali imposte dall’alto, di lotte e falsi equilibri tra Stati centrali e periferici, tra Nord e Sud, tra creditori incensurati e debitori colpevoli.