Provano a chiamarla “responsabilità”, ma è solo destra

di martedì, Dicembre 3, 2024 0 , , , , Permalink

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 3 dicembre 2024

Dopo il voto favorevole alla seconda presidenza von der Leyen, nel Parlamento Europeo, Elly Schlein s’è ingarbugliata: “Non è la nostra Commissione ma è giusto che parta. […] Non cediamo di un millimetro”. E Zingaretti, eurodeputato: “In noi non c’è alcun cedimento, ma un protagonismo perché la destra non si impadronisca dell’Europa”. Invece il cedimento c’è, e le rassicurazioni se ne vanno in fumo fin da subito. Da quando la sinistra ha cessato di esser tale, c’è un fossato tra quel che dice e che fa: lo chiamano Responsabilità.

Il Pd non solo approva una Commissione spostata a destra, ma assieme alle stesse destre vota il giorno dopo due mozioni neoconservatrici e anti-russe sulle armi a Kiev e sulle elezioni in Georgia, giudicate illegittime senza prove serie. Schlein si esercita in doppiezza, ma è assediata dai centristi del suo partito che da Bruxelles le sparano addosso contando di abbatterla. I 5 Stelle che con Avs sono nel gruppo “Left”, in Europa, hanno votato sia contro Von der Leyen sia contro le due risoluzioni, e per questo è opportuno che almeno loro restino in piedi.

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Il sonno ipnotico della sinistra

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 3 dicembre 2024

Invece di brancolare costantemente nella nebbia, e negare che nel Parlamento europeo si esprimono e votano assieme alle destre di Meloni su questioni cruciali come la nuova Commissione, e anche la pace e la guerra, il Partito democratico ed Elly Schlein potrebbero sospendere almeno per un po’ l’abitudine di proclamare una cosa per farne un’altra e provare a dire quel che pensano dell’Europa e se magari hanno qualche idea su come cambiarla.

Se sono d’accordo oppure no con i piani di pace o di tregua che prevedono la neutralità dell’Ucraina e la cessione di territori russofoni a Mosca. Se sono favorevoli o contrari a iniziative europee autonome nei rapporti con Mosca (gli abboccamenti tentati dall’ungherese Orbán e dal tedesco Scholz sono stati bocciati dagli eurodeputati Pd, non si sa perché).

Deve anche dire, il Pd, se ha capito oppure no che l’ambizione di entrare nell’Unione europea è drasticamente diminuita nei paesi che confinano con la Russia (Georgia e in buona parte Moldavia), e che l’esito di un’elezione non diventa automaticamente illegittimo se la maggioranza degli elettori non vota come vorrebbero l’Ue, la Nato e Washington. L’adesione all’Unione europea suscita ben più sospetti di vent’anni fa, e una parte consistente di elettori georgiani e anche moldavi guardano spaventati il cumulo di morti in Ucraina e sentono che chi entra oggi in Europa aderisce per forza alle strategie belliche della Nato e di Washington. Aderisce alla nuova guerra fredda e alla corsa al riarmo che Usa, Nato e Ue vogliono, incoraggiano e pagano. Non stupisce che nelle risoluzioni dell’Europarlamento compaiano sempre più spesso termini come Comunità euro-atlantica e Ordine internazionale basato sulle regole (le regole sono statunitensi).

Per la verità i Democratici hanno già fornito una risposta a questi interrogativi, anche se regolarmente la dissimulano. Da quando è iniziata l’aggressione di Putin – dopo otto anni di guerra civile nel Donbass russofono e in parte russofilo – i deputati europei hanno votato più di 30 risoluzioni intese a finanziare una guerra inasprita ed estesa alla Russia e sempre il Pd si è allineato, con Letta e Schlein. Si può dunque presumere che la scelta decisiva sia stata fatta: in favore di una guerra sempre meno fredda con Mosca e di un’Unione che finge di integrarsi più efficacemente divenendo avamposto armato della Nato.

Torna perfino in auge Draghi, incensato dagli europarlamentari Pd con lo stesso vuoto entusiasmo esibito da Enrico Letta nelle ultime elezioni politiche. Stavolta l’Agenda Draghi n. 2 prescrive un comune indebitamento europeo come quello ottenuto da Conte dopo il Covid: non per salvare lo Stato sociale, non per far fronte al collasso climatico del pianeta, ma per finanziare l’Europa della Difesa – nuovo gioiello – e prepararsi a guerre ritenute incombenti oltre che ineluttabili.

Sarebbe un passo avanti se il Pd ammettesse queste verità, invece di ingarbugliarsi e assicurare che non cederà mai alle destre meloniane che sono ormai parte della maggioranza europarlamentare. “Nessun cedimento”, assicura Nicola Zingaretti, eurodeputato che il 28 agosto aveva annunciato: “La destra in Europa non conta perché non esiste!”. E Schlein, non meno sconclusionata: “Non cediamo di un millimetro”.

Sembrano le frasi fatte che vengono inculcate durante il sonno nello Splendido Mondo Nuovo di Huxley, con tecniche ipnotiche che fin dall’embrione bloccano ogni sorta di risveglio mentale durante il giorno, e allenano al pensiero positivo in qualunque circostanza. Frasi che non dicono nulla di fattuale, ripetute più volte a pappagallo.

La frase fatta che ricorre con più frequenza è “Siamo Responsabili”, e sempre vuol dire: ci va bene il perenne status quo, e ci comprometteremo sull’essenziale (pace/guerra, economia dell’austerità, ecc.). C’è voluto Conte e la sua denuncia del “grave errore politico” commesso mercoledì scorso dai Democratici (“Votare la Commissione Von der Leyen non è stato un infortunio”) perché i dirigenti Pd si svegliassero un attimo dall’ecolalia e capissero che come minimo dovevano spiegare il voto in favore della Commissione allargata a destra, avendo inveito per settimane contro tale prospettiva.

L’ecolalia è la ripetizione inebetita di frasi pronunciate e imposte da altri, ed è questa l’abitudine contratta dalla sinistra in Italia e in gran parte d’Europa da circa trent’anni. Oggi Schlein ricomincia a parlare di diseguaglianze sociali, di Stato sociale, di battaglie sindacali, di transizione ecologica, ma da Bruxelles gli eurodeputati Pd l’impallinano (tranne gli indipendenti Tarquinio e Strada) e comunque la segretaria non può garantire alcunché visto che con il suo consenso le principali spese andranno a difesa e armi. Si parla di transizione verde, ma come salvare la Terra se le guerre in corso e quelle pronosticate impediscono ogni negoziato e accordo tra i primi paesi inquinatori (Usa, Russia, Cina, India, Ue). E difesa da chi? Dalla Russia? Dalla Cina? Perché? Per sempre?

La sinistra naufraga in realtà da quando crollò il comunismo, e prima ancora da quando, nel 1979 e 1981, fu travolta dalla possente onda neo-liberista e antistatalista di Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Si pensò che il socialismo non sarebbe precipitato assieme al comunismo, dopo l’89, invece è accaduto proprio questo, dato che tante loro idee erano comuni. La sinistra venuta dopo fu una finzione, per non dire una frode. Si presentò come molto “responsabile”, pronta a riarmare l’Europa e a trasformarla in “comunità euro-atlantica”, contro le volontà di gran parte dei cittadini e gli interessi del continente. La lista dei trasformatori è lunga: Blair, Hollande, Macron, Veltroni, Renzi, Gentiloni+Minniti, Letta, e Starmer dopo la decapitazione politica di Jeremy Corbyn, oggi deputato indipendente).

Molti sostengono, specie in Francia, che la sinistra dovrebbe diventare socialdemocratica per essere del tutto accettabile (accettabile da chi?). Ma la socialdemocrazia del dopoguerra è stata ben altro, almeno in Germania. Essere socialdemocratici voleva dire, negli anni 50 e durante la Distensione negli anni 60, costruire una sicurezza europea assieme all’Urss, come propose poi Gorbaciov nell’89. Queste le convinzioni di Willy Brandt ed Egon Bahr, contrari alla guerra fredda e ai riarmi Nato.

La socialdemocrazia di allora considerò “serie”, “da valutare”, le Note di Stalin del marzo 1952, che offrivano la riunificazione delle due Germanie in cambio della neutralità tedesca e della non adesione alla Nato. Oggi si potrebbero cercare soluzioni analoghe per l’Ucraina, tanto più che Putin non è Stalin e la Russia non è l’Urss. Ma a differenza di allora, la vera socialdemocrazia non c’è. Ci sono frammenti di partiti progressisti, che potrebbero aiutare il Pd a svegliarsi dalle sonnolente frasi fatte in cui è immerso. Un po’ di pensiero woke non ci sta male, e per questo forse i neoconservatori hanno in odio tutto quel che dipingono come woke, e è solo “risveglio”.

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Quell’asticella alta tra Conte e Schlein

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 12 aprile 2024

Ieri Giuseppe Conte ha spiegato, in una conferenza stampa a Bari, quel che lo muove e che muove il suo partito-movimento.

Non cercare coalizioni pur di vincere a tutti i costi o nell’immediato, non salire sporadicamente nei sondaggi, ma proporre agli alleati del centrosinistra un Patto per la Legalità e la Buona Amministrazione che “estirpi la cattiva politica” – i voti di scambio, i comitati d’affari, le mangiatoie, gli spazi di immunità – e apra le porte alla buona politica e all’imparzialità. A poche settimane dal voto di Bari, il leader 5 Stelle prende atto che il Patto è ancora da edificare, considerata l’onda di ben tre inchieste giudiziarie su malaffare e voti di scambio che sta inondando le amministrazioni Pd a Bari e la Puglia, e decide la fuoruscita dei propri consiglieri dalla giunta regionale di Michele Emiliano.

Forse perché fiuta infastidita una sorta di ritorno dell’atmosfera di Mani Pulite (ci sono ricordi istruttivi che indispongono), forse perché obbedisce all’automatismo degli stereotipi conformisti, gran parte degli osservatori e della classe politica ripete quanto è avvezza a dire da giorni e da anni, generalmente in coro perché il conformismo è sempre groupthink, pensiero di gruppo: ripete che il leader del Movimento 5 Stelle è un opportunista quando sbandiera la questione morale; che usurpa il trono di Schlein e vuol essere egemone del centrosinistra; che pecca di slealtà e perfino aiuta le destre, come sospetta Schlein. C’è anche chi mostra irritazione per una frase che il leader di 5 Stelle scandisce da parecchio tempo e che ieri a Bari ha pronunciato più volte: nei rapporti con le altre forze politiche “la nostra asticella è molto alta”. Evidentemente, chi aggredisce Conte per questa postura usa tenere l’asticella molto bassa. Dovrebbe spiegare perché e con quali conseguenze.

C’è infine chi, pensando magari di proteggere Elly Schlein e l’indeterminatezza di alcune sue scelte, lo accusa di “tornare al partito del vaffa”. Pier Luigi Bersani stavolta sbaglia tutto: battuta, metafora ed epoche. La svolta di Conte è un’azione di pulizia indispensabile, se è vero che su 200 inchieste avviate dalla Procura europea per truffe ai fondi del Pnrr, ben l’85% riguarda l’Italia.

Tutti i castigatori, comunque, giudicano Conte colpevole di tradimento e slealtà verso la segretaria del Pd. Una segretaria osannata, specie dai giornali mainstream, con la veemenza che caratterizza chi empatizza con un perdente: troppo innocente, troppo candida, troppo credula e intimidita nel rapporto con 5 Stelle. Si è sentito perfino un giornalista proclamare di essere “soggiogato” dalle sue “qualità magnetiche”. Difficile immaginare un giornalista fuori dall’Italia che pubblicamente usi questi termini nel descrivere un politico.

Quel che i castigatori fanno finta di non vedere, tuttavia, è qualcosa di più profondo: è la vera natura dello scontro riacutizzatosi fra Conte e Schlein, e la sua durata nel tempo. La disputa infatti non è episodica e concerne non solo il buon governo e la questione morale ma anche – e da anni– i temi più cruciali e drammatici del nostro tempo: la guerra, l’invio di armi a Ucraina e Israele, la sottomissione acritica dei governi italiani – di Mario Draghi come di Giorgia Meloni – alle strategie espansive della Nato.

Per capire la natura dello scontro, e i motivi per cui si accumula tanto astio verso quella che Conte chiama rivoluzione (il Patto per la legalità), bisogna provare a vedere dietro le apparenze. Dietro il velo delle apparenze, si può constatare la resistenza cocciuta, irremovibile, di un apparato Pd che dilata lo scontro e lo usa ad arte per affossare gli sforzi di intesa fra democratici e 5 Stelle che la segretaria Pd sta tentando, con tenacia anche se intermittente, indecisa, spesso intimidita. La verità ancora invisibile è che Conte sfidando Schlein le sta porgendo la mano, e di fatto potrebbe aiutarla.

Se davvero Schlein vuole liberarsi dai logorati e spesso contaminati potentati locali del Pd come aveva annunciato quando divenne segretaria – se non vuole farsi condizionare dai “cacicchi e capibastone” del proprio partito – farebbe bene a far propria la promessa del Patto offerta da Conte, e a mostrare d’aver capito quel che è in gioco e sta succedendo. Gli attacchi a Conte sferrati da gran parte della stampa e da una buona parte del Pd, oltre che da personaggi sparsi del centro, sono in realtà la clava con cui si attacca lei: l’aliena nel partito, la persona non grata, la regina da spodestare sfruttando ogni occasione e ogni minacciato “punto di non ritorno”. Si insulta lui per colpire lei.

Che lo scontro per interposta persona non sia episodico né nuovo è confermato da quanto accade fra 5 Stelle e Pd quando si discute, in Italia e nel Parlamento europeo, su guerra e pace. Gli eurodeputati del Pd votano sistematicamente, e ormai senza più defezioni, in favore di risoluzioni che insistono nel proseguire gli aiuti militari a Kiev e raccomandano di riconquistare tutti i territori occupati dalle truppe russe, Crimea compresa. Questo nonostante l’Ucraina stia rischiando la perdita sempre più vasta di territori e soldati. Non meno sistematicamente, gli eurodeputati 5 Stelle votano contro tali risoluzioni. È vana e capziosa la scusa addotta dagli eurodeputati italiani del gruppo socialista: “Diciamo queste cose ma auspichiamo anche negoziati di tregua o di pace”. Se l’auspicassero seriamente, ammetterebbero che tregue e pace sono possibili solo se si restaura lo statuto di neutralità adottato dall’Ucraina quando divenne indipendente nel 1991. In gran parte, questi eurodeputati vogliono essere ricandidati.

Infine, tornando al Patto di legalità proposto da Conte in Puglia come in Piemonte e altre regioni, vale la pena chiarire un punto. Non è l’epoca di Mani Pulite e nemmeno del vaffa che sta tornando. Il buon governo e la buona politica non sono reclamati da magistrati o movimenti extraparlamentari. È una domanda che nasce stavolta nel cuore della politica. Quando Conte dice che “occorre dire se vogliamo che sia la magistratura a decidere le sorti della politica o se invece la politica possa e debba avere un sussulto di dignità”, quando invita la segretaria Pd a decidere “se trasformare il Pd, come aveva promesso, o se lasciarsi trasformare dal vecchio Pd”, rende visibile e riconoscibile un contrasto annoso, che risale ai tempi della segreteria di Bersani e soprattutto a quelli di Enrico Letta.

Inutile fare calcoli brevi quando la disputa concerne temi fondamentali, e dimenticare che Conte lasciò il governo Draghi (forse non doveva neanche entrarci) perché contrario ai due capisaldi dell’Agenda – per il resto introvabile – dell’ex presidente della Bce: l’atlantismo acritico e bellicoso, abusivamente appaiato all’europeismo, e in economia l’erosione costante dello Stato sociale. Nessuno nel Pd, neanche Schlein, ha ancora osato quel che è lecito chiedere a chi si dice progressista: chiudere quell’epoca, e congedarsi dall’Agenda Draghi.

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I socialisti “comodi” che riarmano l’Ue

di domenica, Marzo 10, 2024 0 , , , , Permalink

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 10 marzo 2024

Se fossero davvero innovativi e volessero difendere il progetto originario di unità europea, che era pacifico, i socialisti e socialdemocratici del continente dovrebbero esaminare se stessi e infine ammetterlo: non si governa per decenni in coabitazione con i Popolari, che sono dominanti nel Parlamento europeo, senza farsi contaminare dal coabitante.

Non si esce illesi da un connubio metodico, capillare, costante, che pervade ogni mossa degli europarlamentari che usano dirsi “di sinistra”, che si fanno eleggere nel gruppo chiamato Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici (S&D), e che con la sinistra non hanno più nulla a che fare (se mai l’hanno avuto nei tempi recenti). Chi appartiene al gruppo fa parte della cerchia che conta a Bruxelles e Strasburgo, che decide nelle Commissioni parlamentari il destino non solo delle inutili risoluzioni su politica estera o diritti dell’uomo, ma anche dei regolamenti o direttive che diverranno più o meno automaticamente legge europea. Difficile rinunciare a queste abitudini e queste seduzioni del potere.

Di questa cupola di potenti fanno parte sia i Liberali che oggi si ispirano a Emmanuel Macron (Renew), sia i Verdi che dalla guerra jugoslava in poi sono atlantisti d’avanguardia. Alcuni esempi recenti: le critiche che i Verdi – tramite il ministro degli Esteri Annalena Baerbock– hanno rivolto al Cancelliere Scholz, contrario a inviare in Ucraina i missili Taurus che potendo colpire la Russia rischierebbero una guerra mondiale. Secondo esempio, si parva licet: l’uscita strampalata della vice Presidente del Parlamento Pina Picierno (Pd) che ha chiesto sanzioni europee (non si sa di che genere) contro Ciro Cerullo, Jorit in arte, per un murale a Mariupol e per “adesione al disegno criminale e genocidario del popolo ucraino da parte di Putin”.

Naturalmente non mancano eurodeputati socialisti che pensano in altro modo e si sforzano – debolmente – di resistere al fascino nonché alle tante comodità del connubio. Ma il dispositivo della coabitazione finisce con lo stritolarli, fino a che le loro figure sbiadiscono e diventano ombre. Elly Schlein, che oggi guida il Pd e nella precedente legislatura fu ottima eurodeputata, ne sa qualcosa. E anche se decide di soprassedere, dovrebbe sapere come si comportano i rappresentanti Pd appena mettono radici nell’europarlamento. È faticoso sradicarsi, le abitudini non si spengono facilmente. Il pericolo, per chi dissente in Europa, è di confondersi con gli “estremismi di destra e sinistra”, che la cupola aborre.

Sui temi che oggi contano di più, e cioè sulla “guerra grande” in Ucraina e Medio Oriente (Yemen e Libano oltre a Gaza), gli eurodeputati Pd non seguono generalmente le indicazioni della segreteria, e appoggiano le risoluzioni o i regolamenti più bellicosi, fedeli all’atlantismo di Renzi e Letta. Schlein ancora non ha deciso se privilegiare i negoziati con Mosca – e di conseguenza suggerire la neutralità o almeno il non allineamento di Kiev– o armare Zelensky fino a improbabili vittorie. Ma gli europarlamentari Pd le idee chiare le hanno, e sulla guerra non ascoltano le riserve della segretaria ma votano sistematicamente come i Popolari, i liberali di Renew e i Verdi. Lo stesso vale quando si discute di austerità economica.

È quel che si verificò quando Jeremy Corbyn divenne leader del Labour, fra il 2015 e il 2020, e tentò di spostare a sinistra un partito che per anni, con Blair e Cameron, si era tramutato in una forza favorevole alle guerre in Afghanistan, Iraq, Libia: tutte rovinose, tutte impopolari e perse. Se si escludono alcuni dissidenti, i laburisti eletti in Europa fecero finta che Corbyn non esistesse. Corbyn fu poi travolto da assurde accuse di antisemitismo ma intanto Londra era uscita dall’UE.

Il fatto è che gli eurodeputati socialisti vivono in una bolla eurocratica, smettono le vecchie appartenenze e si disinteressano del proprio elettorato. Solo ha peso quel che si dice dentro la cupola e nei caffè della Place du Luxembourg, alle porte del Parlamento a Bruxelles. Immaginano di esser di sinistra perché difendono i diritti civili o i LGBT+ o le vie legali di migrazione, ma sulla questione oggi centrale – la guerra, il riarmo d’Europa – sono atlantici e basta.

Si spiegano così le molte risoluzioni sulla guerra in Ucraina, approvate grazie alle complicità dentro la cupola. Ci limitiamo a menzionare quella del novembre 2022, che definisce la Russia Stato promotore del terrorismo e approva le sanzioni. Quella del giugno 2023, che insiste sull’adesione rapida di Kiev alla Nato oltre che all’UE, e preclude quindi ogni trattativa. Infine il regolamento approvato nel luglio 2023, che prevede la produzione massiccia di munizioni e missili destinati all’Ucraina o agli armamenti nazionali sforniti per via degli aiuti a Kiev. Le risoluzioni non hanno peso, essendo puramente declamatorie, ma i regolamenti sono ben altra cosa: diventano automaticamente legge europea, da applicare in tutti gli Stati membri.

La svolta verso l’Europa militarizzata, punta di diamante di una Nato in espansione, avviene con questo regolamento, che stanzia 500 milioni di euro per fabbricare un milione di proiettili l’anno in sostegno di Kiev. Quasi tutto il Pd vota a favore. È contrario un deputato, Smeriglio, e cinque si astengono. Passa perfino il paragrafo che prevede il finanziamento del riarmo con i soldi del Fondo europeo di coesione sociale e territoriale e forse del Pnrr: sono risorse sottratte allo stato sociale (sanità, istruzione, clima).

Schlein aveva insistito sulla cancellazione del paragrafo, ma non aveva istruito i suoi parlamentari su quel che c’era da fare se non venisse cancellato. Risultato: hanno votato contro il regolamento solo i 5 Stelle, gli unici che possono dirsi progressisti, accanto alla sinistra del gruppo Left. Va detto che i pentastellati hanno subito emorragie gravi, in due legislature: alcuni sono migrati verso i Verdi, il vicepresidente del Parlamento Castaldo è addirittura migrato verso Renew. Isabella Adinolfi è con Forza Italia nel gruppo dei Popolari.

Giungiamo infine alla risoluzione dello scorso febbraio sui missili a lungo raggio da inviare in Ucraina, dopo la controffensiva fallita di Zelensky. Per l’ennesima volta non si chiedono negoziati ma ancora più armi per riconquistare tutti i territori, Crimea compresa. Stavolta nessun dissenso nell’ex sinistra. Il Pd vota compatto per il riarmo di Kiev e per l’Europa roccaforte contro la Russia. Gli eurodeputati restati nel M5S si oppongono. La “maggioranza Ursula” scricchiola, ma già conta sulla stampella Meloni (gruppo Conservatori).

Una sinistra classica potrebbe votare contro il riarmo europeo, in memoria degli errori commessi nel 1914, quando gran parte del socialismo europeo votò i crediti di guerra (in Germania si opposero Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, prima di essere ammazzati). Ieri come oggi, non c’era che il Papa a denunciare l’“inutile strage”. Oggi come ieri, entra in scena l’interventismo di sinistra.

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Guai a chi osa toccare il totem “Europa”

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 28 dicembre 2023

Da quando sono apparse in Italia le prime critiche forti dell’Unione europea, e di uno sfacelo che va ben oltre la vicenda del Mes, i benpensanti sono in allarme. Militano a destra, nel centro, nell’ex sinistra Pd.

Nei grandi giornali hanno la penna pronta e la supponenza facile, perché l’Unione che pensano e piantonano non è un progetto che evolve ma un totem immobile, non perfettibile, antenato mitico che si venera sempre allo stesso modo, come se il mondo non cambiasse di continuo. Il totem è indifferente ai contesti e alla storia. Spiega il dizionario De Mauro che totem vuol dire “segno del clan”: grazie a esso “i membri del gruppo si riconoscono parenti”.

La bocciatura parlamentare del Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes) è solo l’ultimo episodio di quello che gli editorialisti dei principali giornali denunciano come sacrilego assalto al totem. L’Europa “è naturaliter il nostro orizzonte morale e valoriale”, si legge nei commenti, oppure: “Sovranisti di destra e populisti grillini si ritrovano nella stessa trincea (…) l’identità europea è il vero spartiacque fra le nostre forze politiche”. Non viene spiegato cosa significhi orizzonte valoriale: quali siano i princìpi in una Comunità che li sta calpestando in massa, e non a caso preferisce parlare di valori anziché di diritto esigibile. Né è afferrabile l’identità europea, non identificato oggetto vittima di guerre di trincea.

Intanto andrebbe chiarito un punto sul Mes, omesso ieri alla Camera dal ministro Giorgetti: fin da quando nacque, nel 2012, il Meccanismo fu concepito come dispositivo intergovernativo. Essendo esterno all’Unione, il suo mandato non è la difesa di un comune interesse europeo. Commissione e Bce disciplinano gli Stati assistiti e impongono vincoli che non mutano – tagli a spese sociali, disuguaglianze, privatizzazioni – ma sono solo esecutori. Il Parlamento europeo è estromesso. Come disse l’economista Giampaolo Galli nel 2019, i poteri molto ampli del meccanismo “si sovrappongono a quelli della Commissione sull’intera materia dell’analisi e valutazione della situazione economica e finanziaria dei Paesi dell’eurozona, non solo di quelli sottoposti a un programma di aggiustamento”.

Naturalmente il Parlamento italiano poteva ratificare la riforma del Mes senza pagare prezzi, visto che ratificare non significa chiedere prestiti. Se non lo ha fatto, e la riforma è stata bocciata da un’inedita maggioranza Fratelli d’Italia, Lega, M5S, è perché il contesto della ratifica è stato giudicato insoddisfacente: il giorno prima il Consiglio europeo aveva varato un nuovo Patto di Stabilità piuttosto rigido, ma approvato da Roma perché “migliore del precedente” anche se “peggiore della proposta della Commissione” (parola di Giorgetti). Ma se era migliore perché il No di Meloni al Mes?

Il Patto rinnovato mette in realtà un termine al comune indebitamento europeo, che Conte ottenne con grandi sforzi negoziali durante la pandemia, che rivoluzionò il dogma secondo cui l’“ordine in casa propria” va anteposto alla solidarietà, e che assegnò all’Italia ben 209 miliardi. La rivoluzione è finita, la Restaurazione ordoliberista torna a regnare restituendo al mercato lo spazio perduto: questa l’iniqua scelta di un’Unione che con l’arma dell’austerità ha già immiserito e umiliato la Grecia, nel 2009-2019. Dei tre protagonisti della troika, solo l’ex presidente della Commissione Juncker ha pronunciato un mea culpa (“Abbiamo calpestato la dignità dei Greci”). Olivier Blanchard del Fondo Monetario Internazionale ha ammesso un “peccato originale”. Unico privo di rimorsi: Mario Draghi che dirigeva la Banca centrale europea. È elogiato perché con tre parole “salvò l’euro”. Non si dice mai a che prezzo, per il welfare e la dignità degli Stati “salvati”. Gli anni del debito comune non sono una rivoluzione europea per Giorgetti, ma “quattro anni di allucinazione psichedelica” indotta dal debito italiano facile.

È da qualche tempo che la parola contesto è equiparata a eresia anti-europea. È eretico indicare il contesto – cioè le radici – dell’aggressione russa all’Ucraina (veto di Washington e Nato alla neutralità di Kiev) o della violenza di Hamas (rapporti rovinosi Israele-palestinesi). Così per quanto riguarda il Mes. Meloni ha detto più volte che la riforma andava vista “nel contesto” di un Patto di Stabilità meno castigatore. Non senza ragione: accettare centri di controllo paralleli all’Ue è pericoloso, se contestualmente non si punta all’indebitamento comune. Patto e Mes aggiornati certificano l’impossibilità di un’Unione fondata sulla solidarietà, che preceda i “compiti da fare in casa”.

Il guaio è che né Meloni né Giorgetti hanno mostrato di sapere cosa dicono quando difendono, ma poi dimenticano, l’idea di contesto: né su Ucraina, né sulla sovranità limitata dalla Nato, né infine, oggi, sul controrivoluzionario nuovo Patto di Stabilità, nato da un accordo fra Parigi e Berlino senza sostanziali interferenze italiane. Senza che Macron mantenesse la promessa di fronteggiare con noi i falchi dell’austerità europea. Contrariamente a quanto proclamato da Meloni, l’Italia non ha “ottenuto moltissimo”. I vincoli non solo restano ma si moltiplicano, i controlli concedono qualche esenzione ma sono onerosi, la sovranità solo sbandierata a destra è sbrindellata. Solo per tre anni ci sarà un po’ di flessibilità (riduzione annuale del debito dello 0,5 per cento del Pil, poi dell’1,5). Sono gli anni del governo Meloni. Si può solo sperare in emendamenti incisivi, quando il Patto sarà votato dal Parlamento europeo. Quanto al sovranismo, c’è da sperare che cessi di essere un insulto mai approfondito.

Si capisce il sì al Mes dei neocentristi Renzi e Calenda. Sono gli scimmiottatori di Macron, artefice ultimamente di una legge sull’immigrazione che non ha avuto bisogno dei voti di Le Pen in Parlamento, solo perché aveva assorbito grandissima parte delle idee lepeniste. Macron in Francia è un mito spento. Veramente incomprensibile di contro è il Pd. “Non ci hanno visto arrivare”, aveva detto Elly Schlein, ma nel frattempo è arrivata e non ha ancora scelto se liberarsi della fallimentare Terza via di Blair, Renzi, Enrico Letta. Prodi si augura che Schlein diventi il federatore del centrosinistra allargato, senza intuire che missione primaria del segretario, al momento, è federare il Pd. Missione per ora incompiuta. Schlein non sta creando un Pd diverso, pur volendolo intensamente. Difende i diritti, il salario minimo, i migranti, ma ammutolisce in Europa sull’ordoliberismo di stampo tedesco, sulla Nato, sulle guerre. I socialisti nel Parlamento europeo, italiani compresi, non hanno mai condannato l’umiliazione della Grecia, avendo sempre anteposto l’alleanza coi Popolari. Ma soprattutto: se si esclude il Movimento di Conte, difficile che i partiti azzardino critiche radicali e non occasionali all’Unione. Basta un momento di lucidità, sullo sfacelo europeo, e subito partono le mitragliatrici degli affratellati guardiani del totem.

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Anatomia mancata del tracollo Pd

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 1° giugno 2023

È vero quel che dice Elly Schlein sulla disfatta del centro-sinistra alle elezioni amministrative: “Non si cambia il Pd in due mesi, il cambiamento non passa mai da singole persone. C’è molto da fare a sinistra. È un lavoro di squadra”.

Ma ci sono verità che se le ripeti si trasformano in manovre di escamotage. La squadra del cambiamento non c’è e il giglio magico di Schlein si limita a inveire contro Meloni, offre slogan e non idee proprie. E poi il cambiamento è spesso fatto da singole persone, lo sappiamo.

Quel che drammaticamente manca è l’analisi più che l’ammissione passiva-aggressiva della sconfitta, e lo sguardo autocritico sulla progressiva metamorfosi di un Pd che per 15 anni – sotto la guida di Veltroni, D’Alema, Renzi, Letta – ha rinunciato all’identità e al radicamento dell’ex Pci e dei cattolici di sinistra, nell’ansia di saltare l’era Brandt e apparire forza centrista, ligia all’Europa dell’austerità e alla scelta atlantica di riaccendere la guerra fredda contro l’Asse del Male impersonato da Putin aggressore in Ucraina e in prospettiva da Pechino. Per questo è ex sinistra e non sinistra. Al Parlamento europeo l’ex sinistra sposa le tesi del centro-destra: su Ucraina e sull’aumento degli aiuti militari, anche se finanziati spudoratamente con i soldi del Pnrr. Si dissocia ogni tanto qualche europarlamentare Pd, fin qui mai appoggiato dalla propria direzione. Fuori tempo massimo, ieri Schlein si è detta contraria non all’invio di armi, ma all’uso a scopi militari del Pnrr. Si vedrà oggi se gli europarlamentari Pd seguiranno la troppo tardiva direttiva Schlein, quando si voterà su Ucraina e Pnrr.

Giuseppe Conte queste cose le sa, e giustamente preferisce per ora separare il suo Movimento dal Pd, per meglio affrontare le elezioni europee del 2024 dove si vota con il proporzionale. Nel Parlamento europeo i 5 Stelle hanno idee spesso diverse dai socialisti, votano contro risoluzioni e direttive che rinfocolano una guerra fredda che rischia anche nel Kosovo di sfociare in conflitto per procura. Sono più esigenti dei socialisti anche sull’austerità economica, che l’Ue potrebbe reimporre dopo il Covid.

Ma anche per i 5 Stelle son giorni amari. Ogni volta che c’è un’elezione locale, i commentatori ripetono la stessa litania, peraltro corretta: il Movimento non ha radici, non ha classi dirigenti che curino i territori. Tra i motivi per cui non le ha, spicca il dogma del limite ai due mandati: un tabù. Impossibile in queste condizioni – dettate da Grillo – far nascere classi dirigenti affidabili perché durature. Il limite dei due mandati, l’appoggio al governo Draghi scambiato dal fondatore per un compagno grillino: questa l’eredità da cui Conte pur volendo non riesce ancora a emanciparsi.

Ma il punto cruciale è il disastro mentale che Pd e Conte non sanno sanare. È l’idea, ricorrente nei commenti di Schlein, che tutto quel che accade – disfatta a sinistra, smantellamento del welfare, impotenza sul clima – sia ascrivibile a una legge naturale ineludibile e non sia opera dell’uomo, politico o economico che sia. Ha detto la segretaria del Pd, credendo di spiegare l’esito del voto: “La sconfitta è netta, il vento a favore delle destre è ancora forte. È evidente che da soli non si vince”.

È significativo che pochi giorni prima Achille Occhetto, massimo sostenitore di Schlein, avesse proferito parole inaudite ma non dissimili sull’alluvione in Romagna: “È stato il Signore che ha creato la terra che da tempo vedeva questi ragazzi che con la vernice lanciavano allarmi ma erano inascoltati. E allora il Signore ha detto: ‘Ci penso io a fare capire chi non vi ascolta’. E ha fatto come quando mandò l’invasione delle cavallette: in tre giorni ha inviato la pioggia di sei mesi”.

Se è stato il Vento, se è stato Dio, non esistono macchie nelle scelte del Pd che Schlein pretende riportare a sinistra, non ci sono responsabilità da assumere: comprese le sue responsabilità di vicepresidente dell’Emilia-Romagna incaricata del Patto per il Clima e del Welfare (quindi della cura del territorio, del dissesto idrogeologico legato alla cementificazione della Romagna, dei soldi non spesi per la manutenzione dei fiumi).

Nessuna differenza dall’ideologia di Meloni, che esalta patria e famiglia considerandole costitutive di quella che chiama “società naturale”. Analogamente al Pd che evoca i Venti e Dio, Meloni ha evocato la Natura, il 30 maggio in un convegno organizzato da Marcello Pera, noto per esser stato già nel 2005 fiero avversario di un’Italia e un’Europa “meticcia”, vittima – si dice oggi – di sostituzioni etniche: “Ho sempre pensato – così Meloni – che tanto la Nazione quanto la Patria fossero società naturali, cioè qualcosa che è naturalmente nel cuore degli uomini […] e prescinde da ogni convenzione. Esattamente com’è una società naturale la famiglia”. Una società naturale non si cambia.

Insensato lamentare l’assenza di “venti di sinistra”. È l’idea del vento e di Dio che punisce i romagnoli che è perversa, o diabolica visto che la teologia politica ci sommerge. La società naturale che “prescinde da ogni convenzione” – Costituzione, leggi internazionali – accantona la società politica e storica. Esclude la responsabilità dei politici, e a sinistra imbavaglia la ricerca di un’identità miseramente abbandonata da quando il Pd abbracciò la Terza Via, screditata dall’austerità e da rovinose guerre di regime change: la via di Blair, Schröder, Clinton, Obama, che sciaguratamente affonda la socialdemocrazia e la distensione di Willy Brandt. Un triste salto della quaglia, nella storia dell’ex Pci. Due Dèi, quello biblico ed Eolo Dio dei Venti, sono alla guida di un’Italia senz’alcuna sovranità se non quella detta “valoriale”. A patire le giuste punizioni divine sono i cittadini che ora hanno le scarpe nel fango.

I cittadini castigati si aggiungeranno ai milioni che non votano più, e che già sono una maggioranza. A loro converrebbe rivolgersi, non limitandosi a inveire contro Meloni ma osando un’anatomia del tracollo. L’ennesimo appello al “campo largo” di sinistra è inane se Schlein si paralizza davanti al Terzo Polo, questo grumo scomposto che s’ostina a imitare Macron, il distruttore dei socialisti. Macron in Francia naufraga, e sta mimetizzandosi con discorsi sempre più retrogradi sulla “de-civilizzazione” delle proteste sociali.

Pericolosa è l’idea di una società naturale governata da Dèi, che d’un tratto accomuna i nostri partiti. Conferma che l’escamotage e la fuga dalla realtà sono sintomi della sovranità limitata cui l’Italia si sente ed è condannata dal dopoguerra: limitazione bene evocata nel 2019 da Carlo Galli (Mulino) e oggi da Luciano Canfora (Laterza). Sui temi che contano di più – guerra, invio di armi, fisco che favorisce evasori, precariato – il principale partito di opposizione dice poco o niente.

E certo Schlein è appena arrivata, bisogna darle tempo, già così viene considerata un’estremista. Ma se arriva per dire che le “scelte già prese” sono intoccabili (è quanto ha affermato il 19 aprile sul termovalorizzatore a Roma) non si vede per far che sia arrivata. Se il Pd parla di Venti e di Dio aderendo di fatto alla “società naturale” di Meloni e all’austerità da anni presentata dall’establishment come legge naturale, allora decisamente Godot non è arrivato, nonostante tante sempre più fioche attese.

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Schlein, non basta dire “novità”

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 7 marzo 2023

Se davvero vuol rappresentare una novità, e riportare in vita il Partito democratico, Elly Schlein non potrà ignorare un fatto difficilmente confutabile: la resurrezione di un pensiero profondo, su guerra e migranti, non coincide al momento con l’europeismo, articolo di fede imposto a chiunque voglia governare o legittimamente opporsi o dirigere un giornale mainstream.

Invocare l’Unione europea così com’è oggi – impossibile distinguerla dalla Nato, europeismo e atlantismo son diventati sinonimi – significa consentire alla sua esorbitante e crescente militarizzazione, sia quando si adopera per prolungare la guerra in Ucraina, sia quando risponde al disastro di Crotone con promesse di presidi ancor più impenetrabili delle proprie frontiere (lettera di Ursula von der Leyen ai capi di governo in vista del vertice Ue del 9 febbraio).

Il più micidiale tetto di cristallo non è oggi il divieto opposto alle donne aspiranti al comando. Il tetto di cristallo è il conformismo di gruppo – detto anche groupthink – che ostracizza ogni dissenso su guerra e migrazione.

La guerra innanzitutto. L’Unione in quanto tale sta seguendo pedissequamente i dettami di una Presidenza Usa tuttora influenzata dalla lobby dei neoconservatori (già responsabili di guerre totali tese a cambiare regimi in Afghanistan, Iraq, Libia, in prospettiva Iran tramite Israele), e ansiosi fin dal 2014 di immettere Ucraina e Georgia nella Nato per meglio minare i confini della Russia. Della lobby fanno parte Biden, il consigliere per la Sicurezza nazionale Jake Sullivan, Hillary Clinton, l’attuale sottosegretario di Stato Victoria Nuland, già nota per aver promosso il colpo di Stato ucraino del 2014 sapendo di “fottere” l’Europa (“Fuck Europe!”, disse all’ambasciatore Usa a Kiev). Le parole proferite dalla Von der Leyen non sono diverse dagli appelli di Hillary Clinton ai collaboratori di Putin, perché rovescino il loro capo: questo è l’obiettivo degli occidentali, cioè di chi aspira non già all’ordine internazionale ma a un caotico rules-based world order, un “ordine mondiale fondato sulle regole” bellicose prescritte da Washington ai satelliti europei e asiatici.

Nelle élite italiane non esiste contrasto di opinioni sull’Ucraina, con l’eccezione di Conte che durante il governo Draghi votò l’invio di armi ma nutrì presto dubbi sugli invii senza sbocchi negoziali. Il Pd invece non conosce dubbi, né con Letta né con Schlein. Da quando Mosca ha inopinatamente invaso l’Ucraina è stato uno dei più ardenti fautori non tanto della resistenza all’aggressore, ma dell’escalation di una guerra che è per procura, essendo prolungata da Washington per abbattere Putin e forse smembrare la Russia, se si considera la natura sempre più offensiva delle armi garantite a Kiev e le ripetute offensive ucraine in territorio russo.

C’è da temere che Elly Schlein continui a tergiversare su questa questione. Reclamare negoziati è fatuo, se si insiste nell’invio di armi e non si indica chiaramente cosa potrebbe cedere Mosca e cosa Kiev, perché l’ecatombe finisca. In sostanza non viene smentito quel che garantirono Draghi e Letta: le armi favoriranno la trattativa. L’equazione non ha funzionato. Non basta l’invito retorico alla “pace giusta”, specie se decisa sul terreno di battaglia.

Lo stesso si dica sulle sanzioni, che l’Ue privilegia dal giorno in cui la guerra è cominciata: non nel febbraio 2022 ma nel 2014, quando Kiev mobilitò i neonazisti del battaglione Azov contro il Donbass secessionista e Mosca incamerò la Crimea. Nove anni di sanzioni non hanno impedito la sconsideratezza di Putin, e il loro inasprimento ha atterrato noi più che l’economia russa. Ha semmai accentuato la volontà del Cremlino di dar vita a un ordine internazionale non più unipolare ma multipolare, con India e Cina protagonisti. Ha rafforzato i rivali oltranzisti di Putin. E ha accresciuto la sudditanza europea a una strategia Usa che punta a disintegrare la Russia in vista dello scontro decisivo con Pechino. In questo Grande Gioco l’Ue conta zero, l’Italia ancor meno di zero, e gli appelli alla sovranità strategica europea sono fame di vento.

Viene poi la politica migratoria. Schlein ripete che solo l’Europa può rintuzzare gli scempi di Giorgia Meloni, ma l’Unione è da tempo in favore di accordi con Paesi del Nord Africa e con Turchia volti a “esternalizzare” le politiche di asilo: anche questo è “pensiero di gruppo” e Meloni è in ottima compagnia. Lo era nel 2017 quando Gentiloni era presidente del Consiglio e Marco Minniti ministro dell’Interno, e quest’ultimo concluse un memorandum con Tripoli accettando che i migranti venissero riportati nei mortiferi lager libici e imponendo regole restrittive alle Ong che fanno Ricerca e Salvataggio.

Il naufragio di Crotone non sorprende. Si poteva evitare, se l’Italia e l’Unione europea si fossero dotati di una politica di Ricerca e Salvataggio (Sar) dopo l’abbandono dell’operazione Mare Nostrum: operazione che l’Ue si rifiutò di europeizzare. Queste cose Elly Schlein non le dice, pur sapendole. Denuncia opportunamente la cialtroneria del ministro dell’Interno Piantedosi (denota abissale ignoranza l’uso della frase di Kennedy: che i profughi evitino di “mettere in pericolo i figli” e pensino non a se stessi ma “a quel che possono fare per i propri Paesi”) ma non dice che la militarizzazione delle frontiere – nel caso di Crotone le operazioni poliziesche della Guardia di finanza anziché l’invio in mare della Guardia Costiera specializzata in Ricerca e Salvataggio – è una scelta fatta propria dall’Unione, non solo dall’Italia.

Schlein ripete spesso che la revisione del Trattato di Dublino approvata nel 2017 dal Parlamento europeo (relatrice Cecilia Wikström, liberale, Schlein era relatrice-ombra per il gruppo socialista) fu avversata dall’estrema destra. Ma non può non sapere che il rapporto Wikström era giusto un primo passo, e non avrebbe mai ottenuto l’approvazione degli Stati membri sui ricollocamenti “automatici” e non semplicemente volontari dei profughi che approdano prioritariamente in Italia e Grecia.

Anche in questo caso non basta ricordare che i migranti fuggono da guerre e dispotismi, e per legge hanno diritto all’asilo. È l’ora di dire che gran parte di quelle guerre e carestie le attizziamo noi occidentali con sanzioni o investimenti predatori che impoveriscono i popoli, e con guerre di “cambi di regime” che fanno comodo geopoliticamente (non fa comodo, invece, difendere i palestinesi dall’occupazione israeliana). Delle conseguenze di tali guerre siamo responsabili.

Il Pd si rinnoverà quando criticherà radicalmente non solo la destra al governo, ma anche l’Europa di oggi. Un po’ come fece Giuseppe Conte durante il Covid, quando costruì un’alleanza fra nove Paesi membri (tra cui Francia e Spagna), decisi a ottenere un comune indebitamento Ue e un Recovery Plan che superasse la nefasta divisione fra l’austerità imposta dai Paesi creditori e la sottomissione dei debitori. Fu l’ultimo gesto dignitoso dell’Unione europea.

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L’amico americano e l’Anticristo

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 18 settembre 2022

Enrico Letta è stato il primo a evocare le elezioni dell’aprile 1948, prendendo la parola in direzione Pd subito dopo la caduta di Draghi, e a paragonarle con il voto del 25 settembre prossimo. Paragone osceno, perché il ’48 fu l’elezione più isterica, più falsa, più manipolata nella storia postbellica italiana.

Iniziò allora l’uso dei cartelloni elettorali, e il fronte composto da comunisti e socialisti venne ritratto con immagini agghiaccianti: per esempio, un enorme scheletro in uniforme dell’Armata Rossa. Stalin era alle porte: finanziava i comunisti di Togliatti e i socialisti di Nenni, avrebbe calpestato anche da noi ogni libertà. Padre Lombardi tuonava, in nome di Pio XII: “Nell’ora grave che volge, e dinanzi ai prossimi eventi ancora più gravi, il Papa ha lanciato una formula: ‘Con Cristo o contro Cristo’; non c’è che una scelta da fare ed è una scelta religiosa […]. Guai a chi non si pronunzia con Cristo, egli è contro Cristo, e Cristo lo atterrerà”.

Ma fu soprattutto l’amministrazione Usa a manipolare e sovvertire quella campagna elettorale. L’ingerenza fu vistosa: la Nato non aveva ancora visto la luce e le elezioni italiane furono un esercizio ante litteram in diplomazia egemonico-coloniale. Furono promesse forniture di alimentari e medicinali per 300 milioni di dollari se la DC avesse prevalso, mentre in caso di vittoria social-comunista i nostri emigranti non sarebbero più stati accolti negli Stati Uniti e l’Italia sarebbe stata esclusa dal Piano Marshall (l’equivalente del PNRR). L’indecenza di quell’intromissione sta ripetendosi.

Poco prima del ’48 ci fu la strage di Portella della Ginestra, il 1° maggio 1947 (11 morti). Responsabile ufficiale: Salvatore Giuliano, il bandito. Responsabili non ufficiali, rivelati quando la CIA desecretò gli atti relativi all’eccidio: i servizi dell’Office of Strategic Services (OSS), il servizio segreto Usa comandato in Italia dal capitano Angleton, che agì in combutta con la Decima Mas, sbirri fascisti e Giuliano. Le ingerenze Usa son continuate per anni. Per la loro posizione strategicamente scabrosa nel Mediterraneo, Italia e Grecia sono stati i due Paesi che più ne hanno patito (o approfittato, a seconda dei partiti o di settori dell’esercito).

Che Letta non abbia rispolverato a caso il ’48 è confermato da quel che accade in questi giorni: l’allarme emergenziale lanciato nei grandi giornali, nei partiti di centro, nel Pd, sulle ingerenze russe nella campagna; le accuse di finanziamenti di Putin a destre ed estreme destre; e per l’ennesima volta, i rapporti dei servizi Usa sui politici di vari Paesi che dal 2014 riceverebbero soldi dal Cremlino. Nell’ultimo decennio, quasi tutte le elezioni e i referendum occidentali sarebbero stati oggetto delle brame di Putin: la vittoria di Trump, il referendum sul Brexit del 2016, le presidenziali e legislative francesi del 2017 e 2022. I partiti perdenti non avevano mai nulla da rimproverarsi, visto che a orchestrare la disfatta era stato, da Mosca, il Destabilizzatore per eccellenza.

Tutto questo era moneta corrente nella guerra fredda, e in Italia sin dai giorni della Liberazione, quando l’esercito Usa sbarcato in Sicilia cominciò a congiurare con le mafie. Citato da magistrati come Roberto Scarpinato e Nino Di Matteo, Sciascia descrisse così una Liberazione che aveva prodotto la Costituzione ma anche inoculato veleni duraturi: “La prima cosa che fecero gli americani sbarcati in Sicilia fu nominare uomini di mafia nei comuni più grossi del palermitano, dell’agrigentino e del trapanese”. Seguirono poi le pressioni Usa su De Gasperi perché cacciasse dal governo l’alleato comunista, nel ’47.

Uno spiraglio di autonomia si aprì negli anni della distensione – con Nenni, Moro, Andreotti – presto chiuso dall’assassinio di Moro, nel quale i servizi Usa svolsero ruoli non secondari. La guerra fredda si riaccese in coincidenza con i primi allargamenti della Nato a Est e le intromissioni Usa nei movimenti colorati a Tbilisi in Georgia e a Kiev, per culminare nella scomposta aggressione di Putin contro l’Ucraina. Da allora europeismo e atlantismo hanno smesso di essere distinti, com’erano ai tempi di Brandt, Genscher o Kohl.

Alla vigilia del 25 settembre, il linguaggio stesso è scivolato verso l’allarmismo, a proposito dei prezzi del gas e delle ingerenze russe nelle elezioni. Col passare dei mesi si è passati dal “Siamo accanto all’Ucraina” a un più istintivo, truce: “Siamo in guerra”. Inutile ricordare insieme le intrusioni Usa e quelle russe: se siamo in guerra, quella statunitense non è intrusione ma legittima intercessione alleata.

Per la verità non lo sapevamo che eravamo “in guerra”, non l’ha dichiarata nessuno, eppure tutti lì a dire – nei giornali, in Tv – che l’ingerenza russa è la tappa di una guerra anche nostra. E lo si dice con orgoglio, da quando Kiev ha riconquistato città e territori. Ancora non ci si rende conto che la riconquista è magari un’ottima notizia per gli ucraini (non forse per quei cittadini russofoni che dal 2014 lottano contro l’ucrainizzazione linguistica delle zone orientali), ma potrebbe essere fugace, preludio di catastrofi. Il giorno che Putin dovesse passare dall’Operazione Militare Speciale alla mobilitazione generale e dunque alla guerra vera a propria – su spinta dei falchi che ne criticano la mollezza, dell’Unione europea in gran parte appiattita su Washington, di Biden che vuole una resa dei conti che sganci definitivamente l’Europa dalla Russia (70 miliardi di dollari in armi consegnate a Kiev in 6 mesi: e c’è chi nega la guerra per procura), capiremo che quest’ingranaggio è infernale più per gli europei che per gli Usa. Capiremo anche, forse, che gli italiani non credono nella dicotomia dualistica – il Rosso con l’Europa, il Nero con Putin e Orbán, con Cristo o contro Cristo – che ignora le assicurazioni del sottosegretario Gabrielli: l’Italia non è nella lista dei sospetti.

Il Partito Democratico, così aggressivo quando denuncia il M5S per la volontaria caduta di Draghi, dimentica che i finanziamenti esteri dei partiti furono vietati dal primo governo Conte grazie alla legge spazzacorrotti, nonostante gli emendamenti, respinti, dell’alleato leghista. Di Maio, che reclama commissioni d’inchiesta sui soldi russi, potrebbe occuparsi di diplomazia invece di agitare spauracchi.

“Preferiamo la pace o i condizionatori d’aria accesi?” ci chiese Draghi il 7 aprile. La risposta l’abbiamo. Spegneremo climatizzatori e termosifoni, e di pace e diplomazia non si parla più.

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Perdere le elezioni: l’operazione Letta

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 7 agosto 2022

Prima ancora che cominci la campagna elettorale possiamo dare per scontate due cose: la vittoria delle destre e con essa lo stravolgimento presidenzialista della Costituzione, ottenibile con una maggioranza di due terzi senza bisogno di referendum.

Tutto fa pensare che il guazzabuglio elettorale confezionato da Enrico Letta lo sappia, l’accetti, forse perfino lo voglia. Che il Pd finga di voler vincere, quando invece si è tramutato non solo in partito centrista ma in un ufficio di collocamento che spartisce seggi con partitini affamati di posti e visibilità in TV. Come nel 2008 quando Veltroni affossò il governo Prodi e oppose all’Ulivo la “vocazione maggioritaria” del Pd, con l’intento/speranza di divenire primo partito italiano ma perdendo clamorosamente le elezioni.

Se così non fosse, se esistesse una coalizione dotata di un minimo di realismo e decisa a combattere seriamente le destre, la storia del dopo-Draghi non sarebbe sfociata nelle scemenze di questi giorni, che alcuni nobilitano chiamandole suicidio. Innanzitutto Letta avrebbe ripreso i contatti con Conte, non insisterebbe nel giudicare imperdonabile un atto di sfiducia che senza lo strappo di Lega e Forza Italia non avrebbe privato Draghi della maggioranza, non avrebbe adescato con qualche seggio Bonelli e Fratoianni (il quale di sfiducie ne ha espresse cinquantacinque) dando a credere che incorporando Fratoianni si allarga a sinistra. Dal vicolo cieco di veti e controveti si poteva uscire imboccando la via di un’alleanza elettorale fra diversi, Conte compreso, e però unita da un pensiero dominante: proteggere la Costituzione da sovvertimenti più volte bocciati dagli italiani. Nel guazzabuglio mancano sia il principio di realtà sia il pensiero dominante.

Ma soprattutto, il Pd non avrebbe scritto con Calenda il patto politico-ideologico che vede un partitino e un leader dai toni sguaiati esercitare un’inaudita egemonia culturale sul Pd. Ora si capisce come mai Letta si sia incaponito per mesi a definire “largo” il campo con 5 Stelle, rifiutando l’aggettivo “progressista” preferito da Conte o Bersani. Perché già lavorava a un neocentrismo che non contemplasse più la divaricazione fra destra e sinistra (fra Agenda Draghi e Agenda Sociale) ma introducesse uno spartiacque perdente: lo scontro di civiltà.

Lo spartiacque di Letta e Calenda si adatta alla seconda guerra fredda: da una parte gli “europeisti-atlantisti”, che abbracciano incondizionatamente il riarmo anti-russo deciso da Washington e Nato; dall’altra i “putiniani”, di destra e 5 Stelle, che secondo Letta e Calenda si accingerebbero anche a disfare un’UE già parecchio disfatta per conto suo. Draghi sarebbe stato addirittura silurato dal Cremlino, come ha scritto «La Stampa» per via di una domanda piuttosto banale rivolta da un funzionario dell’ambasciata russa a un rappresentante leghista (“La Lega intende uscire dal governo Draghi?”).

Non a caso Letta ha evocato come riferimento le elezioni dell’aprile 1948. Riferimento ominoso, visto che anche allora si sbandierò uno scontro di civiltà: i comunisti italiani, con cui fino a gennaio si era scritta la Costituzione, venivano dipinti nei manifesti elettorali come scheletri vestiti con l’uniforme dell’Armata Rossa.

Un altro elemento dello spartiacque centrista è rappresentato dall’apologia dell’Agenda Draghi. Subito dopo la caduta del governo il PD l’evocò con prudenza, ma su spinta di Calenda l’Agenda è ora il nerbo del patto fra i due autoproclamati frontmen della campagna (Letta e Calenda), accendendo paturnie ininfluenti in Fratoianni che entra nel cartello spacciandolo per centro-sinistra. Saranno draghiani “il metodo e l’azione” – dice il patto con Calenda – e l’adesione incondizionata alla Nato contro Russia e Cina.

La scommessa di Letta, e ovviamente di Calenda, è che il mini-partito Azione diventi maxi pescando voti a destra. Scommessa inane: le destre sarebbero forse indebolite, almeno al Senato, all’unica condizione di un fronte con 5 Stelle. A Calenda Letta ha regalato uno spazio un po’ meno sproporzionato nei collegi uninominali (24% invece dei 30 promessi) e i camaleonti Di Maio, Gelmini, Carfagna ricevono regalucci. Fratoianni e Bonelli, ottusamente inghiottendo i controsensi di Letta (“Siamo separati ma compatibili… questo patto non è di governo”) si sono infine accontentati di porticine di servizio. “Senza intesa parliamo con Conte”, suonava per qualche ora il ricatto di Fratoianni, non seguito da Bonelli che è fervente atlantista come tutti i Verdi europei.

Col passare dei giorni appare probabile che Draghi sia stato il vero artefice dei presenti garbugli, avendo voluto dimettersi a ogni costo nonostante disponesse di una maggioranza solida e assecondato da Mattarella. I motivi, scrive Giovanni Di Corato nel blog Econopoly, sono sia geopolitici sia economici. Sempre più italiani son contrari all’invio di armi all’Ucraina, dunque meglio andare al voto subito invece che fra un anno, specie se la guerra continua e se Washington apre un secondo fronte contro Pechino, dopo la dissennata visita di Nancy Pelosi a Taiwan.

Intrecciata con la geopolitica c’è poi l’economia: Draghi prevede nuvole, ma sarà uragano. Perfino Giorgia Meloni è in allarme, dice che Draghi “è fuggito”, chiede tramite Guido Crosetto patti anti-crisi con l’opposizione futura. L’Agenda Draghi è fedele al neoliberismo; liberalizza i contratti precari sottopagati; ha scritto riforme della giustizia che intaccano l’autonomia della magistratura e accorciano arbitrariamente i processi; smantella le misure sociali introdotte dai governi Conte (reddito di cittadinanza, decreto dignità, superbonus per l’edilizia). Quanto al salario minimo, il ministro Pd Orlando non fissa cifre e chiede accordi preliminari con le parti sociali, fin qui contrarie o riluttanti. Il disegno di legge sulla concorrenza, infine, liberalizza senza vincoli normativi, a cominciare dai trasporti Uber e dalla privatizzazione dell’acqua, respinta in tre referendum. L’aumento delle spese militari colpisce settori come sanità, scuola, ricerca, e il Welfare inviso alle destre. Nessuna considerazione, infine, per le proteste bipartisan contro il rigassificatore a Piombino, piazzato alle banchine del porto e non a 22 km dalla costa come a Livorno.

Calenda arriva a dire: sì a rigassificatori e termovalorizzatori, “se necessario militarizzando le aree”. Se questi sono i piani e il linguaggio del neo-centro, a opporsi da sinistra non resta che il “campo giusto” di Conte.

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Letta, tutti i silenzi del centrismo Pd

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 27 luglio 2022

Prendendo la parola ieri nella direzione del Partito democratico, Enrico Letta ha evitato di menzionare l’Agenda Draghi, intuendo forse che il termine non raccoglie i consensi inizialmente immaginati: non significa nulla, per la contraddizione che nol consente.

L’Agenda Draghi è sostanzialmente vuota perché l’ex presidente del Consiglio guidava una coalizione tra posizioni a tal punto contraddittorie che ogni riforma progressista era impossibile, a cominciare dalla giustizia fiscale. Le uniche “riforme” sono state quelle della giustizia: un regalo a chi piange in pubblico Falcone e Borsellino e dietro le quinte si adopera per distruggerne l’eredità. Secondo l’Unione europea le due riforme mettono a rischio “l’efficacia del sistema giudiziario”, specie “in relazione alla lotta alla corruzione”, e rischiano di “compromettere l’indipendenza del sistema giudiziario”.

Ma l’omaggio alle virtù di Draghi è ricorrente e accanito, nel discorso di Letta: quando accusa il “trio dell’irresponsabilità” di “tradimento dell’Italia” (il M5S accomunato a Lega e Forza Italia); quando dice che per colpa del trio i lavoratori italiani non riceveranno la mensilità in più che Draghi prometteva (ma che può ancora garantire), non otterranno misure contro la precarietà né i diritti civili (di cui peraltro il governo non si occupava, come ha rivendicato lo stesso Draghi in Parlamento). Non otterranno nemmeno il piano Orlando sul salario minimo, che però non fissa cifre ed è un mezzo imbroglio. Precariato e povertà non figurano nell’Agenda Draghi. Se ne era occupato in passato il governo Conte – col decreto Dignità e il Reddito di cittadinanza, che ha salvato un milione di persone dalla povertà e ne ha aiutate in tutto oltre 4,5 milioni – ma le misure sono state deturpate. Finito Draghi, per il Pd è la caduta nell’abisso: fa impressione l’adesione di chi pretende di rappresentare le classi popolari a un governo che per 17 mesi ha gestito compromessi al ribasso tra Pd, 5 Stelle, sinistra bersaniana e destra (anche sull’ultima ondata del Covid: un funesto fallimento di Draghi).

La compromissione con le destre è il programma dell’ex-sinistra rappresentata da Letta, che non casualmente invita i militanti a guardare al futuro anziché “salvaguardare il patrimonio del passato”. Anche perché lui, venendo da Dc e Margherita, quel patrimonio l’ignora. Come potrebbe d’altronde condividerlo, visto che annuncia la fine del campo largo (ha sempre schivato l’aggettivo progressista, preferito da Conte e Bersani) e promette un nuovo campo, contrassegnato da “liste aperte ed espansive”. Ogni alleanza è preclusa con i tre Traditori: Conte in primis, Salvini e Berlusconi. Braccia apertissime invece a ogni sorta di centristi – soprattutto Calenda, forse Renzi che però rischia di fargli perdere voti, e gruppetti in bilico fra destra e centro tra cui i disillusi di Berlusconi come Brunetta e Gelmini, da sempre neoliberisti in economia. Braccia aperte inoltre a Bersani o Fratoianni, che non osano prendere le distanze da quella che era sinistra ed è ora palesemente ex-sinistra (ma Fratoianni, rispetto al governo Draghi, era all’opposizione: altra bella contraddizione…).

La parola d’ordine di Letta sembra netta: “Noi contro Loro” (cioè contro Meloni). “Come nel 1948”, aggiunge, facendo propria la demonizzazione isterica dell’avversario comunista che caratterizzò quelle elezioni. Ma l’occhio di tigre e i colori netti di Van Gogh che prefigura, anche facendo grandi sforzi non si riesce a percepirli. L’esclusione tassativa di Conte dal campo progressista gli costerà parecchi voti, in collegi uninominali dove vince chi arriva primo. Forse meglio così (entrambi perderebbero voti), ma il No di Letta toglie comunque nerbo alla sua campagna. D’altronde come scorgere il nerbo – l’occhio di tigre – in un discorso programmatico che evita di indicare nel dettaglio i pericoli di una vittoria di Meloni-Salvini-Berlusconi, eludendo l’essenziale: le questioni sociali, l’astensionismo delle classi più povere, infine la politica di distensione e di pace che costituiscono il patrimonio delle sinistre di cui Letta vuol sbarazzarsi. L’abbandonato campo di sinistra potrebbe trovare oggi una rappresentanza in Conte, smuovere astensionisti e delusi del Pd, e fare quello che preannuncia Letta: “Risvegliare la politica”. È un cammino difficilissimo e tardivo per il M5S, ma tentare la risalita vale la pena.

Il pericolo di una destra vittoriosa – per ora a guida Meloni– è in primissimo luogo la riscrittura della Costituzione, come giustamente osservato da Antonio Floridia sul «manifesto», che suggerisce non già il campo progressista definitivamente affossato, ma almeno un accordo tecnico Pd-5 Stelle. Una volta al governo con una forte maggioranza, la destra riuscirebbe a ottenere il consenso di due terzi dei parlamentari (compresa una consistente porzione del centrismo raccolto attorno a Letta) e cambiare a sua guisa la Carta costituzionale senza nemmeno dover ricorrere al referendum. A questo rischio – il più grave – Letta non ha fatto minimamente accenno, non nominando mai la Costituzione per non urtare Renzi, Calenda e i tanti Pd che votarono sì alla “riforma” Renzi-Boschi.

Stesso silenzio sulle riforme della giustizia criticate dall’Unione europea e un accenno del tutto sommario alla guerra in Ucraina, dopo aver accusato tutti i “traditori” di Draghi –nei giorni scorsi– di essere putiniani. Letta resta profondamente atlantista, da mesi usa toni decisamente neo-con e non ha mai visto l’Unione europea come un soggetto autonomo i cui interessi non coincidono con quelli statunitensi e atlantici. Culturalmente non è legato alle battaglie socialdemocratiche per la distensione con la Russia: una tradizione che ancora sopravvive in alcuni esponenti tedeschi (tra cui il presidente della Repubblica Steinmeier). Nella campagna elettorale, il Pd tornerà a chiedere più aiuti militari all’Ucraina, in contrasto con quello che vuole la stragrande maggioranza degli italiani nei sondaggi.

Infine la questione sociale, su cui Letta si è opportunamente soffermato, ma senza specificare quel che pensa sul Reddito di cittadinanza, sull’aumento della povertà assoluta e relativa ripetutamente evocata da Domenico De Masi, sul precariato che non cessa di crescere, sulla giustizia fiscale mai attuata. Senza criticare, infine, le nebulose proposte di Draghi sul salario minimo.

Letta prospetta una vittoria del suo campo espansivo e incita a “scrivere una pagina dove nessun destino è già scritto”. È vero, nessun destino lo è. Ma una campagna che demonizza Giorgia Meloni senza spiegare in cosa precisamente consista il pericolo per la Costituzione e per la società rischia di ingessare il destino senza poterlo scuotere.

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