Media freedom: osare più democrazia

Bruxelles, 11 gennaio 2018. Intervento di Barbara Spinelli, in qualità di relatore per il Parlamento europeo della Relazione “Pluralismo e libertà dei media nell’Unione europea”, nel corso della riunione ordinaria della Commissione Libertà civili, giustizia e affari interni (LIBE).

Punto in Agenda:

Pluralismo e libertà dei media nell’Unione europea

  • Esame del progetto di relazione
  • Fissazione del termine per la presentazione di emendamenti

Nella mia bozza di relazione ho cercato di capire e illustrare quel che sta cambiando nella libertà dell’informazione – in particolare per quanto riguarda l’indipendenza dalle pressioni esercitate dalla politica o da interessi privati – rispetto alla risoluzione adottata dal Parlamento il 21 maggio 2013. La situazione si è aggravata, e per questo penso sia utile riaffermare alcuni punti, insieme agli shadow dei vari gruppi politici che spero arricchiranno il rapporto. La mia analisi pessimistica si è avvalsa di una serie di studi precisi, di scambi diretti e di conferenze preliminari. Cito tra gli altri: il World Press Freedom Index pubblicato nel 2017 da Reporter Senza Frontiere (RSF) e il Policy Report dell’Istituto universitario di Firenze del 2017. Sono particolarmente grata ai suggerimenti e consigli che mi sono venuti dall’associazione Article 19, così chiamata in riferimento all’articolo della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo sulla libertà di opinione e informazione.

In questa presentazione non elencherò tutti i punti che sottoporrò alle discussioni con gli shadow e che potrete ritrovare nel draft report e nell’explanatory statement. Mi concentrerò su alcune questioni che ritengo decisive, dal punto di vista del diritto – codificato nella Dichiarazione universale dei diritti umani – a cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.

  • Mi soffermo dunque in particolare sulla libertà nella sfera digitale, perché è qui che oggi esistono più controversie e incertezze. Le tecnologie digitali rappresentano indubbiamente un progresso nella democrazia partecipativa: un progresso di cui conosciamo ancora poco gli effetti e che è in mutazione costante. In realtà siamo di fronte a una doppia rivoluzione – dei mezzi di comunicazione e anche della democrazia: non dissimile dalla rivoluzione rappresentata lungo i secoli sia dalla nascita della stampa, sia dall’introduzione del suffragio universale. Faccio questi paragoni perché nelle attuali classi dirigenti dominano una diffidenza e una paura del nuovo strumento che rimandano ad antiche polemiche. Le riassumerei così: troppa comunicazione tramite stampa diminuisce le possibilità di controllo, troppa democrazia può mettere in pericolo la democrazia. Sappiamo bene i motivi della nuova diffidenza: essa si fonda sulla diffusione istantanea di fake news tramite internet, sul controllo esercitato da pochi tech giants sulla sfera digitale, sul timore che quest’ultima diventi terreno di cyberguerre o infiltrazioni, soprattutto da parte di potenze che anche per abitudinaria pigrizia siamo avvezzi a considerare avversarie se non sovversive (penso alla Russia). Non sottovaluto alcuni di questi pericoli, ma va sottolineato che essi esistevano – e continuano a esistere – anche nella stampa tradizionale. La falsa informazione – la cosiddetta post-verità – assume su internet dimensioni virali, ma non è meno devastante quando viene dai giornali mainstream. Tutte le guerre condotte dall’occidente dopo l’ultimo conflitto mondiale sono state accompagnate da fake news propagate dalla stampa mainstream: dalla guerra in Corea fino ai conflitti in ex-Jugoslavia, Iraq, Libia, Yemen.

È il motivo per cui penso che il Parlamento debba cominciare ad approfondire la questione: dicendo che non si può controllare questo nuovo strumento censurandolo, e in particolare non si può delegare ai privati il compito di rimuovere o limitare i contenuti online. Alcune proposte della Commissione sono da questo punto di vista criticabili, in quanto privatizzano i controlli e non rispettano a pieno il triplice test imposto dalla legge internazionale quando si procede a una restrizione della libertà di espressione: mi riferisco ai test dell’obiettivo legittimo, della necessità e della proporzionalità. È il caso del codice di condotta del 2016 concernente lo hate speech, negoziato dalla Commissione con le compagnie Facebook, Microsoft, Twitter e YouTube, e della Revisione della Direttiva sui servizi media audiovisivi (AVMS).

Misure come la rimozione o la limitazione dei contenuti Internet sono in alcuni casi necessarie (pedopornografia, terrorismo) ma in altri, come ad esempio nel cosiddetto hate speech, esse devono anzitutto rispettare scrupolosamente i limiti fissati dalla legge internazionale, definire in maniera chiara il pericolo imminente ed essere vagliate dalle autorità giudiziarie. La via da percorrere dovrebbe essere la creazione di meccanismi indipendenti di auto-regolamentazione, con preferenza data al codice civile o amministrativo più che al codice penale, e il ricorso alle misure meno intrusive e punitive possibili, come raccomandato dalla Dichiarazione Congiunta su fake news e propaganda sottoscritta nel marzo 2017 da Onu, Osce e Organizzazione degli Stati americani.

  • Altri argomenti trattati sono le minacce e pressioni sui giornalisti, che talvolta sfociano in violenza omicida come abbiamo visto nel caso di Daphne Caruana a Malta, e prima ancora di quelli italiani che indagavano sulla mafia.
  • Altro punto: le condizioni economiche e sociali in cui versa oggi la professione del giornalista, non solo nei media online. È una condizione che spiega molte storture, e mina alle basi il giornalismo di investigazione. I giornalisti sono sottopagati, e più spesso ancora non sono pagati affatto per i lavori e le indagini che svolgono.

Tutti questi elementi – violenze, controlli punitivi, pressioni, pauperizzazione – dilatano il fenomeno indicato in un rapporto recente dal Consiglio d’Europa: l’autocensura da parte di chi diffonde informazione e la penalizzazione crescente di chi ha diritto a riceverla.

Non mi soffermo su altri punti toccati dalla bozza di relazione, quali la situazione dei whistleblower, la condizione della libertà di stampa in Polonia, Ungheria, o in Spagna. Li troverete enumerati nella bozza.

Spero che con gli shadow riusciremo a condividere esperienze e opinioni. Chiarisco, concludendo, quello che vorrei evitare: che questa relazione diventi un’arma nella controversia sulle fake news.

L’escamotage della democrazia nell’Unione europea

di giovedì, Giugno 29, 2017 0 , , Permalink

Intervento di Barbara Spinelli nel corso della Riunione del Gruppo GUE/NGL. Bruxelles, 28 giugno 2017.

Punto in Agenda:

Dibattito Strutturato “Democracy in the EU”, promosso da Nikolaos Chountis e Barbara Spinelli

Abstract in English

Prima di discutere il tema di questa conferenza, vorrei sottoporvi qualche riflessione su ambedue gli aspetti della questione: la democrazia dei governi nei loro rapporti con l’Unione, e la democrazia di quella che significativamente non è chiamata governo ma governance dell’Unione in quanto tale, con le sue istituzioni e le sue politiche sovranazionali. Di fatto siamo alle prese con un sistema politico ibrido, in parte nazionale in parte sovranazionale, e i due aspetti possono difficilmente essere disgiunti. Ma dal punto di vista del funzionamento democratico è utile esaminarli disgiuntamente, perché a entrambi i livelli la democrazia è oggi malata, e più o meno surrettiziamente messa in questione.

In genere le malattie connesse a quest’intrico di poteri sono affrontate ricorrendo al concetto della sussidiarietà, che dovrebbe fornire un equilibrio giusto, cioè democratico, tra quel che si fa a livello nazionale e quel che si decide attraverso le istituzioni o le politiche decise in comune, sul piano sovrannazionale. Ma dobbiamo riconoscere che man mano che la democrazia si esaurisce, il concetto di sussidiarietà si trasforma in pensiero magico, più che logico o razionale. Sappiamo che il pensiero diventa magico, in Freud, quando pretende di trasformarsi in realtà per il solo fatto di essere pensato.

Comincio con la democrazia nell’Unione. Se parlo di messa in questione surrettizia, è perché essa non è chiaramente esplicitata. Di regola, il vizio rende omaggio alle virtù democratiche. Nessuno, nella Commissione o nell’Eurogruppo o nel Consiglio europeo, si azzarderebbe a dire che le elezioni nazionali o i referendum sono una pietra di inciampo, se non di scandalo. La cosa viene però detta tra le righe, senza farsi molti scrupoli: regolarmente, a ogni tornata elettorale importante, la Commissione o il Presidente del Consiglio europeo o la Bce entrano nei giochi elettorali con prese di posizione a favore di questo o quel candidato a governare i Paesi membri. In genere sono candidati dello status quo, giudicati compatibili con le politiche non solo delle istituzioni ma anche dei mercati. Chi non è ritenuto compatibile viene denominato populista.

Gli interventi di questo tipo sono molti, ma ne vorrei citare uno che mi sembra emblematico, risalente ai primi anni della crisi del debito. Mi riferisco a quanto dichiarato da Mario Draghi in una conferenza stampa del 7 marzo 2013, subito dopo un’elezione legislativa in Italia che vide il consolidamento del Movimento Cinque Stelle. Il messaggio fu interpretato come un elogio della democrazia, imprevedibile per definizione: «I mercati sono stati meno impressionati dei politici e di voi giornalisti. Capiscono che viviamo in democrazia. Siamo 17 paesi, ognuno ha due turni elettorali, nazionali e regionali, il che fa 34 elezioni in 3-4 anni: penso sia questa la democrazia, a noi tutti assai cara». Ma Draghi ha detto qualcosa di meno placido e di più contorto, sul voto italiano e le sorprese (brutte o belle dal suo punto di vista) che il suffragio universale può riservare ai mercati, specie nei paesi debitori. Ha dato una forma compiuta e istituzionale a quello che un altro banchiere centrale, l’ex governatore della Bundesbank Hans Tietmeyer, aveva detto fin dal 1998 a proposito della necessaria convivenza, e dell’opportuna equiparazione, tra i due plebisciti: il plebiscito delle urne e il “plebiscito permanente dei mercati internazionali”. Di questi mercati Draghi ha voluto farsi portavoce, spiegando il perché della loro impermeabilità ai verdetti elettorali. Dopo essersi inchinato alla democrazia ha aggiunto, quasi en passant, che l’austerità sarebbe continuata tale e quale, divinamente indifferente a quel che si agita nei bassi mondi. «Dovete considerare – così Draghi ha completato il suo ragionamento – che gran parte delle misure italiane di consolidamento dei conti continueranno a procedere con il pilota automatico». Il Pilota Automatico è qualcosa di liscio e di impenetrabile, che comporta se necessario un’abdicazione delle democrazie. Nel discorso di Draghi, il “permanente plebiscito dei mercati mondiali” prende infine il sopravvento sulle sovranità popolari. L’erosione delle costituzioni nei singoli Stati membri è frutto di questo nuovo rapporto di forze: nelle istituzioni europee come negli Stati membri, i poteri degli esecutivi tendono ad accentrarsi, divenendo preminenti. Non stupisce che Emmanuel Macron, eletto Presidente di una delle costituzioni più autocratiche dell’Unione, sia descritto dalle élite come un Messia.

Il primo marzo scorso in plenaria il Presidente Juncker ha detto una cosa simile, nel descrivere il White Paper sull’avvenire dell’Unione: “Il futuro dell’Europa non può divenire ostaggio dei cicli elettorali, delle politiche partitiche o delle vittorie di breve periodo”. Il che è come dire: l’Unione non può esser prigioniera di uno strumento paralizzante e potenzialmente devastante come il suffragio universale. Si è perfino avventurato in considerazioni storico-filosofiche: “L’Europa è sempre stata una scelta deliberata: una scelta che va difesa dagli attacchi di chi non vuol capire la Storia”. Una conclusione stupefacente, detta da un liberale. Che io sappia, il pensiero liberale classico non contempla questo genere di fideismo storico. Non dovrebbe esistere chi sta dentro e chi fuori dalla Storia, essendo la Storia qualcosa di completamente imprevedibile, che non marcia provvidenzialmente verso il migliore dei mondi possibili. Eppure sentiamo spesso i partiti della conservazione fare questa distinzione fra chi sta fuori e chi dentro la cosiddetta Storia: il pensiero dogmatico e ideologico ha ormai radici ben salde nei partiti che occupano le forze di centro del nostro emiciclo.

A ciò si aggiunga una considerazione, concernente la democrazia dentro l’Unione. Alcuni Paesi sono con ogni evidenza più eguali degli altri: il Parlamento tedesco può bloccare le politiche europee, i Parlamenti di altri paesi no. La Corte costituzionale tedesca può determinare il corso delle politiche europee e fissarne i limiti dettati dalle democrazie nazionali, la Corte portoghese non può mettere in questione nemmeno due paragrafi del memorandum di austerità (sentenza del 5 aprile 2013). Alla Grecia viene chiesto dalla Commissione di adattare le leggi nazionali alle politiche di rimpatri forzati di migranti verso la Turchia (per fortuna il governo greco ha risposto negativamente a questa domanda, per il momento). Ad altri Stati più potenti non è possibile fare richieste del genere.

Il secondo punto è la mancanza di democrazia delle istituzioni, e come ho detto il tema non è disgiunto dal primo. L’offensiva contro il suffragio universale e le sovranità popolari ha per forza di cose ripercussioni sulle politiche decise dalle istituzioni. Per meglio renderle invulnerabili, per evitare che il futuro dell’Unione sia preso in ostaggio dalle pratiche del suffragio universale, occorre che tali politiche siano il meno possibile sorvegliate, trasparenti, controllate ed eventualmente refutate: dai Parlamenti, dai referendum nazionali, o anche dal Parlamento europeo. L’accordo obbligatorio del Parlamento europeo sui Trattati tra Unione e Paesi terzi è evitato addirittura con escamotage semantici (è il caso dell’accordo con la Turchia sulla migrazione, chiamato furbescamente “statement” e non equiparabile dunque a un trattato su cui Il Parlamento avrebbe legalmente l’ultima parola). Oppure è evitato negando il coinvolgimento diretto in tali trattati o statement delle istituzioni UE, e sottraendo queste ultime ai giudizi della Corte di giustizia, non abilitata a giudicare accordi bilaterali di rimpatri di migranti. Lo stesso si può dire per quanto riguarda la conformità dei memorandum sull’austerità alle prescrizioni della Carta dei diritti fondamentali: anche qui si pratica l’escamotage, con la scusa che gli accordi sono stipulati tra il governo greco e i creditori, anche se questi ultimi si fanno rappresentare nei negoziati da istituzioni comuni europee come la Commissione e la Banca centrale europea, accanto al Fondo Monetario internazionale (a suo tempo la cosiddetta Troika).

Quanto alla Commissione, i suoi richiami alla democrazia e alla propria legittimità democratica sono costanti e poco credibili: tanto più costanti quanto meno credibili, si direbbe. La procedura dello Spitzenkandidat nelle elezioni del Parlamento non democratizza veramente l’istituzione, visto che il governo dell’Unione pretende di essere un governo tecnico e dunque senza mandato popolare, una volta passate le elezioni e le audizioni del Commissari. Basti ricordare la risposta che il Commissario al Commercio Cecilia Malmström diede nel 2015 a John Hilary, che l’interrogava sulle proteste popolari crescenti contro il TTIP: “Non ricevo il mio mandato dal popolo europeo – I do not take my mandate from the European people“. La cosa è aggravata dall’emendamento che Juncker vuole imporre alle regole di condotta della Commissione, nelle elezioni del Parlamento europeo: i Commissari possono candidarsi senza dover uscire dalla Commissione. Se accettato, l’emendamento contribuirà a politicizzare la Commissione e a de-politicizzare al tempo stesso lo scrutinio europeo e il Parlamento stesso.

***

L’unico ricorso è spesso solo giuridico: Corte di giustizia e Corte europea dei diritti dell’uomo. Tanto più significativa la sentenza emessa il 10 maggio scorso dalla Corte di giustizia a Lussemburgo su un’Iniziativa Cittadina – “Stop TTIP” – che la Commissione aveva giudicato irricevibile.

Per questi motivi sono contraria a una fuga dall’Europa verso le sovranità nazionali assolute. Può darsi che la storia andrà in questa direzione, ma al momento la struttura decisionale dell’Unione resta un ibrido, composto di elementi nazionali e sovranazionali. L’Altra Europa cui aspiriamo deve democratizzarsi su ambedue i livelli.

Abstract in English

Democracy in the Union and of the Union: necessity to distinguish the two levels of decision making, as the political structure of the Union is an hybrid and constitutional democracy is today threatened on both “governmental” levels.

Democracy in the Union:

what we are facing today is a double erosion: erosion of the constitutions in the Member States (centralisation and preeminence of the executives) and of the popular sovereignties (growing calling in question of the universal suffrage, as expressed in elections and referenda).  Direct involvement in electoral competitions of the Commission and the ECB. The old dichotomy between the “plebiscite” of the national elections and the “permanent plebiscite of the international markets”, suggested as a viable formula in 1998 by Hans Tietmeyer, at the time President of the Bundesbank, has given way to the explicit preeminence of the second “plebiscite”: the constant plebiscite of the financial markets. (Examples).

Democracy of the Union:

what we are facing is a progressive shirking of responsibilities by the EU institutions. The increasing power of such institutions goes hand in hand with a deliberate loss of responsibility not only from a political point of view but also from a judicial one. Such power without responsibility is implemented through semantic and political escamotages and explains the growing disrespect – in EU policies –  of the Charter of fundamental rights, the Convention of human rights, the Court of justice, the European Court of human rights. An evidence of such democratic retrogression is given by the way the Commission denies its involvement and accountability in the austerity memoranda or in the stipulations of international agreement like the EU-Turkey deal or the negotiations on TTIP or Ceta. (Examples).

Corruzione depenalizzata in Romania

di giovedì, Febbraio 2, 2017 0 , , Permalink

Bruxelles, 2 febbraio 2017. Intervento di Barbara Spinelli nel corso della sessione plenaria del Parlamento europeo.

Punto in agenda: Democrazia e giustizia in Romania

Dichiarazione della Commissione europea

Presenti al dibattito:

Frans Timmermans – Vicepresidente della Commissione e Commissario europeo per la migliore legislazione, le relazioni interistituzionali, lo stato di diritto e la carta dei diritti fondamentali

Da giorni, decine di migliaia di cittadini romeni scendono in piazza per protestare contro un decreto legge, predisposto dal Premier socialdemocratico, che depenalizza reati di corruzione sotto una certa soglia di danni (45.000 euro). Sono solidale con la loro battaglia, e con la reazione del Presidente Iohannis che ha descritto la promulgazione del decreto come “un giorno di lutto”. Venendo dall’Italia so cosa intende, quando parla di lutto: in Italia sono stati molteplici i tentativi di depenalizzare la corruzione e perfino la complicità politica con la mafia, negli anni di Berlusconi. Posso assicurarvi che la corruzione ne è uscita rafforzata.

Trovo soprattutto inquietante il modo in cui l’ordinanza, assieme ad altri decreti d’urgenza, è stata approvata: di nascosto, di notte, senza prima consultare Parlamento e Corte costituzionale. È un modo di procedere frequente, in Europa: il potere esecutivo viene sempre più accentrato, e le forze politiche che vincono le elezioni si comportano come se tale vittoria permettesse di abolire i meccanismi di check and balance su cui si fondano le democrazie costituzionali. Le proteste dei cittadini e della stampa in Romania ci ricordano che anche loro – associazioni e stampa indipendente – sono poteri chiamati a frenare il potere centrale: specie in tempi di crisi economica e sociale.

Dice il governo romeno che la depenalizzazione è necessaria per evitare le carceri sovraffollate denunciate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. È una scusa che non sta in piedi, anche qui l’Italia insegna. Decreti simili sono adottati per evitare il carcere a qualche decina di politici corrotti: tutto qui. Cosa che i cittadini, le Ong, i giudici costituzionali, lo stesso Presidente in Romania denunciano – a mio modesto parere – giustamente.

Meccanismo dell’UE in materia di democrazia: è necessario mostrare vigilanza autentica nei confronti delle istituzioni europee

Intervento di Barbara Spinelli, in qualità di Relatore ombra per il Gruppo GUE/NGL della Relazione “recante raccomandazioni alla Commissione sull’istituzione di un meccanismo dell’UE in materia di democrazia, Stato di diritto e diritti fondamentali” (Relatore Sophie in ‘t Veld – ALDE), nel corso della Sessione Plenaria del Parlamento europeo. Strasburgo, 25 ottobre 2016.

La risoluzione di cui discutiamo è importante perché per la prima volta non ci occupiamo dei diritti fuori dall’Unione, ma ci domandiamo se noi stessi rispettiamo la rule of law che pretendiamo incarnare. Il nuovo meccanismo ha tale scopo, e per questo il mio giudizio è positivo. Dall’inizio della grande crisi non si parla d’altro che di “fare i compiti a casa”. Ma i compiti sono solo economici, quasi mai tra i doveri primari figura la democrazia costituzionale. Spero che il meccanismo sposti un po’ gli accenti: che aiuti a riconoscere gli effetti dell’austerità su diritti come quello alla salute, al lavoro, a istituzioni trasparenti e incolpabili. Un meccanismo simile mancava. L’articolo 7 del Trattato è inutilizzabile perché in mano ai governi, dunque non imparziale.

Nel negoziato ho chiesto che le Istituzioni europee siano vagliate come gli Stati. Il risultato mi soddisfa solo in parte, perché tale vigilanza è promessa, ma per nulla garantita. Presenteremo emendamenti che diano questa garanzia.

Le istituzioni europee sono viste dai cittadini con sfiducia crescente perché opache, e molto intrusive. Se mostrassimo vigilanza autentica nei loro confronti, il meccanismo che sta nascendo sarebbe meno sospettabile di interferenza nelle politiche degli Stati.

Riprendere in mano l’Europa (dai poteri forti)

Barbara Spinelli in conversazione con Lorenzo Marsili, direttore e co-fondatore di European Alternatives. Il testo è stato pubblicato sul sito di DiEM25 e su openDemocracy (in inglese)

 

Nella tua risposta a Verhofstadt hai sostenuto che prima di iniziare a parlare di un cambiamento costituzionale dell’assetto europeo è necessario mettere in campo politiche in grado di recuperare la fiducia della cittadinanza verso il progetto europeo. Altrimenti, qualunque progetto di riforma dei Trattati rischierebbe di essere definitivamente affossato dalla sfiducia verso l’UE. Questo approccio “dei due tempi” è anche alla base del manifesto di DiEM25 – stabilizzazione dell’Eurozona prima, riforma costituzionale poi. Ci puoi dire che riforme pensi sia necessario mettere in campo per recuperare la fiducia verso il progetto europeo?

È del tutto insensato, se davvero si vuol difendere il progetto europeo, procedere a revisioni istituzionali prima di cambiare, e in maniera radicale – non rattoppando qua e là una tela già completamente stracciata – le politiche che ci hanno condotto a questa crisi che somiglia a quella degli anni Trenta perché non è solo economico-finanziaria, ma è in primo luogo sfacelo democratico, disintegrazione delle società, perdita di orientamento e di speranze vissuta dall’insieme dei cittadini europei. È finito il federalismo istituzionale, ancor oggi aggrappato alla convinzione che basti modificare i rapporti di forza tra i diversi organi dell’Unione per aggiustare le cose: per molti versi questa rivoluzione c’è stata, è ancor oggi in corso, e sappiamo che ha già prodotto quello che Jürgen Habermas chiama il «federalismo post-democratico degli esecutivi ». Lo sfacelo e la decomposizione dell’Unione sono così vasti, che l’ordine delle priorità deve mutare: la politics non perde di importanza, ma prioritaria oggi è la policy. La politics sarà sperabilmente di natura federale, ma dovrà essere la conseguenza e la formalizzazione di un fondamentale ripensamento delle politiche fin qui adottate: in campo economico, finanziario, nella gestione delle troppo esigue risorse proprie dell’Unione, nella democratizzazione-trasparenza effettiva, non più solo proclamata, di tutte le comuni istituzioni.

Precisamente questo viene rifiutato dai poteri costituiti dell’Unione, e tale rifiuto appare in modo palese in ambedue le risoluzioni su cui si sta lavorando nel Parlamento europeo: sia nel rapporto Verhofstadt sulla trasformazione dei Trattati, sia in quello – parallelo – che analizza quel che si può fare a Trattati costanti (i relatori sono Mercedes Bresso ed Elmar Brok, rispettivamente del gruppo Socialista e Popolare). L’idea di fondo dei due rapporti è evidente: occorre innanzitutto inserire nei Trattati i vari accordi economici stipulati da quando è iniziata la grande crisi, nel 2007-2008. Apparentemente lo scopo è democratico: il Parlamento europeo non ha alcun potere di co-decisione ed è quindi emarginato, ogni volta che gli accordi sono intergovernativi. E la tendenza degli Stati membri è di accrescere il numero e il peso di simili accordi: è una via privilegiata da governi che sempre meno sopportano la vigilanza dei Parlamenti nazionali come di quello europeo. È quanto sperimentato col Patto di bilancio europeo e anche con l’accordo UE-Turchia, ribattezzato “statement” proprio per evitare che, come trattato, fosse sottoposto al voto dei Parlamenti, sia quelli nazionali sia quello europeo.

Nella realtà la soluzione si configura come pura tecnica, priva di ambizioni trasformatrici. Heidegger diceva che l’essenza della tecnica non è mai tecnica, e che se tale essenza non è individuata, se ci si ostina a contrabbandare la tecnica come neutrale, si resta incatenati a essa e se ne diventa schiavi. Per questo parlo di insensatezza: ma insensatezza volontaria, simile alla schiavitù volontaria. Siamo arrivati a un punto di svolta nell’Unione, a un tipping point, e l’ossessiva insistenza sul metodo istituzionale – intergovernativo o comunitario o “unionale” che sia – non solo è insufficiente. È il mascheramento tecnico di una sostanza politica che non cambia, di un progetto europeo che non vuole diventare né politico né democratico, ma deliberatamente tende a costituirsi come programma di dominio oligarchico. Per fare un esempio, il Fiscal Compact sicuramente non migliora o diviene più giusto o tale da produrre buoni risultati, se lo integriamo sic et simpliciter nei Trattati e lo consideriamo materia del metodo comunitario invece che intergovernativo. In mano ci rimarrà una politica dell’austerità che ha fallito, e che tra l’altro comincia a essere criticata perfino dagli uffici studio del Fondo Monetario Internazionale. Né le cose migliorano se avremo un ministro europeo del Tesoro, per l’area euro o per l’Unione. Anche questa è tecnica utile al mascheramento di politiche che non mutano, e di poteri che non tollerano di essere vigilati.

In altre parole, siamo davanti a una precisa strategia: l’obiettivo consapevolmente perseguito non è un governo democratico normale, ma una governance. Non è l’interesse di tutti, ma di piccole cerchie e di poteri forti ben protetti dalle incognite del suffragio universale e dalle regole legate agli interni equilibri della democrazia costituzionale. Le stesse costituzioni antifasciste tendono a subire questa involuzione oligarchica, intesa a rafforzare al massimo gli esecutivi, a ridurre drasticamente il ruolo di ogni contrappeso: parlamentare, giudiziario, sindacale, dei mezzi d’informazione. Precisamente questo chiedeva la J.P. Morgan, in un rapporto del 28 maggio 2013: il congedo da ordinamenti costituzionali nati dall’esperienza antifascista, soprattutto nelle periferie Sud dell’Unione, e considerati “inadatti a un’ulteriore integrazione” della zona euro. I fattori di disturbo elencati dalla J.P. Morgan sono chiaramente esplicitati: esecutivi deboli, Stati centrali indeboliti dai poteri regionali, protezione costituzionale dei diritti del lavoro, diritto alla protesta contro cambiamenti sgraditi dello status quo. Il referendum sulla Costituzione italiana, che il governo di Matteo Renzi ha annunciato per il prossimo autunno, e l’annessa riforma elettorale, vanno in questa direzione. L’approdo su scala europea, come si è visto, è il federalismo postdemocratico degli esecutivi.

Ma perché, dopo anni di fallimenti e mezze riforme che nulla hanno fatto se non aggravare i problemi, dovremmo sperare nell’illuminazione dell’establishment? Nessuna proposta ambiziosa è passata indenne da quel luogo degli orrori che è il Consiglio europeo. Ventotto Paesi, ciascuno dei quali detentore del diritto di veto, molti governati apertamente da forze nazionaliste o xenofobe e alcuni vittima di profonde ossessioni economiche. Abbiamo già vissuto tutto: le proposte di un piano di investimento ridotte al risibile piano Juncker; un accordo sulle migrazioni ridotto a qualche centinaio di ricollocamenti dalla Grecia e una tangente al premier turco Erdogan. E via così passando per l’inutile Garanzia Giovani e la fallimentare Unione Bancaria. Perché dovrebbe essere diverso questa volta? Cosa si può fare per mettere in moto quello scarto necessario per attivare politiche ambiziose a Trattati vigenti? 

È chiaro che i Trattati vigenti non bastano. Che occorre un’autentica Costituzione: non più firmata dai governi degli Stati membri ma che cominci come quella statunitense: «We, the people…». Prima tuttavia vanno cambiate le politiche, e come farlo con le istituzioni esistenti? Sono convinta che una democratizzazione del loro funzionamento possa essere un primo passo avanti, anche se di sicuro non l’unico. Se i capi di governo, i capi di Stato, i ministri, i commissari, gli stessi parlamentari si sentissero sotto osservazione, «guardati» in permanenza da cittadini bene informati (dunque “illuminati”, secondo Kant: trattati come adulti), avrebbero qualche difficoltà a condursi come oligarchia. Non sarebbe possibile all’eurogruppo di prendere decisioni contro il parere di uno Stato membro, come avvenne dopo una riunione del 27 giugno 2015 quando l’allora ministro dell’Economia Yanis Varoufakis chiese che le obiezioni greche fossero almeno messe agli atti, e i servizi legali dell’Unione risposero che non era possibile, visto che “L’Eurogruppo non è menzionato nei Trattati UE e opera come un raggruppamento informale. Come tale non è soggetto ad alcuna regola scritta”.

Dai cittadini, e non solo dal Parlamento europeo, potrebbero venire piani concreti di trasformazione del progetto europeo, anche se la trasparenza non è tutto. I cittadini chiedono di più. L’unica cosa in cui oggi crederebbero è un vero New Deal europeo, che crei posti di lavoro e lotti contro povertà e disuguaglianza in crescita ovunque. Sono tante le proposte: da quelle illustrate da Yanis Varoufakis, a quelle indicate a suo tempo dall’Iniziativa cittadina “New Deal 4 Europe” (tassa sulle transazioni finanziarie e carbon tax per programmi di investimenti in uno sviluppo ecologicamente alternativo). Solo avviando un New Deal sapremo anche far fronte alla questione rifugiati, costruendo con loro un’economia solidale ed evitando di ricadere nella xenofobia, nel razzismo e nella violenza diffusa.

D’accordo, ma quali soggetti sono secondo te in grado di mettere in campo lo scarto necessario? Sentiamo a ripetizione le esortazioni a costruire “un’altra Europa”, in ultimo anche dallo stesso Matteo Renzi, ma a questa retorica non crede più nessuno. I partiti nazionali non sembrano interessati o capaci di andare oltre la semplice retorica euro-critica (ci ricordiamo, ben prima di Renzi, che fu Hollande a promettere una trasformazione delle logiche dell’austerità – ci troviamo ora con la Loi Travail e lo Stato di Emergenza). I partiti transnazionali – accrocchi che mettono insieme sigle nazionali senza una vera strategia o campagna condivisa – si sono dimostrati incapaci di guidare un riscatto democratico, basti pensare alla vicenda greca la scorsa estate. Bisognerebbe forse iniziare a immaginare un vero partito europeo? O forse, anche verso le prossime elezioni europee, provare a costruire un “fronte democratico” che porti assieme più forze con un semplice programma di riforma radicale dell’Unione? Insomma, come andare oltre la semplice retorica e mettere in campo una strategia di rottura di uno status quo che giustamente definisci, con i termini di Habermas, “federalismo esecutivo post-democratico”?

In realtà i soggetti ci sono, basterebbe avere una buona vista, e il linguaggio, la curiosità, la capacità di ascolto, i punti di ritrovo infine, che sono necessari perché si possa dir loro, alla maniera dei vecchi profeti: Eccoci, siamo qui non solo e non tanto per «rappresentarvi», ma per far conoscere e diffondere quello che pensate, che temete, che esigete, che vi ha delusi, che vi succede. La guerra di classe non è finita, anche se naturalmente la questione sociale si presenta con altre vesti. Non solo manca la rappresentanza di tali soggetti, non solo dobbiamo fare i conti con un’ampia offensiva dei poteri forti contro i più diversi organi intermedi della società, ma c’è qualcosa di più: la divisione oggi non è tra chi sta «sopra» e chi «sotto» – la metafora dell’ascensore sociale possiamo scordarcela– ma tra chi sta dentro e chi è «fuori», non tanto sottomesso quanto estromesso. La parola che traduce meglio questo star fuori l’ha detta Saskia Sassen: non è emarginazione e neanche più sfruttamento, ma è brutale espulsione. Siamo di fronte alle vecchie classi impoverite, a una classe media declassata e in preda allo spavento, a nuove classi che addirittura vengono private di un nome, e tutte ci dicono, come il Commendatore nel Don Giovanni: “Ah, tempo più non v’è”. A tutte queste bisogna parlare, evitando di cadere noi stessi nella negazione della realtà che stigmatizziamo.

Inutile continuare a nascondere il fatto che il fallimento dell’esperienza di Syriza ha inferto una ferita penetrata nel profondo, al punto che milioni di cittadini non credono più in possibili alternative, e giustamente hanno l’impressione che perfino il suffragio universale sia stato offeso e vanificato. Inutile nascondersi che la democrazia stessa ne esce con le ossa rotte, e indignarsi se sono tanti a reagire aggrappandosi solo al suffragio universale, dimenticando spesso che le nostre Costituzioni (in Italia e Germania in primis) iscrivono la democrazia maggioritaria nel reticolato cogente della rule of law e dell’equilibrio tra poteri, compreso il potere popolare maggioritario.

Sono convinta che le vicende greche sono state decisive, e hanno pesato moltissimo sul Brexit voluto da un gran numero di elettori che si sono detti, spesso senza calcolare le forze effettive della Gran Bretagna: quel che Atene non è riuscita a fare (la sovranità popolare ritrovata), noi come nazione abbiamo la forza e il peso strategico per compierlo sino alla fine. La capitolazione del governo Syriza dopo il referendum del 5 luglio 2015 va riconosciuta e raccontata come tale, come vera e propria «scena primaria» che scombussola il bambino che immaginava i genitori asessuati, dunque «innocenti». Una volta percepita la scena primaria puoi non tenerne conto, far finta di non accorgertene: l’effetto rimane ed è rovinoso se non ne esci con qualche accorgimento.

Voglio dire che la negazione della realtà è anche un nostro difetto, e devastante. La cesura greca continua a essere dissimulata, peggio ancora rimossa se non addirittura imbellita dalle stesse sinistre radicali che rivendicano un’«altra Europa». Quel che dobbiamo ritrovare è un rapporto con la realtà e le cose vere che essa ci dice: la realtà di un’umiliazione che Syriza non ammette, la realtà del successo di Donald Trump, la realtà del Brexit, la realtà di una società polacca che non ha più sopportato le menzogne pseudo liberali delle élite postcomuniste e ha dato la maggioranza a Jaroslaw Kaczynski e al PiS. Da qui bisogna ripartire, da quest’irruzione del principio di realtà, se vogliamo contrastare la riedizione degli anni Trenta.

Mi chiedi cosa si possa fare in concreto per costruire un partito europeo transnazionale, e una sorta di «fronte popolare» che nelle prossime elezioni europee si presenti con un programma di rottura con i poteri costituiti nell’Unione. Innanzitutto dobbiamo chiarire alcuni concetti, ponendo anche a noi stessi le domande chiave: cosa voglia dire precisamente riprendersi la sovranità; come salvaguardare la distinzione tra sovranità popolare e sovranità nazionale; quale sia il costo della non-Europa; quali siano le domande delle classi impoverite o senza più nome; cosa significhi la strategia di rottura di cui parli, e se esistano Stati e amministrazioni locali in grado di disobbedire alle assurde regole imposte da esecutivi nazionali o europei che pretendono di governarci.

Poi c’è da rispondere alle paure che di certo sono infiammate ad arte dai poteri forti, ma che sono pur sempre paure. Mettiamo l’immigrazione e i rifugiati: dobbiamo condannare l’indecenza dei muri e dei respingimenti collettivi predisposti con la complicità degli Stati oltre che della Commissione, e denunciare l’interesse di questi ultimi alla nascita di un’estrema destra da usare come spauracchio, ma al tempo stesso bisogna togliere la paura ai cittadini perché anch’essa è “realtà”. È urgente impostare una diffusa campagna contro questa paura: capendone i meccanismi, aiutando a vincerla con argomenti razionali, e spiegando che il “mostro” che ci si accampa davanti non è la questione rifugiati ma la questione dell’Europa che non funziona. Nessun governo, nessuna istituzione europea, nessun giornale mainstream ricorda ai cittadini che i rifugiati arrivati nell’Unione rappresentano solo lo 0,2 per cento delle sue popolazioni. Bisogna rompere con le regole, ma anche rassicurare i cittadini. Inutile rispondere che contro neofascismo e razzismi «mobiliteremo le masse», perché le masse in questione non esistono più e da decenni hanno in gran parte smesso di votare.

Questo ci sembra di avere imparato negli ultimi anni: è il processo decisionale europeo, tra l’altro in questi anni fortemente rivisitato su base inter-governativa, a rendere difficile una risposta coerente alle crisi che attanagliano il nostro continente. A un certo punto dovremmo arrivare a parlare di riforma dell’assetto costituzionale europeo e dei Trattati. Ma è un percorso pieno di insidie. Il cosiddetto “piano Schäuble”, ossia integrazione dell’Eurozona attraverso la nomina di un ministro del tesoro europeo con la responsabilità di far rispettare i limiti di bilancio e i dettami dell’austerity, sembra un passo nella direzione sbagliata. Ma anche una tradizionale Convenzione europea – spettacolo grigio di burocrati e diplomazie nazionali – rischia di risultare in un buco nell’acqua. In molti parlano di Assemblea costituente, ossia un consesso direttamente eletto dai cittadini europei. Altri ancora, come Piketty, promuovono l’idea di un Parlamento dell’Eurozona. Che te ne pare? 

Sono d’accordo con l’idea di un’Assemblea costituente, ma senza affidare il progetto a consulti intergovernativi. Già una volta, nel 1984, un progetto costituzionale avanzato dal Parlamento europeo fu in tal modo deturpato e devitalizzato.

Il Piano Schäuble di cui parli imbocca ben altra strada. Non si limita nemmeno più a preconizzare un ministro europeo del Tesoro. Da quando la Gran Bretagna ha votato il Brexit, Schäuble raccomanda il ritorno all’Europa intergovernativa, alla vecchia “balance of power” che causò nel secolo scorso due guerre mondiali. Prende congedo da ogni visione federale, pur di salvare e proteggere le politiche di austerità che sono state imposte in questi anni. La stessa parola “visione” è aborrita: la parola d’ordine, secondo Habermas, è oggi la seguente: “Niente più visioni, tutto è ormai questione di Lösungskompetenz”, di “solution skills”. Lo scopo che si prefigge Schäuble, e con lui l’establishment tedesco, è il consolidamento e la definitiva vittoria dell’ordo-liberalismo. Secondo la teoria ordo-liberale, nata fra le due guerre nella Scuola di Friburgo, “tenere in ordine la casa nazionale” è la condizione necessaria e sufficiente perché ci sia un ordine internazionale: prima ogni Stato deve riordinare i propri conti, e solo dopoverranno le risorse economiche messe in comune, i piani di cooperazione, i New Deal stile Roosevelt, e in Europa l’unione politica federale o “più stretta”. Nelle sedi internazionali non si deve decidere alcunché in comune; al massimo ci si informa, e i più forti impongono aggiustamenti ai più deboli. La dottrina della casa in ordine è un’altra tecnica che dovremmo studiare da vicino, per scoprirne la più vera essenza. L’essenza è il ritorno puro e semplice al nazionalismo. Un nazionalismo che rischia di contaminare anche il pensiero delle sinistre contrarie all’austerity, nel Paesi dell’Unione. A queste sinistre, nei Paesi membri e nel Parlamento europeo, mi sentirei di dire: attenzione, nelle battaglie per l’”uscita” dall’euro, o dall’Unione, rischiate di ritrovarvi come compagno di banco il nazionalismo appena mascherato di Wolfgang Schäuble.

I leader di paglia dell’Unione: così sono falliti i sogni

Articolo pubblicato su «Il Fatto Quotidiano» del 29 giugno 2016

Nel Parlamento europeo di cui sono membro, quel che innanzitutto colpisce, osservando la reazione alla Brexit, è la diffusa assenza di autocritica, di memoria storica, di allarme profondo – e anche di qualsiasi curiosità – di fronte al manifestarsi delle volontà elettorali di un Paese membro. (Perché non va dimenticato che stiamo parlando di un Paese ancora membro dell’Unione.) Una rimozione collettiva che si rivela quanto mai grottesca e catastrofica, ma che dura da decenni. Meriterebbe studi molto accurati; mi limiterò a menzionare alcuni punti essenziali.

1. Quel che manca è l’ammissione delle responsabilità, il riconoscimento esplicito del fallimento monumentale delle istituzioni europee e dei dirigenti nazionali: tutti. La cecità è totale, devastante e volontaria. Da anni, e in particolare dall’inizio della crisi del 2007-2008, istituzioni e governi conducono politiche di austerità che hanno prodotto solo povertà e recessione. Da anni disprezzano e soffocano uno scontento popolare crescente. Non hanno memoria del passato – né quello lontano né quello vicino. Sono come gli uomini vuoti di Eliot: “Uomini impagliati che s’appoggiano l’un all’altro, la testa riempita di paglia”. La loro ignoranza si combina con una supponenza senza limiti. Il suffragio universale ha tutte le colpe e le classi dirigenti nessuna. È come se costoro, trovandosi a dover affrontare un esame di storia al primo anno d’università, dicessero che le cause dell’avvento del nazismo sono addebitabili solo a chi votò Hitler, senza mai menzionare le istituzioni di Weimar. Sarebbero bocciati senza esitazione; qui invece continuano a dare lezioni magistrali.

2. Nessun legame viene stabilito tra la Brexit e l’evento disgregante che fu l’esperimento con la Grecia. Nulla hanno contato le elezioni greche, nulla il referendum che ha respinto il memorandum della troika. Dopo i negoziati del luglio scorso il divario tra volontà popolare ed élite europea si è fatto più che mai vasto, tangibile e diffuso. Con più peso evidentemente della Grecia, il Regno Unito ha posto a suo modo la questione centrale della sovranità democratica, anche se con nefaste connotazioni nazionalistiche: il suo voto è rispettato, quello greco no. Le lacerazioni prodotte dal dibattito sulla Grexit hanno contribuito a produrre il Brexit, e il ruolo svolto nella campagna dal fallito esperimento Tsipras è stato ripetutamente ostentato. Ma nelle classi politiche ormai la memoria dura meno di un anno; di questo passo tra poco usciranno di casa la mattina dimenticandosi di essere ancora in mutande. È per colpa loro che la realtà ha infine fatto irruzione: Trump negli Usa è la realtà, l’uscita inglese è la realtà. Il voto britannico è la vendetta della realtà sulle astrazioni e i calcoli errati di Bruxelles.

3. La via d’uscita prospettata dalle forze politiche consiste in una falsa nuova Unione, a più velocità e costituita da un “nucleo centrale” più coeso e interamente dominato dalla Germania. Le parole d’ordine restano immutate: austerità, smantellamento dello Stato sociale e dei diritti, e per quanto riguarda il commercio internazionale – Ttip, Tisa, Ceta – piena libertà alle grandi corporazioni e ai mercati, distruzione delle norme europee, neutralizzazione di contrappesi delle democrazie costituzionali come giustizia, Parlamenti e volontà popolari.
Lo status quo è difeso con accanimento: nei rapporti che sto seguendo come relatore ombra per il Gue mi è stato impossibile inserire paragrafi sulla questione sociale, sul Welfare, sulla sovranità cittadina, sui fallimenti delle terapie di austerità.

4. Migrazione e rifugiati. È stato un elemento centrale della campagna per il Leave – che ha puntato il dito sia su rifugiati e migranti extraeuropei, sia sull’immigrazione interna all’Ue –, ma le politiche dell’Unione già hanno incorporato le idee delle destre estreme, negoziando accordi di rimpatrio con la Turchia (e in prospettiva con 16 paesi africani, dittature comprese come Eritrea e Sudan) e non hanno quindi una visione alternativa a quella dell’Ukip. La Brexit su questo punto è un disastro: rafforzerà, ovunque, la paura dello straniero e le estreme destre che invocano respingimenti collettivi vietati espressamente dalla legge internazionale e dalla Carta europea dei diritti fondamentali. Quanto ai migranti dell’Unione che vivono in Inghilterra, erano già a rischio in seguito all’accordo dello scorso febbraio tra Ue e Cameron. Le politiche dell’Unione sui rifugiati sono un cumulo di rovine che ha dato le ali alla xenofobia.

5. Il ritorno alla sovranità che la maggioranza degli inglesi ha detto di voler recuperare mette in luce un ulteriore e più vasto fallimento. L’Unione doveva esser un baluardo per i cittadini contro l’arbitrio dei mercati globalizzati. La scommessa è perduta: le sovranità nazionali escono ancora più indebolite e l’Unione non protegge in alcun modo. Non è uno scudo ma il semplice portavoce dei mercati. La globalizzazione ha dato vita a una sorta di costituzione non scritta dell’Unione, avversa a ogni riforma-controllo del capitalismo e a ogni espressione di scontento popolare, e in cui tutti i poteri sono affidati a un’oligarchia che non intende rispondere a nessuno delle proprie scelte. Sarà ricordata come esemplare la risposta data dal Commissario Malmström nell’ottobre 2015 a chi l’interrogava sui movimenti contrari a Ttip e Tisa: “Non ricevo il mio mandato dal popolo europeo”. Questa costituzione non scritta si chiama governance e poggia su un concetto caro alle élite fin dagli anni 70 (il vero inizio della crisi economica e democratica): obiettivo non è il governo democratico ma la governabilità. Il cittadino “governabile” è per definizione passivo.

6. L’intera discussione sulla Brexit si sta svolgendo come se l’alternativa si riducesse esclusivamente a due visioni competitive: quella distruttiva dell’exit e quella autocompiaciuta e immutata del Remain. Le cose non stanno così. C’è una terza via, rappresentata dalla critica radicale della presente costruzione europea, dalla denuncia delle sue azioni e dalla ricerca di un’alternativa. Era la linea di Tsipras prima che Syriza andasse al governo. È la linea di Unidos Podemos, che purtroppo non è stata premiata. Resta il fatto che questa tripolarità è del tutto assente dal dibattito.

7. La democrazia diretta, i referendum, la cosiddetta e-democracy. Il gruppo centrale del Parlamento li guarda con un’ostilità che la Brexit accentuerà. La democrazia diretta è certo rischiosa, ma quando il rischio si concretizza, quasi sempre la causa risiede nel fallimento della democrazia rappresentativa. Se per più legislature successive e indipendentemente dall’alternarsi delle maggioranze la sensazione è che sia venuta meno la rappresentatività e con essa la responsabilità di chi è stato incaricato di decidere al posto dei cittadini, i cittadini non ci stanno più.

Intervento sulla Relazione “Istituzione di un meccanismo UE in materia di democrazia, Stato di diritto e diritti fondamentali”

Bruxelles, 21 aprile 2016. Intervento di Barbara Spinelli, in qualità di relatore ombra per il Gruppo GUE/NGL della Relazione “Istituzione di un meccanismo UE in materia di democrazia, Stato di diritto e diritti fondamentali” (Relatore: Sophie in’t Veld – ALDE)  nel corso della riunione ordinaria della Commissione Libertà civili, giustizia e affari interni (LIBE).

Punto in agenda:

  • Esame del progetto di relazione
  • Fissazione del termine per la presentazione di emendamenti

Ringrazio la Relatrice per l’ottimo lavoro fatto su un dossier che è complicato, e per la consultazioni davvero ampie che ha avuto con molte ONG e portatori di interesse. Ho molto apprezzato il tentativo di trovare una base legale appropriata, che permetta di oltrepassare i limiti posti dai trattati e così procedere alla definizione di uno strumento che sia presto operativo e non richieda una revisione degli stessi nell’immediato. Allo stesso modo trovo interessanti e condivisibili le proposte inserite nella relazione: mi riferisco all’idea di istituire un fondo europeo di assistenza legale ai cittadini, nell’ipotesi di procedimenti in materia di violazioni dei diritti fondamentali e della rule of law, così come alle proposte avanzate nell’ipotesi di revisione dei trattati (penso all’abolizione dell’articolo 51[1] della Carta, all’articolo 2[2] del Trattato sull’Unione europea come base legale per procedure di infrazione, alla possibilità per i cittadini di promuovere azioni individuali di fronte alla Corte di giustizia).

A proposito del nucleo centrale del lavoro, ossia dell’accordo interistituzionale che viene annesso al rapporto vero e proprio, vorrei fare alcune considerazioni.

Trovo considerevole la Sezione I del documento, dedicata al cosiddetto “Scoreboard”, e apprezzo soprattutto la proposta di coinvolgere un ampio spettro di pareri autorevoli e indipendenti – anche se forse avrei delle riserve sul numero, particolarmente alto, di esperti individuati -, il tentativo di elaborare linee guida sicure e basate sugli sviluppi attuali nel campo dei diritti e della rule of law, di fondare la valutazione degli esperti su parametri legali certi, e – non per ultimo – di garantire il più possibile l’indipendenza dell’organo di valutazione.

Vorrei a questo punto elencare alcune riserve su tre punti:

1) Primo, il follow-up allo scoreboard. Un ruolo centrale in merito alla valutazione dello stesso è rimesso al Consiglio attraverso lo strumento del dialogo annuale. Non condivido pienamente l’idea di rimettere il controllo delle condotte degli Stati allo stesso organo che li rappresenta. Meglio forse un organo indipendente.

Allo stesso modo, ho qualche perplessità riguardo ai rimedi in caso di violazioni. L’unificazione degli strumenti esistenti permette sicuramente di aggirare una spinosa revisione dei trattati ma, allo stesso tempo e nella sostanza, non modifica lo status quo basato sul ricorso a uno strumento – l’articolo 7[3] del Trattato sull’Unione europea – caratterizzato da discrezione politica e da una sostanziale assenza di un intervento concreto della Corte di giustizia.

2) Secondo, l’analisi e il monitoraggio delle istituzioni dell’Unione quando violano diritti e rule of law. La relazione dice chiaramente che il meccanismo in esame dovrebbe applicarsi sia agli Stati Membri sia alle istituzioni. La proposta di accordo interistituzionale, tuttavia, finisce col generare un duplice sistema, nel quale oltretutto lo Scoreboard non si applica nei confronti delle istituzioni UE. A questo si aggiunga che lo strumento dell’accordo interistituzionale sembra vincolare le sole istituzioni firmatarie, escludendo dal campo di applicazione una serie di organi e agenzie molto importanti dell’Unione. A mio avviso un meccanismo realmente efficace a tutela della democrazia, della rule of law e dei diritti umani dovrebbe coprire il più ampio spettro possibile di soggetti, estendendosi a tutti quelli che operano sotto l’ombrello dell’Unione. Manca, infatti, un esplicito riferimento a istituzioni quali il Consiglio europeo e la Banca Centrale Europea, ad agenzie come Frontex o Europol, nonché a organismi informali (come l’Eurogruppo), suscettibili di violare i diritti fondamentali. L’analisi delle condotte delle agenzie potrebbe essa stessa divenire un parametro di valutazione della funzione di controllo e vigilanza esercitata dalla Commissione europea. A mio parere sarebbe inoltre essenziale andare oltre la valutazione della fase puramente legislativa e prendere in considerazione tutti gli atti suscettibili, ai sensi dell’articolo 263 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, di produrre effetti giuridici nei confronti di terzi.

3) Terzo punto e ultimo punto: i diritti sociali. Lo Scoreboard introduce espressamente la Carta dei diritti fondamentali come indicatore delle prestazioni. Tuttavia l’analisi sarebbe limitata dalle disposizioni della stessa Carta che definiscono la portata dei diritti sociali – definiti come “principi”, e quindi con rilievo inferiore rispetto ai diritti civili – in essa contenuti. Sarebbe a mio parere utile integrare la valutazione con parametri ulteriori e procedere, in futuro, a esplorare la possibilità di un’adesione dell’Unione alla Carta sociale europea del Consiglio d’Europa, e quindi di un’inclusione di tale Carta in quello che giustamente viene definito e delineato come “processo” dalla Relazione.

[1] Articolo 51 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea: “1. Le disposizioni della presente Carta si applicano alle istituzioni, organi e organismi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione. Pertanto, i suddetti soggetti rispettano i diritti, osservano i principi e ne promuovono l’applicazione secondo le rispettive competenze e nel rispetto dei limiti delle competenze conferite all’Unione nei trattati. 2. La presente Carta non estende l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione al di là delle competenze dell’Unione, né introduce competenze nuove o compiti nuovi per l’Unione, né modifica le competenze e i compiti definiti nei trattati“.

[2] Articolo 2 del Trattato sull’Unione Europea: “L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini“.

[3] Articolo 7 del Trattato sull’Unione Europea: “1. Su proposta motivata di un terzo degli Stati membri, del Parlamento europeo o della Commissione europea, il Consiglio, deliberando alla maggioranza dei quattro quinti dei suoi membri previa approvazione del Parlamento europeo, può constatare che esiste un evidente rischio di violazione grave da parte di uno Stato membro dei valori di cui all’articolo 2. Prima di procedere a tale constatazione il Consiglio ascolta lo Stato membro in questione e può rivolgergli delle raccomandazioni, deliberando secondo la stessa procedura. Il Consiglio verifica regolarmente se i motivi che hanno condotto a tale constatazione permangono validi.
2. Il Consiglio europeo, deliberando all’unanimità su proposta di un terzo degli Stati membri o della Commissione europea e previa approvazione del Parlamento europeo, può constatare l’esistenza di una violazione grave e persistente da parte di uno Stato membro dei valori di cui all’articolo 2, dopo aver invitato tale Stato membro a presentare osservazioni.
3. Qualora sia stata effettuata la constatazione di cui al paragrafo 2, il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, può decidere di sospendere alcuni dei diritti derivanti allo Stato membro in questione dall’applicazione dei trattati, compresi i diritti di voto del rappresentante del governo di tale Stato membro in seno al Consiglio. Nell’agire in tal senso, il Consiglio tiene conto delle possibili conseguenze di una siffatta sospensione sui diritti e sugli obblighi delle persone fisiche e giuridiche.
Lo Stato membro in questione continua in ogni caso ad essere vincolato dagli obblighi che gli derivano dai trattati.
4. Il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, può successivamente decidere di modificare o revocare le misure adottate a norma del paragrafo 3, per rispondere ai cambiamenti nella situazione che ha portato alla loro imposizione.
5. Le modalità di voto che, ai fini del presente articolo, si applicano al Parlamento europeo, al Consiglio europeo e al Consiglio sono stabilite nell’articolo 354 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea.

L’Unione Europea e il deficit di democrazia

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Mercoledì 13 gennaio nella sede del Parlamento europeo a Bruxelles si è svolta la conferenza “The Shield of Europe: the EU Charter of Fundamental Rights”, organizzata da Barbara Spinelli con il GUE/NGL.

Intervento di Barbara Spinelli:

L’Unione Europea e il deficit di democrazia

Questo seminario è stato pensato in occasione di quella che viene comunemente soprannominata crisi del debito greco, e che sin dall’inizio sarebbe stato meglio chiamare, in osservanza del principio di realtà: crisi e addirittura tracollo dell’intero progetto di unificazione europea. Le imprecisioni linguistiche non sono mai casuali. Sono deliberatamente usate per nascondere quel che sta accadendo, per scongiurare una rimessa in questione troppo difficile o costosa per le élite dominanti. Sono gli ingredienti di una strategia di evitamento. Circoscrivere la crisi concentrandola sul debito greco neutralizza le responsabilità e gli errori dell’Unione, serve a spoliticizzare quest’ultima. Ingrandisce i poteri di una governance sempre più incontrollata e sopprime in parallelo quelli dei cittadini, che non sanno più a quale governo rivolgersi né dove sia la sovranità (governance non è governo: è potere senza imputabilità).

Il progetto europeo era nato per restaurare le democrazie costituzionali dopo due conflitti mondiali, per dare a esse basi più durevoli, per unire le forze col proposito di curare i due mali che avevano distrutto il continente nella prima metà del Novecento: l’ingiustizia sociale e l’ostilità reciproca fra Stati del continente. Oggi dobbiamo constatare che ambedue i fini non sono raggiunti: l’ingiustizia e la disuguaglianza sociale va crescendo da circa 40 anni, l’ostilità fra Stati si estende, e dalla crisi scoppiata nel 2007-2008 usciamo con un divario netto fra esigenze delle democrazie nazionali e precetti delle istituzioni europee, nonché degli innumerevoli organismi ad hoc creati fuori dai Trattati.

Quel che è accaduto dopo la vicenda greca conferma al tempo stesso la crisi del progetto e la cecità delle élite che guidano l’Europa. La mancata solidarietà sulla gestione dei rifugiati, le frontiere che si alzano ovunque e caoticamente dentro lo spazio dell’Unione, la sistematica violazione delle Costituzioni nazionali e della Carta europea dei diritti fondamentali: ecco la risposta che viene data, non si sa più in nome di quale mandato, ai fenomeni migratori, al terrorismo, alle guerre che imperversano ai confini sud ed est dell’Europa. Siamo di nuovo e più che mai in una tempesta perfetta, e sono anni che l’Unione resta impigliata in una sua presunzione fatale: che le ricette adottate durante la crisi siano l’unica e ideale soluzione, che le istituzioni comunitarie non necessitino cambiamenti radicali. O meglio: che le istituzioni vadano cambiate surrettiziamente, dall’alto, dando vita appunto a un grande potere senza imputabilità. Che l’unica vera sfida sia quella di salvare il funzionamento dei mercati e la competitività, anche se sono molti ormai gli economisti – da Paul Krugman a Martin Wolf a Robert Reich – a negare la natura indispensabile della competitività nei sistemi di tassazione o nei mercati del lavoro, e la coincidenza tra le regole che valgono per un’azienda e le regole che valgono per uno Stato. Per la verità le istituzioni non restano immobili: cambiano, e non marginalmente visto che si svuotano di democrazia.

Volutamente uso il termine coniato da Friedrich Hayek per definire il progetto sovietico e socialista: la presunzione fatale – fatal conceit – è quella che caratterizza i difensori dei dogmi e delle svolte autoritarie, e non stupisce che aumentino nell’Unione i politici e governanti attratti da modelli più efficaci e rapidi di quelli sin qui difesi dall’Unione. Modelli come quello del Pc cinese, o dello statista di Singapore Lee Kuan Yew. L’allargamento a Est dell’Unione ha rafforzato il fascino nemmeno molto segreto esercitato dall’autoritarismo. Ricordo che una parte consistente di Solidarnosc, sul finire del regime comunista, tesseva l’elogio delle ardite e competitive strategie economiche di Pinochet. L’allargamento è stato fatto senza che questi equivoci siano stati fugati, sempre che di equivoci si sia trattato. La svolta antidemocratica è più diffusa di quanto ammettano i detrattori di Budapest e Varsavia.

Come fautori del vecchio progetto europeo, possiamo reagire al presente sfacelo in due modi: alla maniera di Cicerone, come lo racconta Shakespeare nel Giulio Cesare (“Buona notte Casca, questo cielo turbato sconsiglia di andare in giro” – “this disturbed sky 
is not to walk in”). Ma sarebbe rispondere alla strategia dell’evitamento con un comportamento di eguale natura: Cicerone è saggio ma alla lunga non avrà influenza perché semplicemente “si tira fuori”. Oppure si può entrare nella tempesta, denunciare a chiare lettere chi prima ha voluto il predominio disordinato dei mercati poi ne ha profittato per diluire il patrimonio democratico delle nazioni europee, e cercare di influenzare gli eventi chiedendo che l’Unione si dia una costituzione democratica, vincolante non solo per i cittadini e gli Stati ma anche per le istituzioni. E non solo: che rispetti le costituzioni democratiche delle nazioni, spesso più avanzate non solo del Trattato di Lisbona ma anche della Carta europea dei diritti. È l’alternativa di Albert Hirschman che vorrei qui riproporvi: o la strategia dell’exit o quella del voice, della presa di parola critica all’interno della costruzione europea. [1]

Le due strategie non sono opposte, nelle teorie di Hirschman, anche se possono naturalmente diventarlo. La minaccia dell’exit può essere utile e feconda, per risvegliare il desiderio, la forza e l’udibilità della “presa di parola” attiva. Dunque è utile denunciare quel che si è rotto, compreso quel che si è rotto irrimediabilmente, e a questo serve anche il nostro incontro: a connettere la tensione verso l’uscita con il voice, ovvero la presa di parola, la contestazione, e la proposta.

Chi chiede l’exit infatti ha le sue ragioni, e anche se corre dietro una non recuperabile sovranità nazionale assoluta è da molti punti di vista più vicino alla realtà di chi vive nella presunzione fatale di un’Unione funzionante, da correggere ai margini o surrettiziamente. Sono le oligarchie che dominano oggi l’Europa e i singoli governi ad aver perso il rapporto sia con le realtà vissute dai cittadini (basti pensare alla disorganizzazione degli Stati di fronte ad atti di terrorismo o a violenze come quelle accadute in varie città tedesche a Capodanno) sia con il progetto europeo in quanto tale. Sono le oligarchie a ignorare che non si può continuativamente violare i diritti delle persone e le Carte approvate dall’Unione, che non si può sprezzare sistematicamente i verdetti elettorali e le volontà dei popoli senza poi, un giorno, pagare tutto intero un prezzo molto alto e distruttivo.

Quel che dobbiamo sapere, è che i custodi dei dogmi dell’austerità neoliberale e della sorveglianza di massa non sono più al servizio della democrazia costituzionale, fin dagli anni ’70 sono tentati da Costituzioni che accentrano tutti i poteri negli esecutivi, e per quanto riguarda l’establishment di Bruxelles sono già nella logica dei regimi autoritari. Basti qui ricordare la risposta che Cecilia Malmström, commissario responsabile del commercio, ha dato alle domande critiche che John Hilary, direttore esecutivo dell’associazione inglese War on Want, ha mosso al TTIP, il 15 ottobre scorso su “The Independent”. A cosa sono servite le petizioni contro il Trattato transatlantico in vari Paesi europei (circa 4 milioni di firme)? A cosa servono le manifestazioni, spesso spettacolari? La replica della Malmström è stata: “Non ricevo il mio mandato dal popolo europeo”.

La frase è significativa perché se la Commissione non ha ricevuto un mandato dal popolo, da chi lo riceve? Chi controlla il sempre più potente controllore, se non un insieme di lobby e di grandi banche e multinazionali? E da chi ricevono il mandato la Banca centrale europea, la trojka, l’eurogruppo che è una struttura completamente fuori da ogni controllo parlamentare e che nemmeno tiene i verbali delle proprie riunioni, e Frontex che sempre più presidierà le frontiere europee attivandosi anche nei paesi terzi? Cosa sono queste istituzioni, custodi di uno spazio di non diritto nell’Unione, dove non valgono né le regole della Carta, né gli articoli sociali del Trattato, né le costituzioni nazionali? L’ottimismo panglossiano ha sempre fatto dire, ai responsabili dell’Unione: “L’Unione politica che farà funzionare l’euro e legittimerà i vari organi tecnici dell’attuale governance verrà, perché necessaria”. Non è venuta e non viene. Il presidente della Bundesbank già dice, senza esitare, che non ce n’è più bisogno.

Per questo all’inizio ho menzionato il caso greco, nel mio tentativo di diagnosi. Perché in quell’occasione si è sperimentata e poi consolidata una sorta di diritto emergenziale permanente, uno stato di eccezione che sfigura ormai in maniera aperta, senza più pudore, il progetto europeo, e non i valori astratti ma i diritti iscritti nella Carta e gli obiettivi fissati negli articoli 2 e 3 del Trattato (pluralismo, non discriminazione, tolleranza, giustizia, solidarietà, parità tra donne e uomini, e piena occupazione, progresso sociale, sviluppo sostenibile). Tra questi obiettivi e i bisogni dello stato d’emergenza, tra elezioni nazionali e politiche decise a Bruxelles si è creato un divario che tende a divenire incompatibilità fondamentale. Si è creata incompatibilità tra le misure imposte alla Grecia nel memorandum anti-crisi e precisi articoli del Trattato e della Carta, che cessano di essere vincolanti senza che i cittadini ne siano informati. Penso per fare un esempio al titolo IV della Carta – quello sulla solidarietà – e in quest’ambito agli articoli 28, 30, 34, 35, che prevedono il diritto a concludere contratti collettivi, alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato (art. 18 in Italia), alla sicurezza sociale e all’assistenza abitativa, a un livello elevato di protezione della salute. Penso, per quanto riguarda i rifugiati, al diritto alla vita e al non respingimento collettivo.

Vorrei chiedervi in queste quattro sessioni come siamo arrivati a questo punto, e soprattutto come può essere riempito il divario tra proclami e politiche concrete. E vorrei richiamare anche la vostra attenzione sull’aspetto internazionale del problema. Il diritto emergenziale si applica in tempi di guerra, e i leader europei dopo gli ultimi attacchi terroristi non esitano a proclamare proprio questo: lo stato di guerra. Alle frontiere c’è un caos che le nostre politiche estere hanno spesso acceso, e che non sanno come spegnere. L’Europa ha subappaltato agli Stati Uniti la gestione della pace e della guerra, ma gli Stati Uniti hanno mostrato di essere non una potenza creatrice di ordine internazionale, ma un impotente artefice di caos globale. In questo senso, l’Europa deve darsi subito una politica razionale e seria verso la Russia: tra le tante sue mancanze, questa è oggi la più vistosa.

L’Europa è nata come un progetto politico di pace tra le nazioni, e anche questa missione è scomparsa, sempre che sia mai nata. Se non fosse così, non assisterebbe passivamente alla politica di distruzione dei curdi operata dal regime turco, per non parlare dell’abbattimento dell’aereo russo avvenuto nel novembre scorso. Abbiamo bisogno della Turchia per tenere a bada e diminuire l’afflusso di rifugiati, e in cambio – come fossimo ricattati – siamo disposti a chiudere tutti e due gli occhi verso le politiche destabilizzanti di Erdogan in Siria e in Iraq. Se Erdogan rimpatria i rifugiati nelle zone di guerra riceve addirittura ricompense, sotto forma di un aiuto di “assistenza” pari a 3 miliardi di euro.

Anche su questi punti chiedo vostre meditazioni e vostre idee. Penso che il nostro incontro dovrebbe essere il primo di una serie. Regolarmente dovremmo incontrarci per vedere a che punto siamo. E se sia possibile evitare, almeno da parte nostra, quella strategia difensiva dell’evitamento che permette all’Europa di non entrare in contatto con ciò che ha suscitato al suo interno prima l’ansia, poi la paura, poi la propensione ad autodistruggersi.

[1]     Otto Albert O. Hirschman, Exit, Voice and Loyalty, 1970.


 

 Si veda anche:

Le promesse tradite dell’Europa che uccide anche con le parole (file .pdf), sintesi dell’intervento pubblicata in forma di articolo su «Il Fatto Quotidiano» del 13 gennaio 2016

Controllo della democrazia, dello Stato di diritto e dei diritti fondamentali

Intervento di Barbara Spinelli nel corso della riunione ordinaria della commissione Libertà civili, giustizia e affari interni del 10 dicembre 2015, in qualità di relatore ombra della Relazione di Iniziativa Legislativa “Istituzione di un meccanismo UE in materia di democrazia, Stato di diritto e diritti fondamentali” (Relatore: Sophia in’t Veld – ALDE, Paesi Bassi)

Punto in agenda: Mini-audizione sul controllo della democrazia, dello Stato di diritto e dei diritti fondamentali: metodi e indicatori

Oratori:

  • Paraskevi Michou – Deputy Secretary General, European Commission
  • Gabriel Toggenburg – Senior Legal Advisor, European Union Agency for Fundamental Rights
  • Simona Granata-Menghini – Deputy Secretary of the Venice Commission, Council of Europe
  • Julinda Beqiraj – Bingham Centre for the Rule of Law, British Institute of International and Comparative Law

Vorrei fare due domande, precedute da una breve premessa. La premessa è la seguente: è stato detto, dalla Dott.ssa Granata-Menghini, che il pieno raggiungimento dello stato di diritto (rule of law) è un’utopia. Penso che sia un’affermazione leggermente pericolosa. Il pieno raggiungimento dello stato di diritto è senz’altro difficile, ma non è un’utopia. L’utopia è il non-luogo, la non-esistenza. È come se dicessimo che il riformismo è utopico. Allora non ci resta veramente nient’altro che la conservazione, perché se non abbiamo più la rivoluzione, se non abbiamo più neanche il riformismo, non ci resta più niente. Il risultato di questa sparizione è che ci troviamo di fronte, in un’Europa che nonostante tutto sta cambiando, a una violazione diffusa dei diritti umani – riguardo ai rifugiati, alla libera circolazione dentro l’Unione – e il rischio è il seguente: affermando che la rule of law è utopica, ci si limita a dire che essa necessita di “semplice” promozione, si finisce per dar vita a un mero “club di discussione” sullo Stato di diritto, come precedentemente sostenuto dalla collega Monika Flašíková Beňová, e si dimentica che la rule of law esiste non per essere desiderata, ma per essere semplicemente attuata.

Vengo ora ad alcune domande specifiche. Pongo la prima alla Dott.ssa Michou, sul monitoraggio del “semestre europeo”. Lei ha parlato del fatto che vengono monitorate soprattutto le riforme in materia di giustizia, i modi in cui sono realizzate dagli Stati Membri. Vorrei chiederle se, da parte vostra, vengono tenuti in dovuto conto i molti studi che evidenziano come le politiche economico-finanziarie decise durante i “semestri europei” abbiano determinato violazioni di molti e ulteriori diritti, siano essi iscritti nell’articolo 2 del Trattato o nella Carta europea dei diritti fondamentali.

La seconda domanda la rivolgo a tutti gli oratori. Vorrei chiedere una vostra opinione in merito all’opt-out che, di fatto, il Regno Unito ha invocato rispetto all'”ordinamento giuridico europeo”, con riferimento a entrambe le Corti, di Lussemburgo e Strasburgo. In particolare, se vi sia una valutazione della questione sia da parte del Consiglio d’Europa che dell’Unione Europea.

Pablo Iglesias denuncia le larghe intese che umiliano la democrazia in Europa

Un discorso di addio al Parlamento europeo che vale la pena ricordare. Pablo Iglesias, che riprende la battaglia politica in Spagna dopo quindici mesi di lavoro a Bruxelles, condanna la grande coalizione parlamentare che blocca e umilia la democrazia in Europa. Condanna il compromesso parlamentare che ha permesso a Jean-Claude Juncker di restare al suo posto nonostante le accuse di frode fiscale che lo hanno coinvolto in Lussemburgo. Condanna la falsa retorica di Gianni Pittella, presidente del gruppo socialista, che cita Dante e intanto avalla tutte le regressioni  delle larghe intese tra popolari, socialisti e liberali. Diffida Manfred Weber, capogruppo dei Popolari, dall’interferire nell’esito delle elezioni portoghesi con giudizi simili a quelli, indecenti, espressi nei giorni scorsi dal Presidente del Portogallo Aníbal Cavaco Silva contro un possibile accordo di governo tra socialisti e sinistre radicali («Devo fare di tutto, e rientra nei miei poteri costituzionali, per prevenire l’invio di falsi segnali alle istituzioni finanziarie, agli investitori e ai mercati»).

Strasburgo, 27 ottobre 2015

KEY DEBATE: Conclusions of the European Council meeting of 15 October 2015, in particular the financing of international funds, and of the Leaders’ meeting on the Western Balkans route of 25 October 2015, and preparation of the Valletta summit of 11 and 12 November 2015

Pablo Iglesias, en nombre del Grupo GUE/NGL. Señor Presidente, la primera vez que intervine aquí fue hace quince meses, en representación de este Grupo. Fue un honor hacerlo y fue un honor competir con usted por la presidencia de este Parlamento. Dije entonces que aspirábamos a una Europa diferente, a una Europa que fuera un poco menos dura con los débiles y un poco menos complaciente con los poderosos. Creo que, por desgracia, esa afirmación de hace quince meses sigue siendo y sigue estando vigente hoy.

Recordé, en aquel discurso de hace quince meses, a los combatientes españoles que lucharon contra el fascismo y contra el horror como la mejor contribución de mi patria al progreso de Europa, como la mejor contribución de mi patria a una Europa social, una Europa democrática y una Europa respetuosa de los derechos humanos. Cuando oigo gritos xenófobos en esta Cámara recuerdo que, en mi patria, a aquellos que insultaban, a aquellos que atemorizaban, se les decía «No pasarán». Pero también me molesta escuchar cierta hipocresía en esta Cámara en algunos que lloran lágrimas de cocodrilo y defienden —dicen defender— los derechos humanos.

Señor Weber, ha hablado usted de extremismos para referirse a lo que puede ocurrir en Portugal. Aprendan ustedes a respetar la democracia. Aprendan ustedes que, a veces, los ciudadanos votan cosas distintas a lo que representan ustedes.

(Aplausos)

El señor representante del Grupo liberal —me va a perdonar que, después de quince meses practicando todas las mañanas frente al espejo, siga siendo incapaz de pronunciar su apellido— ha dicho que esto no es un problema de socialdemócratas, de liberales o de populares. Sí, efectivamente. Efectivamente, ustedes han estado de acuerdo en los elementos fundamentales que han implicado una política exterior europea que ahora estamos pagando y que tiene que ver con la situación de miseria y humillación que están viviendo millares de familias a las puertas de Europa.

Hoy hablamos, otra vez, de guerra y de desolación a las puertas de Europa, de familias a las que se está respondiendo con alambradas. Y yo digo que los europeos no podemos olvidar lo que significa una guerra, no podemos olvidar lo que significan el horror y la pobreza y tener que huir del horror y de la pobreza. Y no podemos humillar a esa gente, porque humillar a esa gente es humillar a Europa. Como es humillar a Europa, señor Weber, acabar con el Estado del bienestar. Como es humillar a Europa acabar con los derechos sociales. Es humillar a Europa entregar a los Gobiernos a la arrogancia de los poderes financieros y atacar la soberanía. Es humillar a Europa favorecer el fraude fiscal, como usted, señor Juncker. Como usted, que favoreció —cuando era ministro de Hacienda— negocios secretos, tratos secretos con multinacionales para que tuvieran que pagar impuestos al 1 %, mientras los ciudadanos europeos tienen que pagar impuestos. Y luego hablan ustedes de presupuestos. Y usted se sienta ahí, señor Juncker, porque gente como usted, señor Pittella, ha permitido que el señor Juncker esté sentado ahí; porque ustedes, los socialistas, han mantenido una gran coalición con los populares en esta Cámara.

Así que, menos citar a Dante, señor Pittella, y más ponerse del lado de la gente y acabar de una vez con esta maldita gran coalición.

(Aplausos)

Vuelvo a mi país para que no haya, para que no siga habiendo en España gente como ustedes en el Gobierno, pero quiero pedirles algo antes de marcharme: cambien su política. La crisis de los refugiados no se resuelve con alambradas. La crisis de los refugiados no se resuelve con policía. Se resuelve con una política responsable. Dejen de jugar al ajedrez con los pueblos del Mediterráneo. Trabajen por la paz en lugar de fomentar guerras. Ayuden a las personas que están huyendo del horror. No sigan destruyendo la dignidad de Europa, señor Juncker.

(Aplausos)