Cappuccetto rosso e il lupo russo

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 17 giugno 2022

Sempre più si riduce e scompare lo spazio dedicato dai media alla guerra in Ucraina, che a sua volta cancella le guerre in Siria, Yemen o Libia. “La terza guerra mondiale è stata dichiarata”, constata il Papa nel colloquio pubblicato da «La Civiltà Cattolica»: procede “a pezzi e bocconi” ma è ormai trama dei nostri tempi.

Il pezzo ucraino di guerra è specialmente vistoso, perché ha scatenato in Occidente una corsa al riarmo e alle sanzioni che affamerà il pianeta, e perché sono implicate le due superpotenze atomiche: Mosca che in febbraio ha spietatamente attaccato e Washington che da anni arma e addestra gli ucraini. Ma anche questo conflitto, se dura molto, scomparirà dagli schermi pur restando trama dei nostri tempi.

Angela Merkel parla di tragedia, nell’intervista del 6 giugno allo «Spiegel», perché lei si sforzò di evitare il peggio: fin dal 2015 si oppose all’invio di armi a Kiev, e con Parigi tentò di conciliare le esigenze russe e ucraine tramite gli accordi di Minsk. Fu boicottata dagli Usa, e Kiev rifiutò l’autonomia, specie linguistica, che gli accordi prescrivevano per le province russofone del Donbass. Oggi la Merkel riconosce che l’ordine di sicurezza europea cui ambiva è fallito, che Putin ha reagito con violenza ingiustificata, ma non si pente: “Se la diplomazia fallisce non è detto che diventi inutile”.

Anche nelle nostre menti la terza guerra mondiale c’è e non c’è; non siamo belligeranti ma combattiamo inviando armi in grado di colpire la Russia; formalmente non c’è stato di eccezione ma i grandi giornali pubblicano liste di cosiddetti “putiniani” perché contrari alla linea degli alti comandi. Cos’altro è questo, se non stato di eccezione e maccartismo. Quanto all’alto comando, non ne conosciamo il volto, l’ubicazione. A seconda delle convenienze si addita Palazzo Chigi, i Servizi, il Copasir, i giornali mainstream, in un immondo scarico di responsabilità.

Tanto per fare un esempio, il «Corriere della Sera» ripete che la pagina del 5 giugno con la lista di proscritti stilata dai Servizi è uscita perché i giornali seri “danno le notizie”. Ma sono state le firmatarie dell’articolo – una di esse vicedirettore – a decidere l’impaginazione piuttosto indecente della notizia in questione e a corredarla di foto segnaletiche che denunciano, per intimidire chiunque scriva sulla guerra, nove “putiniani”. Non tutti i nomi escono dal Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza. L’affare non è pulito: per il «Corriere» questa guerra ha da farsi anche in casa, senza troppi riguardi.

Dice il Papa che dobbiamo abbandonare lo “schema di Cappuccetto Rosso, con Cappuccetto che è buono e il lupo che è cattivo”. Che “qui non ci sono buoni e cattivi metafisici, in modo astratto”. Che le idee prive di esperienza sono “eresie”, perché “scollegate dalla realtà umana”: le idee possono essere discusse, ma “quel che conta è il discernimento che porta all’azione”.

Discernere gli eventi era possibile già nel 2014, quando in Donbass insorsero i separatisti russofoni e l’esercito di Kiev contrattaccò assieme alle milizie neonaziste (i neonazisti ucraini dispongono di una trentina di battaglioni, tra cui Azov e Aidar, integrati nell’esercito regolare dopo il colpo di Stato di piazza Maidan). Il 24 febbraio Mosca è intervenuta con innegabile brutalità e ferocia, dice Bergoglio, ma discernere implica che lo sguardo non si appunti solo sul pericolo russo: “Il pericolo è che vediamo solo questo, che è mostruoso, e non vediamo l’intero dramma che si sta svolgendo dietro questa guerra, che è stata forse in qualche modo o provocata o non impedita. E registro l’interesse di testare e vendere armi”. Il dramma comprende l’espansione della Nato, come confidato al Papa da un capo di Stato poco prima dell’invasione russa: “Stanno abbaiando alle porte della Russia. E non capiscono che i russi sono imperiali e non permettono a nessuna potenza straniera di avvicinarsi a loro”.

Fino a quando i co-belligeranti occidentali non riconosceranno le proprie responsabilità, e resteranno impigliati nello schema di Cappuccetto Rosso e dell’offensiva antihitleriana, la guerra d’attrito in Ucraina continuerà sempre più mortifera: con le forze russe che devasteranno una città dopo l’altra fino a prendersi la riva destra e sinistra del Dniepr e a ridurre l’Ucraina a un torso di Stato, deprivato delle sue industrie, dello sbocco al mare, degli abitanti (l’Onu prevede 10 milioni di profughi). Non è vero che alla fine entrambi i belligeranti saranno perdenti. La Russia avrà perso moltissimo, ma potrà dire di aver conquistato le parti essenziali, industrializzate, dell’Ucraina. L’Ucraina invece sarà uno Stato fallito, grazie alle armi occidentali che hanno rovinosamente prolungato la guerra. Chi in un’Unione europea già flagellata dalla crisi saprà ricostruire città, fabbriche, campi agricoli? E il Donbass: con quali risorse sarà ricostruito da Mosca?

Nonostante le perdite e qualche resipiscenza, Zelensky chiede armi sempre più pesanti ed è in preda al pensiero magico della vittoria. Ma gran parte degli occidentali sa che non sarà così, pur non osando dirlo: in particolare Macron, Scholz e Draghi che ieri erano a Kiev per appoggiare Zelensky ma anche per sondare e propiziare i suoi intenti negoziali. Kiev ha l’appoggio di Polonia, dei Baltici, del Regno Unito, degli Usa, ma anche Washington mostra alcune insofferenze. Alti funzionari Usa si lamentano delle poche informazioni che hanno da Zelensky, sulle perdite e sulle armi disponibili.

Poi c’è la “guerra mondiale a pezzi e bocconi” descritta dal Papa. La Turchia si presenta come mediatrice, ma Erdogan profitta del caos ucraino per annunciare nuovi attacchi sterminatori contro le enclave curde nel nord siriano. Per non disturbarlo e scongiurare il veto turco all’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato, gli Occidentali tacciono. Intanto Biden s’appresta a riconciliarsi con gli assassini di Khashoggi a Ryad, in cambio di più petrolio.

Per questo è insensato inviare più armi a Kiev. Tra Russia e Europa si apre un baratro tragico. Di disarmo atomico non si parla più da anni. E la retorica secondo cui Mosca ha il monopolio della brutalità criminale non fa che nascondere gli altri conflitti: in Yemen, Kashmir, Palestina, Siria, ecc. Chi li menziona è sospettato di sminuire l’unica guerra che conta. Chi difende l’innocenza di Julian Assange reo d’aver svelato i delitti Usa in Iraq e Afghanistan è considerato un nemico che svia l’attenzione dai “putiniani” incriminati dal «Corriere».

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È la fine delle illusioni di Stati Uniti, Nato e Ue. Ma una svolta non c’è

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 3 giugno 2022

Sentendo forse di camminare sull’orlo di un baratro e intuendo forse che la retorica bellicosa altro non era che fame di vento, visto che non cambiava i rapporti di forza nella guerra in Ucraina, Biden ha deciso il 31 maggio di scrivere una lettera aperta a Putin, sotto forma di un commento sul «New York Times». Lo stesso giornale che qualche giorno prima, il 19 maggio, aveva espresso forti dubbi sulla strategia di Washington e alleati, sulla grande illusione di una vittoria ucraina, sull’appoggio incondizionato offerto al presidente Zelensky, su riconquiste territoriali ritenute non più realistiche. Biden ha reagito a questi dubbi inviando a Putin messaggi che contraddicono gran parte delle tesi sostenute dalla Casa Bianca in questi cento giorni di guerra.

Innanzitutto, il Presidente fa sapere che non ha intenzione di spodestare Putin, contrariamente a quanto sbandierato il 26 marzo a Varsavia. Invia armi sempre più esiziali a Kiev, ma dice di non volere una guerra Nato-Russia e comunica che né Washington né gli alleati parteciperanno direttamente al conflitto. La “lettera” presidenziale è indirizzata a Putin, ma il Presidente Zelensky e anche gli europei più bellicosi (Polonia, Baltici) sono in copia. Biden non fa proprie le parole del «New York Times» (“Occorre chiarire a Zelensky che ci sono dei limiti a quanto Stati Uniti e Nato possono fare nel fronteggiare la Russia, e limiti alle armi, al denaro e al sostegno politico che possono fornire. È imperativo che le decisioni del governo ucraino siano basate su una valutazione realistica dei propri mezzi e di quanta distruzione l’Ucraina può sopportare”) ma qualche confuso passo avanti lo compie, anche se siamo tuttora molto lontani da un’analisi fine della storia lunga della guerra ucraina. Analisi che Kissinger fa da trent’anni, che ha ribadito in questi giorni, e che la Nato è incapace di ascoltare.

Biden non arriva alla lucidità di Kissinger, non dice a chiare lettere che l’Ucraina non può vincere, ma tra le righe sembra ammetterlo. Manda in Ucraina missili ancora più pericolosi (gli Himars), continua a immaginare un’unità atlantica che non c’è, sottovaluta il non allineamento di gran parte del pianeta (in Asia, Africa, America Latina) ma non ripete i trionfalismi dei primi mesi, quando promettendo a Zelensky vittorie sicure s’impelagava in un’ennesima guerra per procura.

Naturalmente c’è ancora chi rimastica il linguaggio atlantista delle prime settimane: la pace è possibile solo se i russi si ritirano dal Donbass e restituiscono la Crimea; non bisogna far doni a Putin dividendosi nell’Unione europea o rinunciando, come ha fatto Biden, a inviare missili a lunga gittata in grado di colpire la Russia. Sono gli irriducibili di una guerra a oltranza. Nella migliore delle ipotesi regalerebbero all’Europa (non agli Stati Uniti) un Afghanistan alle porte di casa.

Riannodare i rapporti con la realtà sul terreno di guerra non è tuttavia sufficiente. Serve a negoziare un’eventuale tregua, questo sì: una specie di 38º parallelo coreano in Ucraina, con i russi che restano padroni della Crimea e mantengono il controllo sul Donbass e sui territori che stanno conquistando lungo il Mar Nero. Ma non serve a passare dal cessate il fuoco a un trattato di pace che finalmente includa la Russia nel sistema di sicurezza europeo.

Per riuscire in tale intento gli Stati della Nato dovrebbero esaminare la genealogia del conflitto, riconoscere gli errori commessi negli otto anni di guerra civile del Donbass e prima ancora, nel falso ordine unipolare del dopo-Guerra fredda. Tra gli errori più vistosi: i successivi allargamenti della Nato a Est; l’interferenza statunitense nella politica interna ucraina (semi-colpo di Stato nel 2014, per spodestare dirigenti troppo vicini a Mosca); riarmo massiccio dell’Ucraina a partire dal 2014; esercitazioni Nato in territorio ucraino ancora alla fine dell’anno scorso; ostilità Usa verso gli accordi di Minsk negoziati da Germania e Francia con Ucraina e Russia, che prevedevano una amplissima autonomia anche linguistica del Donbass, mai accettata da Kiev. L’insieme di tali errori non giustifica di certo ma spiega l’invasione russa del 24 febbraio.

Su questi punti non si constata ancora una svolta realistica, né a Washington né nell’Unione europea così come rappresentata da Ursula von der Leyen. Le sanzioni aumentano e le politiche che hanno facilitato l’offensiva russa vengono riconfermate tali e quali, come si evince dall’annunciata adesione di Finlandia e Svezia alla Nato, e dalla decisione di trasformare l’Ucraina in un grande e corrotto deposito di armi, infiltrato da milizie neonaziste e mafie. Non si paragona più Putin a Hitler ma in cambio si trasforma il Mar Baltico, davanti a San Pietroburgo, in uno spazio dominato dalla Nato. È l’umiliazione che Mosca conobbe già nel 1991, quando finì l’Urss e la Russia venne calpestata economicamente (per questo forse sventolano tante bandiere con falce e martello nel Donbass). Il rischio è che esca rafforzata, a Mosca, l’ala oltranzista che in Ucraina avrebbe voluto e vorrebbe non già un’“operazione speciale” ma la mobilitazione generale e la guerra totale.

Fondata nel 1949 per scongiurare aggressioni russe e custodire la pace in Europa, la Nato ha fallito l’obiettivo, visto che l’aggressione infine c’è stata. Anche l’Alleanza Atlantica dovrà un giorno mettere un limite alle proprie grandi illusioni, sanando le radici del conflitto odierno. È un passo non ancora compiuto. Scartato il modello della Seconda guerra mondiale (abbattere il tiranno), barcolliamo verso il modello della guerra ’14-’18, chiamata opportunamente “inutile strage” da Benedetto XV. Dice Dmitrij Suslov, direttore del Centro studi europei e internazionali presso la Scuola superiore di Economia di Mosca, che la deterrenza atomica ha funzionato: in fin dei conti Zelensky non ha ottenuto la no-fly zone e le armi a lungo raggio che chiedeva. Ma il Dottor Stranamore è sempre possibile, e l’incidente sempre dietro l’angolo.

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