di Barbara Spinelli
«Il Fatto Quotidiano», 27 settembre 2020
Nonostante la vittoria ottenuta al referendum sul taglio dei parlamentari, il M5S sembra aver pienamente soddisfatto la Sacra Alleanza che da anni spera nella devastazione del movimento fondato da Grillo. La prima Alleanza nacque dopo la sconfitta di Napoleone, nel 1815, e fu presentata da Metternich come il più efficace bastione contro la democrazia, il secolarismo, gli effetti della rivoluzione francese (anche se Metternich stesso ebbe a definire la coalizione una “clamorosa nullità”).
La Sacra Alleanza del tempo presente nasce per proteggere da incursioni aliene gli interessi, le ideologie e il potere tuttora agguerrito di chi per decenni ha fatto quadrato attorno al neoliberismo e ha guardato con crescente fastidio le sconfessioni che venivano dal suffragio universale, oltre che dalla realtà. Tutti costoro sanno che la crisi (prima dei subprime e poi del Covid) ha messo in luce la “clamorosa nullità” delle ricette neoliberali, e si consolano oggi con le disfatte dei Cinque Stelle alle regionali e comunali.
La Sacra Alleanza contro gli avversari del neo-liberismo e della nuova guerra fredda ha un suo vocabolario, un blocco di luoghi comuni e di insulti automatici. I Cinque stelle sono regolarmente bollati come populisti, ideologici, segretamente sovranisti. Non sono un partito, si dice ancora, ma una mera opinione: sono capaci solo di espirare il loro inconsistente flatus vocis. Quando parlano o criticano o propongono o legiferano, le loro voci sono solitamente liquidate come prodotto di un’ideologia: è l’accusa ricorrente espressa da chi è immerso nell’ideologia fino al collo. (Tanto per fare un esempio sull’uso sempre più vacuo di quest’epiteto: qualche giorno fa un inviato del telegiornale di Mentana ha detto, a proposito dei Palestinesi piantati in asso dall’accordo Israele-Emirati: “È passato il periodo della battaglie ideologiche!” Come se reclamare uno Stato palestinese fosse una delle tante ideologie destinate al macero da chissà quale storia progressista).
Con questo non si vuol affermare che il M5S gode di buona salute, e ha davanti a sé verdi praterie. La sua sconfitta è chiara, la sua incapacità di costruire alleanze è evidente, e se il governo Conte esce rafforzato dalla prova delle regionali e del referendum è perché l’elettorato Cinque Stelle ha con le proprie forze scelto di proteggerlo, con il voto disgiunto o utile: un’operazione voluta dalla base più che dal lacerato gruppo dirigente. Vogliamo solo affermare che fare alleanze territoriali o nazionali è una soluzione solo se Cinque Stelle non si dissolvono completamente nel campo dominato dal Pd. Qui è il dilemma in cui sono oggi impelagati, ed è dilemma serio. Il Pd che dà volentieri lezioni di savoir-vivre ai propri alleati di governo dovrebbe essere più umile, e riconoscere che l’alleanza “strategica” stretta dalle sinistre classiche con gli estremisti del centro che sono i neoliberisti, negli anni ’70 e ’80, polverizzò durevolmente l’idea stessa di sinistra. Un modello suicida che il M5S vorrebbe evitare, sia pure in maniera del tutto confusa.
In genere si fa poca attenzione all’attività dei suoi europarlamentari, che in questi anni si sono mostrati tenaci, ben preparati e nelle grandi linee coerenti. Non sono giudicati interessanti, se si esclude il momento in cui hanno permesso con i propri voti l’elezione di Ursula von der Leyen alla guida della Commissione europea. Prima ancora che si formasse la coalizione fra 5 Stelle e Pd, gli europarlamentari pentastellati hanno mostrato che le loro preferenze di voto andavano ben più spesso ai Verdi e alle sinistre che alla Lega. Nei loro comportamenti sono paragonabili all’elettorato 5 Stelle: tendono a correggere e riaggiustare, a Bruxelles, quel che a Roma si sfilaccia o si rompe.
Ma non sono perdonati, se non si limitano ad appoggiare i gruppi di centro sulle nomine o sul Recovery Fund e osano emettere qualche idea propria. Per esempio sulla democrazia diretta, che gli eurodeputati Cinque Stelle hanno difeso di frequente a Bruxelles per rendere più credibile e forte la rappresentanza democratica, non per sostituirla. Da questo punto di vista l’uscita di Grillo contro la democrazia rappresentativa è stata non poco nociva.
Altro punto di forza, a Bruxelles: il reddito minimo di cittadinanza, approvato nell’ottobre 2017 da una maggioranza spettacolare (451 voti in favore, 147 contrari, 42 astenuti). Relatrice della risoluzione era l’eurodeputata 5 Stelle Laura Agea. I commentatori invitati nei salotti televisivi tendono a far risalire la svolta europea del Movimento al secondo governo Conte e alle pressioni del Pd. Chi ha visto i deputati 5 Stelle legiferare a Bruxelles, e distinguersi più volte dalla Lega, sa che la notizia è falsa. Una notizia falsa non diventa vera perché nessuno la contraddice.
Le relazioni europee con la Russia sono un altro tema che vede i Cinque Stelle esprimere idee che indispongono la Sacra Alleanza. La recente risoluzione sull’avvelenamento di Navalny è stato un ennesimo esercizio di riattivazione della guerra fredda, voluto ancora una volta – come nella sbilanciata e sconclusionata risoluzione sulla memoria europea di un anno fa– dai deputati e governanti polacchi. Il Pd ha votato ambedue le risoluzioni, salvo qualche pentimento ex post sulla memoria europea. I 5 Stelle si sono prudentemente e fortunatamente astenuti nelle due circostanze.
Non per ultima: la migrazione. Anche qui il Pd non ha speciali lezioni da dare. Si accusa legittimamente Di Maio di aver parlato delle navi Ong come di “taxi del mare”, ma si dimentica che il patto della vergogna con la Libia fu negoziato dal ministro Minniti e dal governo Gentiloni. Così come fu concepito da Minniti il codice di comportamento che complica le operazioni di Ricerca e Salvataggio in mare delle navi Ong.
Il buon lavoro svolto in Europa dai Cinque Stelle ha tuttavia poco peso sui dibattiti italiani. Nei salotti del potere i rappresentanti pentastellati continuano a essere trattati come quadrupedi che ancora ignorano l’incedere dei bipedi. Ossessivamente sono chiamati a dirci “cosa faranno da grandi”. Lo chiedono imperiosamente i giornali mainstream, gli estremisti del centro come Renzi o Calenda, il Pd che si muove sul palcoscenico come se non avesse nulla da rimproverarsi nell’evaporare della sinistra italiana. Con supponenza sfoderano il monotono verdetto: “È passato il periodo della battaglie ideologiche!” È passato per tutti tranne che per loro: benvenuti nel deserto del reale!
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