I giustizialisti sono i nostri politici

Articolo di Barbara Spinelli pubblicato su «Il Fatto Quotidiano» del 27 aprile 2016

Non c’è nulla di stupefacente nell’attacco che ancora una volta viene lanciato, dal governo e da un gran numero di politici, alla magistratura italiana e in particolare alle parole da Piercamillo Davigo. Né il nuovo Presidente dell’Associazione nazionale magistrati dovrebbe preoccuparsene oltre misura: il compito è di rappresentare il potere giudiziario, e quindi di dare a tale rappresentanza una voce, che per forza di cose non si esprime solo nelle sentenze.

Non c’è nulla di stupefacente perché l’invettiva del presidente del Consiglio contro “25 anni di autentica barbarie legata al giustizialismo”, così come l’appello dell’ex presidente Napolitano a una riforma delle intercettazioni e a una “cooperazione” tra giustizia e politica che metta fine a presenti e passati conflitti, non sono affermazioni che cadono dal cielo. Sono gli elementi costitutivi di una riscrittura della democrazia costituzionale che sta avvenendo in numerosi Stati dell’Unione europea, che in Italia è perseguita da decenni e che non si limita a circoscrivere e svuotare l’indipendenza del potere giudiziario. L’obiettivo che si persegue, in questi Stati e nelle stesse istituzioni europee, è di accentrare i poteri nell’esecutivo, e di declassare ogni potere suscettibile di frenare l’estensione dell’autorità centrale. Di qui il depotenziamento più o meno subdolo dei poteri giudiziari, di quelli parlamentari, e al tempo stesso di una serie di organi intermedi: sindacati, partiti, organizzazioni imprenditoriali e professionali, enti locali sovracomunali come le province. Giuseppe de Rita ha descritto molto bene quel che si vuole ottenere attraverso simili esautoramenti con leggi e riforme costituzionali: “I politici, che hanno voluto la disintermediazione, si trovano circondati, premuti, circuiti, qualche volta addirittura ricattati, da gruppetti (da ‘quartierini’) di un avventuroso lobbismo” («Corriere della Sera», 14.4.16). Le istituzioni europee tendono a favorire quest’accentramento e questa disintermediazione anche a livello comunitario. Nella famosa lettera che Trichet e Draghi spedirono al governo italiano nel 2011, non si esitò ad attribuire alla Bce un compito costituente che nessuno le ha mai conferito e si chiese proprio questo: una riforma costituzionale che iscrivesse il Fiscal Compact nella nostra Carta e “abolisse o fondesse alcuni strati amministrativi intermedi come le Province”. Non a caso Jürgen Habermas denuncia il degrado democratico dell’Unione europea, dandogli il nome di “federalismo degli esecutivi”.

Parlare di conflitto giustizia-politica fa dunque tutt’uno con il referendum sulla riforma costituzionale, con la diminuita rappresentanza locale del futuro Senato e con la più generale offensiva contro gli organi intermedi della società. L’oscuro oggetto del disgusto provato da molti politici non è il conflitto, da abolire in nome della “cooperazione”, ma la dialettica stessa tra i poteri e la loro netta separazione. È il motivo per cui mi preoccuperei anch’io, come Davigo, se tale conflitto non esistesse. Non mi stupisce nemmeno che le parole di Davigo siano manipolate e deturpate, in modo tale che i cittadini possano meglio confondersi quando lo sentono parlare e non comprendere i suoi argomenti. Si dice ad esempio che il Presidente dell’Anm ha denunciato i politici corrotti per poi “frenare” e far marcia indietro: cosa palesemente falsa, perché ovviamente le sue parole erano rivolte ai “politici che rubano”. Se avesse voluto accusare tutti, anche i politici onesti, davvero non ci sarebbe più bisogno d’indagini e processi. Indagini e processi sono utili proprio perché mostrano che esiste una differenza tra chi ruba e chi no. In un certo senso, si fa giustizia per proteggere l’innocenza.

Lo stesso dicasi per gli altri argomenti discussi in questi giorni: tra cui le intercettazioni e la presunzione di innocenza.

Intercettazioni. Dovrebbe essere noto a chi governa e a chi riforma la giustizia italiana che esiste una vasta giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo in difesa della libertà di stampa, e che il giornalista ha il diritto di pubblicare notizie se le ritiene non solo penalmente ma anche moralmente rilevanti. Il dibattito italiano è inoltre incredibilmente vecchio in materia. Si accusa continuamente il “circo mediatico-giudiziario”, fingendo di ignorare fenomeni come quelli dei whistleblower (ostinatamente chiamati talpe o spie sui nostri giornali) o di Wikileaks. A ciò si aggiunga che in Italia già esistono norme sulla diffamazione e la violazione della privacy.

Presunzione d’innocenza. Viene continuamente e giustamente invocata, ma nell’esclusiva speranza che il politico condannato in primo grado sia assolto nel secondo o nel terzo, magari tramite la prescrizione. I tre gradi di giudizio sono un’anomalia italiana, che naturalmente facilita le prescrizioni facili. Il politico condannato in primo grado dovrebbe lasciare le cariche che ricopre sin da quando è sospettato di non adempiere le funzioni pubbliche con disciplina e onore (art. 54 della Costituzione). Tanto più deve farlo se condannato in primo grado.

Se così stanno le cose, sarebbe l’ora di rivolgere l’accusa di giustizialismo ad altri soggetti, sempre che si abbia a cuore l’uso della logica nell’informazione dei cittadini. I veri “giustizialisti” sono in realtà i politici specializzati nel lamentare il conflitto con la giustizia. Sono loro a far dipendere le proprie carriere, le proprie cariche, il proprio potere da tutti e tre i gradi di giudizio. Sono loro ad affidare ai magistrati e alle sentenze la selezione delle classi dirigenti. Non sarebbe male se ci spiegassero come mai, a questo punto, se ne dolgano tanto.