Le vere origini del caos bellico

«Il Fatto Quotidiano», 25 giugno 2025

Pubblichiamo l’intervento integrale di Barbara Spinelli di cui ieri è stata letta una sintesi durante la manifestazione organizzata dal M5S all’Aja.

Si ripete che il riarmo UE è la conseguenza dell’intervento russo in Ucraina, nel febbraio 2022. Un intervento che ha radici molto precise, e che né i governi occidentali né la Commissione hanno mai in questi anni riconosciuto e neanche lontanamente pensato. Alla sua radice: la minaccia di un’estensione delle forze e dei missili Nato fino alle porte della Russia, intollerabile per Mosca come lo sarebbe l’installazione di basi militari russe o cinesi alle porte degli Stati Uniti.

La vera svolta, se siamo interessati alla genealogia del conflitto ucraino e del riarmo europeo, è avvenuta dopo la guerra fredda e in concomitanza con l’allargamento dell’Unione all’Est Europa. L’Occidente si comportò da vincitore, e gli Stati Uniti decisero che a quel punto se l’Urss era morta tutto era permesso, a partire dalle sue basi che sono 750 in almeno 80 Paesi nel mondo. Anche la creazione di un “nuovo Medio Oriente” egemonizzato dall’unica potenza atomica della regione, Israele, nacque in quel periodo, quando nel 1996 andò al governo Netanyahu: ben prima dell’11 settembre 2001. Il diritto internazionale è stato messo in questione non nel 2022 ma negli anni Novanta del secolo scorso.

Il risultato è stato che non solo la Nato è restata in piedi (retrospettivamente penso che sarebbe stato saggio scioglierla fin dal 1991, in contemporanea con la fine dell’Urss e del patto di Varsavia) ma è divenuta protagonista di una serie di guerre di regime change, tutte fallite ma sempre ricominciate.

L’Europa ha seguito servilmente quest’operazione di egemonia unilaterale dell’occidente. L’errore più madornale lo ha compiuto con un allargamento all’Europa orientale che è andato di pari passo con l’allargamento a Est della Nato, senza mai distinguere nettamente i due processi. L’Europa si è riunificata sotto l’egida atlantica, e con l’andare del tempo è diventata un unico corpo con la Nato, soprannominato nel frattempo comunità euro-atlantica.

La guerra in Ucraina nasce da questi mancati distinguo, che portano oggi i governi europei a essere più atlantisti degli Stati Uniti: a boicottare i confusi sforzi negoziali di Trump in Ucraina, e a respingere l’idea stessa di una mediazione russa nella guerra contro l’Iran come ventilato dal Presidente al G7. Nessun appoggio europeo, infine, all’appello rivolto a Teheran e soprattutto, con queste parole irritate,  a Israele: “Ritirate i vostri piloti subito!”.

Putin non aveva intenzione d’incamerare tutta l’Ucraina, e tanto meno intende invadere questo o quel pezzo d’Europa, come temuto dall’istinto russofobico di Ursula von der Leyen, di Berlino, Londra, Varsavia, Parigi, capitali baltiche. L’invasione dell’Ucraina nel 2022 era un mezzo per forzare una decisione cruciale per Mosca da vent’anni: l’ammissione che la neutralità di Kiev è necessaria alla pace europea e che la promessa di adesione ucraina alla Nato è stata una provocazione irrealistica oltre che arrogante.

Nel 1990 un’alternativa pacificatrice e profondamente nuova esisteva, e fu offerta da Gorbachev: la creazione di un sistema di sicurezza europeo negoziato con Mosca, una “Casa comune europea” consapevole della divergenza crescente fra interessi geopolitici europei e statunitensi.

A mio parere, quest’alternativa frantumata dalle espansioni Nato resta la più fedele non solo alla domanda di pace espressa oggi dai cittadini europei ma anche alla visione che i fondatori avevano dell’unità fra i popoli e gli Stati europei durante la seconda guerra mondiale e subito dopo. Era un’unità che puntava al superamento dei nazionalismi aggressivi che avevano per secoli trascinato gli Stati del continente in guerre fratricide, e fu concepita perché l’Europa dedicasse tutta la sua attenzione e le sue forze alla creazione di un modello sociale che avrebbe reso più improbabili le guerre. Il Welfare fu pensato dall’inglese William Beveridge durante la guerra, come fu pensato durante la guerra il Manifesto di Ventotene. È pura invenzione non statunitense o atlantica ma dell’antifascismo e antinazismo europeo.

Una delle frasi più raccapriccianti ma sintomatiche pronunciate ultimamente in Europa è quella di Friedrich Merz, dopo la guerra israeliana in Iran e poco prima del raid di Trump: “Israele sta facendo il lavoro sporco per noi tutti. Ho massimo rispetto per Israele che ha avuto questo coraggio”. Poco tempo prima, il 15 maggio, aveva promesso al Bundestag che il suo Paese avrebbe costruito l’”esercito più potente d’Europa”, che la Germania aumenterà le spese militari fino al 5 per cento del prodotto nazionale lordo e che la Russia era una minaccia per Berlino. Merz dice queste cose senza scomporsi, come se nella testa avesse della paglia e non qualche vago ricordo dei 27 milioni di russi morti per liberare il continente da Hitler. La socialdemocrazia che governa con lui governa tace e acconsente.

È come se parlando di Iran il Cancelliere pensasse solo agli affari delle industrie militari: nessuna parola sul genocidio a Gaza, sui centri israelo-americani di avara distribuzione del cibo trasformati in killing fields dove si spara sui Palestinesi affamati e assetati, in un quotidiano videogioco horror. E poi che significa aver rispetto per un lavoro sporco? Se il lavoro è sporco è sporco per chiunque, anche per l’Europa che arma Israele.

Non meno raccapricciante la dichiarazione con cui Mark Rutte, segretario generale Nato, ha perorato il riarmo: “La Nato è l’alleanza difensiva più potente nella storia mondiale, più potente dell’impero romano, più potente dell’impero Napoleone (…) Va trasformata in un’Alleanza più forte e più letale”. Per decenni il dispositivo militare ha finto di essere difensivo, da decenni è offensivo in maniera esplicita. “Smembrare la Russia in tanti piccoli staterelli” era, secondo Kaja Kallas Premier estone, l’obiettivo da raggiungere attraverso la guerra per procura Nato-Federazione russa. Entrata nelle istituzioni UE non l’ha smentito.

Sia chiaro, qui non si tratta di difesa europea, come pretendono UE e la Nato. La difesa comune sarebbe possibile solo se esistesse un esercito che risponde a un unico Stato, oggi lungi dall’esistere. Si tratta di acquistare armi Usa, di partecipare alle guerre decise da Washington. E soprattutto: si tratta di smembrare potenze o Stati attori del nuovo ordine multipolare, uno dopo l’altro: dalla Siria all’Iran alla Cina.

Oggi Trump annuncia tregue nella guerra contro l’Iran, fa capire che vorrebbe distanziarsi da Netanyahu, ma non cambia idea sul diktat israeliano: l’arricchimento dell’uranio ridotto a zero, domanda assente nell’accordo Obama-Teheran che rinnegò nel primo mandato su pressione di Tel Aviv.

Non meravigliamoci se gli Stati che più temono la strategia dello smembramento e le guerre di regime change decideranno – per non esser mai più aggrediti dall’Occidente – di dotarsi dell’atomica che ancora non possiedono.

La follia bellica Ue e l’arma di Čechov

di mercoledì, Aprile 9, 2025 0 , , , , Permalink

«Il Fatto Quotidiano» ha chiesto a Barbara Spinelli di ampliare il suo intervento alla manifestazione dei 5Stelle contro il riarmo, tenutasi il 5 aprile a Roma. Il testo è stato pubblicato il 9 aprile 2025.

Vorrei parlare del nuovo bellicismo europeo e dei suoi fondamenti: l’ignoranza, la menzogna, l’avidità del complesso militare-industriale. L’ignoranza per prima, abissale e volontaria, di quel che vuole ed è la Russia, di quel che sono gli Stati dell’Est europeo usciti dall’Urss con un pensiero dominante: vendicarsi della Russia.

E se possibile smembrarla, come sostenuto da Kaja Kallas, Alto rappresentante della politica estera dell’Ue, ex premier nota per l’oppressione in Estonia delle minoranze russe.

E ancora: ignoranza della guerra degli ucraini, di come l’hanno persa nonostante fosse stata preparata fin dal 2014, e poi condotta, dai servizi e dai militari Usa. La verità è che Trump sta gestendo la prima grande sconfitta occidentale contro una potenza nucleare (anche la guerra dei dazi è gestione di una sconfitta). L’Occidente intero è alle prese con una disfatta, anche se l’Europa occidentale si benda gli occhi e fa finta di niente.

Certo, all’inizio fu legittima resistenza all’invasore, ma le cose sono cambiate. Si moltiplicano i reportage, anche ucraini, sulle diserzioni dei giovani, su una generazione perduta, sugli arruolamenti forzati: ti acchiappano per strada con un bus e ti sbattono al fronte o ti riempiono di botte (si chiama bussificazione). Nella Resistenza non succedeva. Infine la bugia sull’Ucraina compatta: è invece divisa, col Donbass che parla russo (lingua proibita dal 2019) e anche se non approva Putin resta etnicamente russo.

La guerra in Ucraina, come quella in Georgia del 2008, è un assalto inizialmente difensivo, dovuto a due fattori: l’allargamento provocatorio della Nato fino alle porte della Russia, voluto da Clinton, e la questione irrisolta delle minoranze russe nei Paesi staccatisi dall’Urss (25 milioni, di cui circa 8 in Ucraina).

Chi fustiga la piazza per la pace organizzata sabato a Roma dal Movimento 5 Stelle la chiama in blocco putiniana, o trumpiana, e oppone l’assurdo proverbio: se vuoi la pace prepara la guerra. Intende ben altro: se vuoi la guerra, prepara la guerra. Questa è la verità di tante risoluzioni del Parlamento europeo e del piano di Riarmo della Commissione Von der Leyen.

C’è chi garantisce che riarmarsi fa salire crescita e occupati (parola dell’ex segretario di Stato Blinken, di Draghi nel Rapporto sulla competitività). Noi Europei che ne abbiamo fatte a bizzeffe, di guerre, sappiamo che se dal ’45 abbiamo costruito welfare e diritti sociali è perché abbiamo scelto la pace. L’abbiamo scelta grazie all’ombrello statunitense, dicono. Da quale terribile aggressore ci protegge?

Visto che si parla tanto di Churchill e di Hitler (quanti sosia di Hitler s’è inventato l’Occidente negli ultimi ventiquattro anni!) vorrei ricordare che Churchill, finita l’ultima guerra contro Hitler, nel 1945, voleva ricominciarne subito un’altra, contro l’Unione sovietica. La chiamò Operazione Impensabile. Per fortuna i laburisti vinsero le elezioni e Eisenhower s’oppose alla pazzia. Ma ecco che ricominciamo: Riarmo Europa è un’altra Operazione Impensabile.

Per rassicurarci dicono che non è bellicosità: “è solo deterrenza”. La deterrenza fu Equilibrio del Terrore e parità degli armamenti Est-Ovest. Dobbiamo “pareggiare” seimila testate nucleari russe? Durante l’Equilibrio del Terrore furono avviati negoziati per il disarmo. Oggi no. Né è chiaro se Trump voglia simili negoziati – quando tenta l’accordo con Putin – dato che chiede agli Stati europei di accrescere il riarmo fino al 5% del Pil.

Contrariamente a quanto si afferma nelle piazze Pd (Roma, Bologna), non c’è differenza alcuna fra il riarmo dei singoli Stati e la difesa europea, per il semplice fatto che per una difesa europea ci vorrebbero uno Stato europeo con un esercito europeo. Né l’uno né l’altro esistono. È un’altra grande menzogna. Non solo: il piano Riarmo-Europa è realizzabile in un solo Paese: la Germania. Gli altri Stati sono troppo indebitati. Stramazzerebbero. Se questo è l’obiettivo (la supremazia tedesca sia economica sia militare) il pericolo è vicino. Possiamo immaginare quel che ne pensa la Russia, dopo 27 milioni di morti nella Seconda guerra mondiale.

La marcia della follia smantellerà lo Stato sociale su cui si fondava l’Unione. Solo le spese militari saranno esentate dai vincoli dell’austerità. Non le spese per scuola, sanità, lavoro. Il capo dell’industria militare Leonardo, Roberto Cingolani, afferma senza vergognarsene: “Se ti crolla il tetto della casa, devi ripararlo e magari mangiare meno”. Merz in Germania propone la revisione del sussidio cittadino – il nostro perduto reddito di cittadinanza. Starmer taglia i benefit per i poveri: non si sa perché lo chiamano laburista. Oppure è laburista come Blair, che promosse la Coalizione dei Volenterosi contro l’Iraq. Non so con che faccia tosta quest’indecente denominazione – Coalizione dei Volenterosi – venga resuscitata da Macron e Starmer.

C’è chi ha detto, qualche giorno fa: “L’unico modo per trattare il M5S è cancellarli”. È la Neolingua mediatica e politica: cancelliamo chi chiede la pace, cancelliamo tv e cultura russe così non sappiamo cosa si pensa in un grande Paese europeo accanto a cui vivremo migliaia di anni e con cui potremmo cooperare come nella Conferenza di Helsinki nel 1975.

Ma siccome non siamo qui per cancellare, è uno scrittore russo che vorrei citare, Anton Čechov: “Se in un romanzo compare una pistola, bisogna che spari”. La pistola di Čechov è il riarmo deciso da chi vuole una pace giusta (cioè ancora guerra): non una pace possibile. Il Pd nel Parlamento europeo approva (contro il parere di Elly Schlein) e tanti lamentano l’opposizione divisa. A me pare che su pace e guerra sia difficile il compromesso. È la socialdemocrazia tedesca che ha detto: dobbiamo ridivenire “pronti alla guerra” (kriegstüchtig). Che ha reintrodotto la pistola del romanzo europeo.

I governi europei non hanno fatto nulla per capire le radici della guerra. Per distinguere l’allargamento dell’Unione da quello della Nato. Non hanno mai osato ammettere che la pace in Europa è possibile solo se Ucraina, Georgia, Moldavia sono neutrali come l’Austria nel secondo dopoguerra. Continuano ad armare Israele come Donald Trump (Germania in testa), dicendo che il 7 ottobre riecheggia l’annientamento degli ebrei, ma quel che è venuto dopo a Gaza no, niente a che vedere con lo sterminio.

Alle piazze che favoleggiano di difesa europea andrebbe chiesto: quando mai l’Europa ha lavorato per la pace, tranne negli anni della distensione di Willy Brandt o quando Francia e Germania s’opposero alla guerra in Iraq?

L’Europa di oggi elenca i nemici esistenziali: Russia, Cina, Iran, Corea del Nord. È un po’ tanto, per un continente in declino. È una marcia della follia, simile in tutto e per tutto a quella che precedette la guerra del 1914-’18, che lascerà morire al posto nostro altre migliaia di ucraini con l’idea che chissà, magari stavolta rischiamo la Terza guerra mondiale, ma avremo tenuto a bada Trump.

Provano a chiamarla “responsabilità”, ma è solo destra

di martedì, Dicembre 3, 2024 0 , , , , Permalink

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 3 dicembre 2024

Dopo il voto favorevole alla seconda presidenza von der Leyen, nel Parlamento Europeo, Elly Schlein s’è ingarbugliata: “Non è la nostra Commissione ma è giusto che parta. […] Non cediamo di un millimetro”. E Zingaretti, eurodeputato: “In noi non c’è alcun cedimento, ma un protagonismo perché la destra non si impadronisca dell’Europa”. Invece il cedimento c’è, e le rassicurazioni se ne vanno in fumo fin da subito. Da quando la sinistra ha cessato di esser tale, c’è un fossato tra quel che dice e che fa: lo chiamano Responsabilità.

Il Pd non solo approva una Commissione spostata a destra, ma assieme alle stesse destre vota il giorno dopo due mozioni neoconservatrici e anti-russe sulle armi a Kiev e sulle elezioni in Georgia, giudicate illegittime senza prove serie. Schlein si esercita in doppiezza, ma è assediata dai centristi del suo partito che da Bruxelles le sparano addosso contando di abbatterla. I 5 Stelle che con Avs sono nel gruppo “Left”, in Europa, hanno votato sia contro Von der Leyen sia contro le due risoluzioni, e per questo è opportuno che almeno loro restino in piedi.

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Quell’asticella alta tra Conte e Schlein

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 12 aprile 2024

Ieri Giuseppe Conte ha spiegato, in una conferenza stampa a Bari, quel che lo muove e che muove il suo partito-movimento.

Non cercare coalizioni pur di vincere a tutti i costi o nell’immediato, non salire sporadicamente nei sondaggi, ma proporre agli alleati del centrosinistra un Patto per la Legalità e la Buona Amministrazione che “estirpi la cattiva politica” – i voti di scambio, i comitati d’affari, le mangiatoie, gli spazi di immunità – e apra le porte alla buona politica e all’imparzialità. A poche settimane dal voto di Bari, il leader 5 Stelle prende atto che il Patto è ancora da edificare, considerata l’onda di ben tre inchieste giudiziarie su malaffare e voti di scambio che sta inondando le amministrazioni Pd a Bari e la Puglia, e decide la fuoruscita dei propri consiglieri dalla giunta regionale di Michele Emiliano.

Forse perché fiuta infastidita una sorta di ritorno dell’atmosfera di Mani Pulite (ci sono ricordi istruttivi che indispongono), forse perché obbedisce all’automatismo degli stereotipi conformisti, gran parte degli osservatori e della classe politica ripete quanto è avvezza a dire da giorni e da anni, generalmente in coro perché il conformismo è sempre groupthink, pensiero di gruppo: ripete che il leader del Movimento 5 Stelle è un opportunista quando sbandiera la questione morale; che usurpa il trono di Schlein e vuol essere egemone del centrosinistra; che pecca di slealtà e perfino aiuta le destre, come sospetta Schlein. C’è anche chi mostra irritazione per una frase che il leader di 5 Stelle scandisce da parecchio tempo e che ieri a Bari ha pronunciato più volte: nei rapporti con le altre forze politiche “la nostra asticella è molto alta”. Evidentemente, chi aggredisce Conte per questa postura usa tenere l’asticella molto bassa. Dovrebbe spiegare perché e con quali conseguenze.

C’è infine chi, pensando magari di proteggere Elly Schlein e l’indeterminatezza di alcune sue scelte, lo accusa di “tornare al partito del vaffa”. Pier Luigi Bersani stavolta sbaglia tutto: battuta, metafora ed epoche. La svolta di Conte è un’azione di pulizia indispensabile, se è vero che su 200 inchieste avviate dalla Procura europea per truffe ai fondi del Pnrr, ben l’85% riguarda l’Italia.

Tutti i castigatori, comunque, giudicano Conte colpevole di tradimento e slealtà verso la segretaria del Pd. Una segretaria osannata, specie dai giornali mainstream, con la veemenza che caratterizza chi empatizza con un perdente: troppo innocente, troppo candida, troppo credula e intimidita nel rapporto con 5 Stelle. Si è sentito perfino un giornalista proclamare di essere “soggiogato” dalle sue “qualità magnetiche”. Difficile immaginare un giornalista fuori dall’Italia che pubblicamente usi questi termini nel descrivere un politico.

Quel che i castigatori fanno finta di non vedere, tuttavia, è qualcosa di più profondo: è la vera natura dello scontro riacutizzatosi fra Conte e Schlein, e la sua durata nel tempo. La disputa infatti non è episodica e concerne non solo il buon governo e la questione morale ma anche – e da anni– i temi più cruciali e drammatici del nostro tempo: la guerra, l’invio di armi a Ucraina e Israele, la sottomissione acritica dei governi italiani – di Mario Draghi come di Giorgia Meloni – alle strategie espansive della Nato.

Per capire la natura dello scontro, e i motivi per cui si accumula tanto astio verso quella che Conte chiama rivoluzione (il Patto per la legalità), bisogna provare a vedere dietro le apparenze. Dietro il velo delle apparenze, si può constatare la resistenza cocciuta, irremovibile, di un apparato Pd che dilata lo scontro e lo usa ad arte per affossare gli sforzi di intesa fra democratici e 5 Stelle che la segretaria Pd sta tentando, con tenacia anche se intermittente, indecisa, spesso intimidita. La verità ancora invisibile è che Conte sfidando Schlein le sta porgendo la mano, e di fatto potrebbe aiutarla.

Se davvero Schlein vuole liberarsi dai logorati e spesso contaminati potentati locali del Pd come aveva annunciato quando divenne segretaria – se non vuole farsi condizionare dai “cacicchi e capibastone” del proprio partito – farebbe bene a far propria la promessa del Patto offerta da Conte, e a mostrare d’aver capito quel che è in gioco e sta succedendo. Gli attacchi a Conte sferrati da gran parte della stampa e da una buona parte del Pd, oltre che da personaggi sparsi del centro, sono in realtà la clava con cui si attacca lei: l’aliena nel partito, la persona non grata, la regina da spodestare sfruttando ogni occasione e ogni minacciato “punto di non ritorno”. Si insulta lui per colpire lei.

Che lo scontro per interposta persona non sia episodico né nuovo è confermato da quanto accade fra 5 Stelle e Pd quando si discute, in Italia e nel Parlamento europeo, su guerra e pace. Gli eurodeputati del Pd votano sistematicamente, e ormai senza più defezioni, in favore di risoluzioni che insistono nel proseguire gli aiuti militari a Kiev e raccomandano di riconquistare tutti i territori occupati dalle truppe russe, Crimea compresa. Questo nonostante l’Ucraina stia rischiando la perdita sempre più vasta di territori e soldati. Non meno sistematicamente, gli eurodeputati 5 Stelle votano contro tali risoluzioni. È vana e capziosa la scusa addotta dagli eurodeputati italiani del gruppo socialista: “Diciamo queste cose ma auspichiamo anche negoziati di tregua o di pace”. Se l’auspicassero seriamente, ammetterebbero che tregue e pace sono possibili solo se si restaura lo statuto di neutralità adottato dall’Ucraina quando divenne indipendente nel 1991. In gran parte, questi eurodeputati vogliono essere ricandidati.

Infine, tornando al Patto di legalità proposto da Conte in Puglia come in Piemonte e altre regioni, vale la pena chiarire un punto. Non è l’epoca di Mani Pulite e nemmeno del vaffa che sta tornando. Il buon governo e la buona politica non sono reclamati da magistrati o movimenti extraparlamentari. È una domanda che nasce stavolta nel cuore della politica. Quando Conte dice che “occorre dire se vogliamo che sia la magistratura a decidere le sorti della politica o se invece la politica possa e debba avere un sussulto di dignità”, quando invita la segretaria Pd a decidere “se trasformare il Pd, come aveva promesso, o se lasciarsi trasformare dal vecchio Pd”, rende visibile e riconoscibile un contrasto annoso, che risale ai tempi della segreteria di Bersani e soprattutto a quelli di Enrico Letta.

Inutile fare calcoli brevi quando la disputa concerne temi fondamentali, e dimenticare che Conte lasciò il governo Draghi (forse non doveva neanche entrarci) perché contrario ai due capisaldi dell’Agenda – per il resto introvabile – dell’ex presidente della Bce: l’atlantismo acritico e bellicoso, abusivamente appaiato all’europeismo, e in economia l’erosione costante dello Stato sociale. Nessuno nel Pd, neanche Schlein, ha ancora osato quel che è lecito chiedere a chi si dice progressista: chiudere quell’epoca, e congedarsi dall’Agenda Draghi.

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I socialisti “comodi” che riarmano l’Ue

di domenica, Marzo 10, 2024 0 , , , , Permalink

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 10 marzo 2024

Se fossero davvero innovativi e volessero difendere il progetto originario di unità europea, che era pacifico, i socialisti e socialdemocratici del continente dovrebbero esaminare se stessi e infine ammetterlo: non si governa per decenni in coabitazione con i Popolari, che sono dominanti nel Parlamento europeo, senza farsi contaminare dal coabitante.

Non si esce illesi da un connubio metodico, capillare, costante, che pervade ogni mossa degli europarlamentari che usano dirsi “di sinistra”, che si fanno eleggere nel gruppo chiamato Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici (S&D), e che con la sinistra non hanno più nulla a che fare (se mai l’hanno avuto nei tempi recenti). Chi appartiene al gruppo fa parte della cerchia che conta a Bruxelles e Strasburgo, che decide nelle Commissioni parlamentari il destino non solo delle inutili risoluzioni su politica estera o diritti dell’uomo, ma anche dei regolamenti o direttive che diverranno più o meno automaticamente legge europea. Difficile rinunciare a queste abitudini e queste seduzioni del potere.

Di questa cupola di potenti fanno parte sia i Liberali che oggi si ispirano a Emmanuel Macron (Renew), sia i Verdi che dalla guerra jugoslava in poi sono atlantisti d’avanguardia. Alcuni esempi recenti: le critiche che i Verdi – tramite il ministro degli Esteri Annalena Baerbock– hanno rivolto al Cancelliere Scholz, contrario a inviare in Ucraina i missili Taurus che potendo colpire la Russia rischierebbero una guerra mondiale. Secondo esempio, si parva licet: l’uscita strampalata della vice Presidente del Parlamento Pina Picierno (Pd) che ha chiesto sanzioni europee (non si sa di che genere) contro Ciro Cerullo, Jorit in arte, per un murale a Mariupol e per “adesione al disegno criminale e genocidario del popolo ucraino da parte di Putin”.

Naturalmente non mancano eurodeputati socialisti che pensano in altro modo e si sforzano – debolmente – di resistere al fascino nonché alle tante comodità del connubio. Ma il dispositivo della coabitazione finisce con lo stritolarli, fino a che le loro figure sbiadiscono e diventano ombre. Elly Schlein, che oggi guida il Pd e nella precedente legislatura fu ottima eurodeputata, ne sa qualcosa. E anche se decide di soprassedere, dovrebbe sapere come si comportano i rappresentanti Pd appena mettono radici nell’europarlamento. È faticoso sradicarsi, le abitudini non si spengono facilmente. Il pericolo, per chi dissente in Europa, è di confondersi con gli “estremismi di destra e sinistra”, che la cupola aborre.

Sui temi che oggi contano di più, e cioè sulla “guerra grande” in Ucraina e Medio Oriente (Yemen e Libano oltre a Gaza), gli eurodeputati Pd non seguono generalmente le indicazioni della segreteria, e appoggiano le risoluzioni o i regolamenti più bellicosi, fedeli all’atlantismo di Renzi e Letta. Schlein ancora non ha deciso se privilegiare i negoziati con Mosca – e di conseguenza suggerire la neutralità o almeno il non allineamento di Kiev– o armare Zelensky fino a improbabili vittorie. Ma gli europarlamentari Pd le idee chiare le hanno, e sulla guerra non ascoltano le riserve della segretaria ma votano sistematicamente come i Popolari, i liberali di Renew e i Verdi. Lo stesso vale quando si discute di austerità economica.

È quel che si verificò quando Jeremy Corbyn divenne leader del Labour, fra il 2015 e il 2020, e tentò di spostare a sinistra un partito che per anni, con Blair e Cameron, si era tramutato in una forza favorevole alle guerre in Afghanistan, Iraq, Libia: tutte rovinose, tutte impopolari e perse. Se si escludono alcuni dissidenti, i laburisti eletti in Europa fecero finta che Corbyn non esistesse. Corbyn fu poi travolto da assurde accuse di antisemitismo ma intanto Londra era uscita dall’UE.

Il fatto è che gli eurodeputati socialisti vivono in una bolla eurocratica, smettono le vecchie appartenenze e si disinteressano del proprio elettorato. Solo ha peso quel che si dice dentro la cupola e nei caffè della Place du Luxembourg, alle porte del Parlamento a Bruxelles. Immaginano di esser di sinistra perché difendono i diritti civili o i LGBT+ o le vie legali di migrazione, ma sulla questione oggi centrale – la guerra, il riarmo d’Europa – sono atlantici e basta.

Si spiegano così le molte risoluzioni sulla guerra in Ucraina, approvate grazie alle complicità dentro la cupola. Ci limitiamo a menzionare quella del novembre 2022, che definisce la Russia Stato promotore del terrorismo e approva le sanzioni. Quella del giugno 2023, che insiste sull’adesione rapida di Kiev alla Nato oltre che all’UE, e preclude quindi ogni trattativa. Infine il regolamento approvato nel luglio 2023, che prevede la produzione massiccia di munizioni e missili destinati all’Ucraina o agli armamenti nazionali sforniti per via degli aiuti a Kiev. Le risoluzioni non hanno peso, essendo puramente declamatorie, ma i regolamenti sono ben altra cosa: diventano automaticamente legge europea, da applicare in tutti gli Stati membri.

La svolta verso l’Europa militarizzata, punta di diamante di una Nato in espansione, avviene con questo regolamento, che stanzia 500 milioni di euro per fabbricare un milione di proiettili l’anno in sostegno di Kiev. Quasi tutto il Pd vota a favore. È contrario un deputato, Smeriglio, e cinque si astengono. Passa perfino il paragrafo che prevede il finanziamento del riarmo con i soldi del Fondo europeo di coesione sociale e territoriale e forse del Pnrr: sono risorse sottratte allo stato sociale (sanità, istruzione, clima).

Schlein aveva insistito sulla cancellazione del paragrafo, ma non aveva istruito i suoi parlamentari su quel che c’era da fare se non venisse cancellato. Risultato: hanno votato contro il regolamento solo i 5 Stelle, gli unici che possono dirsi progressisti, accanto alla sinistra del gruppo Left. Va detto che i pentastellati hanno subito emorragie gravi, in due legislature: alcuni sono migrati verso i Verdi, il vicepresidente del Parlamento Castaldo è addirittura migrato verso Renew. Isabella Adinolfi è con Forza Italia nel gruppo dei Popolari.

Giungiamo infine alla risoluzione dello scorso febbraio sui missili a lungo raggio da inviare in Ucraina, dopo la controffensiva fallita di Zelensky. Per l’ennesima volta non si chiedono negoziati ma ancora più armi per riconquistare tutti i territori, Crimea compresa. Stavolta nessun dissenso nell’ex sinistra. Il Pd vota compatto per il riarmo di Kiev e per l’Europa roccaforte contro la Russia. Gli eurodeputati restati nel M5S si oppongono. La “maggioranza Ursula” scricchiola, ma già conta sulla stampella Meloni (gruppo Conservatori).

Una sinistra classica potrebbe votare contro il riarmo europeo, in memoria degli errori commessi nel 1914, quando gran parte del socialismo europeo votò i crediti di guerra (in Germania si opposero Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, prima di essere ammazzati). Ieri come oggi, non c’era che il Papa a denunciare l’“inutile strage”. Oggi come ieri, entra in scena l’interventismo di sinistra.

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Guai a chi osa toccare il totem “Europa”

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 28 dicembre 2023

Da quando sono apparse in Italia le prime critiche forti dell’Unione europea, e di uno sfacelo che va ben oltre la vicenda del Mes, i benpensanti sono in allarme. Militano a destra, nel centro, nell’ex sinistra Pd.

Nei grandi giornali hanno la penna pronta e la supponenza facile, perché l’Unione che pensano e piantonano non è un progetto che evolve ma un totem immobile, non perfettibile, antenato mitico che si venera sempre allo stesso modo, come se il mondo non cambiasse di continuo. Il totem è indifferente ai contesti e alla storia. Spiega il dizionario De Mauro che totem vuol dire “segno del clan”: grazie a esso “i membri del gruppo si riconoscono parenti”.

La bocciatura parlamentare del Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes) è solo l’ultimo episodio di quello che gli editorialisti dei principali giornali denunciano come sacrilego assalto al totem. L’Europa “è naturaliter il nostro orizzonte morale e valoriale”, si legge nei commenti, oppure: “Sovranisti di destra e populisti grillini si ritrovano nella stessa trincea (…) l’identità europea è il vero spartiacque fra le nostre forze politiche”. Non viene spiegato cosa significhi orizzonte valoriale: quali siano i princìpi in una Comunità che li sta calpestando in massa, e non a caso preferisce parlare di valori anziché di diritto esigibile. Né è afferrabile l’identità europea, non identificato oggetto vittima di guerre di trincea.

Intanto andrebbe chiarito un punto sul Mes, omesso ieri alla Camera dal ministro Giorgetti: fin da quando nacque, nel 2012, il Meccanismo fu concepito come dispositivo intergovernativo. Essendo esterno all’Unione, il suo mandato non è la difesa di un comune interesse europeo. Commissione e Bce disciplinano gli Stati assistiti e impongono vincoli che non mutano – tagli a spese sociali, disuguaglianze, privatizzazioni – ma sono solo esecutori. Il Parlamento europeo è estromesso. Come disse l’economista Giampaolo Galli nel 2019, i poteri molto ampli del meccanismo “si sovrappongono a quelli della Commissione sull’intera materia dell’analisi e valutazione della situazione economica e finanziaria dei Paesi dell’eurozona, non solo di quelli sottoposti a un programma di aggiustamento”.

Naturalmente il Parlamento italiano poteva ratificare la riforma del Mes senza pagare prezzi, visto che ratificare non significa chiedere prestiti. Se non lo ha fatto, e la riforma è stata bocciata da un’inedita maggioranza Fratelli d’Italia, Lega, M5S, è perché il contesto della ratifica è stato giudicato insoddisfacente: il giorno prima il Consiglio europeo aveva varato un nuovo Patto di Stabilità piuttosto rigido, ma approvato da Roma perché “migliore del precedente” anche se “peggiore della proposta della Commissione” (parola di Giorgetti). Ma se era migliore perché il No di Meloni al Mes?

Il Patto rinnovato mette in realtà un termine al comune indebitamento europeo, che Conte ottenne con grandi sforzi negoziali durante la pandemia, che rivoluzionò il dogma secondo cui l’“ordine in casa propria” va anteposto alla solidarietà, e che assegnò all’Italia ben 209 miliardi. La rivoluzione è finita, la Restaurazione ordoliberista torna a regnare restituendo al mercato lo spazio perduto: questa l’iniqua scelta di un’Unione che con l’arma dell’austerità ha già immiserito e umiliato la Grecia, nel 2009-2019. Dei tre protagonisti della troika, solo l’ex presidente della Commissione Juncker ha pronunciato un mea culpa (“Abbiamo calpestato la dignità dei Greci”). Olivier Blanchard del Fondo Monetario Internazionale ha ammesso un “peccato originale”. Unico privo di rimorsi: Mario Draghi che dirigeva la Banca centrale europea. È elogiato perché con tre parole “salvò l’euro”. Non si dice mai a che prezzo, per il welfare e la dignità degli Stati “salvati”. Gli anni del debito comune non sono una rivoluzione europea per Giorgetti, ma “quattro anni di allucinazione psichedelica” indotta dal debito italiano facile.

È da qualche tempo che la parola contesto è equiparata a eresia anti-europea. È eretico indicare il contesto – cioè le radici – dell’aggressione russa all’Ucraina (veto di Washington e Nato alla neutralità di Kiev) o della violenza di Hamas (rapporti rovinosi Israele-palestinesi). Così per quanto riguarda il Mes. Meloni ha detto più volte che la riforma andava vista “nel contesto” di un Patto di Stabilità meno castigatore. Non senza ragione: accettare centri di controllo paralleli all’Ue è pericoloso, se contestualmente non si punta all’indebitamento comune. Patto e Mes aggiornati certificano l’impossibilità di un’Unione fondata sulla solidarietà, che preceda i “compiti da fare in casa”.

Il guaio è che né Meloni né Giorgetti hanno mostrato di sapere cosa dicono quando difendono, ma poi dimenticano, l’idea di contesto: né su Ucraina, né sulla sovranità limitata dalla Nato, né infine, oggi, sul controrivoluzionario nuovo Patto di Stabilità, nato da un accordo fra Parigi e Berlino senza sostanziali interferenze italiane. Senza che Macron mantenesse la promessa di fronteggiare con noi i falchi dell’austerità europea. Contrariamente a quanto proclamato da Meloni, l’Italia non ha “ottenuto moltissimo”. I vincoli non solo restano ma si moltiplicano, i controlli concedono qualche esenzione ma sono onerosi, la sovranità solo sbandierata a destra è sbrindellata. Solo per tre anni ci sarà un po’ di flessibilità (riduzione annuale del debito dello 0,5 per cento del Pil, poi dell’1,5). Sono gli anni del governo Meloni. Si può solo sperare in emendamenti incisivi, quando il Patto sarà votato dal Parlamento europeo. Quanto al sovranismo, c’è da sperare che cessi di essere un insulto mai approfondito.

Si capisce il sì al Mes dei neocentristi Renzi e Calenda. Sono gli scimmiottatori di Macron, artefice ultimamente di una legge sull’immigrazione che non ha avuto bisogno dei voti di Le Pen in Parlamento, solo perché aveva assorbito grandissima parte delle idee lepeniste. Macron in Francia è un mito spento. Veramente incomprensibile di contro è il Pd. “Non ci hanno visto arrivare”, aveva detto Elly Schlein, ma nel frattempo è arrivata e non ha ancora scelto se liberarsi della fallimentare Terza via di Blair, Renzi, Enrico Letta. Prodi si augura che Schlein diventi il federatore del centrosinistra allargato, senza intuire che missione primaria del segretario, al momento, è federare il Pd. Missione per ora incompiuta. Schlein non sta creando un Pd diverso, pur volendolo intensamente. Difende i diritti, il salario minimo, i migranti, ma ammutolisce in Europa sull’ordoliberismo di stampo tedesco, sulla Nato, sulle guerre. I socialisti nel Parlamento europeo, italiani compresi, non hanno mai condannato l’umiliazione della Grecia, avendo sempre anteposto l’alleanza coi Popolari. Ma soprattutto: se si esclude il Movimento di Conte, difficile che i partiti azzardino critiche radicali e non occasionali all’Unione. Basta un momento di lucidità, sullo sfacelo europeo, e subito partono le mitragliatrici degli affratellati guardiani del totem.

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Anatomia mancata del tracollo Pd

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 1° giugno 2023

È vero quel che dice Elly Schlein sulla disfatta del centro-sinistra alle elezioni amministrative: “Non si cambia il Pd in due mesi, il cambiamento non passa mai da singole persone. C’è molto da fare a sinistra. È un lavoro di squadra”.

Ma ci sono verità che se le ripeti si trasformano in manovre di escamotage. La squadra del cambiamento non c’è e il giglio magico di Schlein si limita a inveire contro Meloni, offre slogan e non idee proprie. E poi il cambiamento è spesso fatto da singole persone, lo sappiamo.

Quel che drammaticamente manca è l’analisi più che l’ammissione passiva-aggressiva della sconfitta, e lo sguardo autocritico sulla progressiva metamorfosi di un Pd che per 15 anni – sotto la guida di Veltroni, D’Alema, Renzi, Letta – ha rinunciato all’identità e al radicamento dell’ex Pci e dei cattolici di sinistra, nell’ansia di saltare l’era Brandt e apparire forza centrista, ligia all’Europa dell’austerità e alla scelta atlantica di riaccendere la guerra fredda contro l’Asse del Male impersonato da Putin aggressore in Ucraina e in prospettiva da Pechino. Per questo è ex sinistra e non sinistra. Al Parlamento europeo l’ex sinistra sposa le tesi del centro-destra: su Ucraina e sull’aumento degli aiuti militari, anche se finanziati spudoratamente con i soldi del Pnrr. Si dissocia ogni tanto qualche europarlamentare Pd, fin qui mai appoggiato dalla propria direzione. Fuori tempo massimo, ieri Schlein si è detta contraria non all’invio di armi, ma all’uso a scopi militari del Pnrr. Si vedrà oggi se gli europarlamentari Pd seguiranno la troppo tardiva direttiva Schlein, quando si voterà su Ucraina e Pnrr.

Giuseppe Conte queste cose le sa, e giustamente preferisce per ora separare il suo Movimento dal Pd, per meglio affrontare le elezioni europee del 2024 dove si vota con il proporzionale. Nel Parlamento europeo i 5 Stelle hanno idee spesso diverse dai socialisti, votano contro risoluzioni e direttive che rinfocolano una guerra fredda che rischia anche nel Kosovo di sfociare in conflitto per procura. Sono più esigenti dei socialisti anche sull’austerità economica, che l’Ue potrebbe reimporre dopo il Covid.

Ma anche per i 5 Stelle son giorni amari. Ogni volta che c’è un’elezione locale, i commentatori ripetono la stessa litania, peraltro corretta: il Movimento non ha radici, non ha classi dirigenti che curino i territori. Tra i motivi per cui non le ha, spicca il dogma del limite ai due mandati: un tabù. Impossibile in queste condizioni – dettate da Grillo – far nascere classi dirigenti affidabili perché durature. Il limite dei due mandati, l’appoggio al governo Draghi scambiato dal fondatore per un compagno grillino: questa l’eredità da cui Conte pur volendo non riesce ancora a emanciparsi.

Ma il punto cruciale è il disastro mentale che Pd e Conte non sanno sanare. È l’idea, ricorrente nei commenti di Schlein, che tutto quel che accade – disfatta a sinistra, smantellamento del welfare, impotenza sul clima – sia ascrivibile a una legge naturale ineludibile e non sia opera dell’uomo, politico o economico che sia. Ha detto la segretaria del Pd, credendo di spiegare l’esito del voto: “La sconfitta è netta, il vento a favore delle destre è ancora forte. È evidente che da soli non si vince”.

È significativo che pochi giorni prima Achille Occhetto, massimo sostenitore di Schlein, avesse proferito parole inaudite ma non dissimili sull’alluvione in Romagna: “È stato il Signore che ha creato la terra che da tempo vedeva questi ragazzi che con la vernice lanciavano allarmi ma erano inascoltati. E allora il Signore ha detto: ‘Ci penso io a fare capire chi non vi ascolta’. E ha fatto come quando mandò l’invasione delle cavallette: in tre giorni ha inviato la pioggia di sei mesi”.

Se è stato il Vento, se è stato Dio, non esistono macchie nelle scelte del Pd che Schlein pretende riportare a sinistra, non ci sono responsabilità da assumere: comprese le sue responsabilità di vicepresidente dell’Emilia-Romagna incaricata del Patto per il Clima e del Welfare (quindi della cura del territorio, del dissesto idrogeologico legato alla cementificazione della Romagna, dei soldi non spesi per la manutenzione dei fiumi).

Nessuna differenza dall’ideologia di Meloni, che esalta patria e famiglia considerandole costitutive di quella che chiama “società naturale”. Analogamente al Pd che evoca i Venti e Dio, Meloni ha evocato la Natura, il 30 maggio in un convegno organizzato da Marcello Pera, noto per esser stato già nel 2005 fiero avversario di un’Italia e un’Europa “meticcia”, vittima – si dice oggi – di sostituzioni etniche: “Ho sempre pensato – così Meloni – che tanto la Nazione quanto la Patria fossero società naturali, cioè qualcosa che è naturalmente nel cuore degli uomini […] e prescinde da ogni convenzione. Esattamente com’è una società naturale la famiglia”. Una società naturale non si cambia.

Insensato lamentare l’assenza di “venti di sinistra”. È l’idea del vento e di Dio che punisce i romagnoli che è perversa, o diabolica visto che la teologia politica ci sommerge. La società naturale che “prescinde da ogni convenzione” – Costituzione, leggi internazionali – accantona la società politica e storica. Esclude la responsabilità dei politici, e a sinistra imbavaglia la ricerca di un’identità miseramente abbandonata da quando il Pd abbracciò la Terza Via, screditata dall’austerità e da rovinose guerre di regime change: la via di Blair, Schröder, Clinton, Obama, che sciaguratamente affonda la socialdemocrazia e la distensione di Willy Brandt. Un triste salto della quaglia, nella storia dell’ex Pci. Due Dèi, quello biblico ed Eolo Dio dei Venti, sono alla guida di un’Italia senz’alcuna sovranità se non quella detta “valoriale”. A patire le giuste punizioni divine sono i cittadini che ora hanno le scarpe nel fango.

I cittadini castigati si aggiungeranno ai milioni che non votano più, e che già sono una maggioranza. A loro converrebbe rivolgersi, non limitandosi a inveire contro Meloni ma osando un’anatomia del tracollo. L’ennesimo appello al “campo largo” di sinistra è inane se Schlein si paralizza davanti al Terzo Polo, questo grumo scomposto che s’ostina a imitare Macron, il distruttore dei socialisti. Macron in Francia naufraga, e sta mimetizzandosi con discorsi sempre più retrogradi sulla “de-civilizzazione” delle proteste sociali.

Pericolosa è l’idea di una società naturale governata da Dèi, che d’un tratto accomuna i nostri partiti. Conferma che l’escamotage e la fuga dalla realtà sono sintomi della sovranità limitata cui l’Italia si sente ed è condannata dal dopoguerra: limitazione bene evocata nel 2019 da Carlo Galli (Mulino) e oggi da Luciano Canfora (Laterza). Sui temi che contano di più – guerra, invio di armi, fisco che favorisce evasori, precariato – il principale partito di opposizione dice poco o niente.

E certo Schlein è appena arrivata, bisogna darle tempo, già così viene considerata un’estremista. Ma se arriva per dire che le “scelte già prese” sono intoccabili (è quanto ha affermato il 19 aprile sul termovalorizzatore a Roma) non si vede per far che sia arrivata. Se il Pd parla di Venti e di Dio aderendo di fatto alla “società naturale” di Meloni e all’austerità da anni presentata dall’establishment come legge naturale, allora decisamente Godot non è arrivato, nonostante tante sempre più fioche attese.

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Perdere le elezioni: l’operazione Letta

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 7 agosto 2022

Prima ancora che cominci la campagna elettorale possiamo dare per scontate due cose: la vittoria delle destre e con essa lo stravolgimento presidenzialista della Costituzione, ottenibile con una maggioranza di due terzi senza bisogno di referendum.

Tutto fa pensare che il guazzabuglio elettorale confezionato da Enrico Letta lo sappia, l’accetti, forse perfino lo voglia. Che il Pd finga di voler vincere, quando invece si è tramutato non solo in partito centrista ma in un ufficio di collocamento che spartisce seggi con partitini affamati di posti e visibilità in TV. Come nel 2008 quando Veltroni affossò il governo Prodi e oppose all’Ulivo la “vocazione maggioritaria” del Pd, con l’intento/speranza di divenire primo partito italiano ma perdendo clamorosamente le elezioni.

Se così non fosse, se esistesse una coalizione dotata di un minimo di realismo e decisa a combattere seriamente le destre, la storia del dopo-Draghi non sarebbe sfociata nelle scemenze di questi giorni, che alcuni nobilitano chiamandole suicidio. Innanzitutto Letta avrebbe ripreso i contatti con Conte, non insisterebbe nel giudicare imperdonabile un atto di sfiducia che senza lo strappo di Lega e Forza Italia non avrebbe privato Draghi della maggioranza, non avrebbe adescato con qualche seggio Bonelli e Fratoianni (il quale di sfiducie ne ha espresse cinquantacinque) dando a credere che incorporando Fratoianni si allarga a sinistra. Dal vicolo cieco di veti e controveti si poteva uscire imboccando la via di un’alleanza elettorale fra diversi, Conte compreso, e però unita da un pensiero dominante: proteggere la Costituzione da sovvertimenti più volte bocciati dagli italiani. Nel guazzabuglio mancano sia il principio di realtà sia il pensiero dominante.

Ma soprattutto, il Pd non avrebbe scritto con Calenda il patto politico-ideologico che vede un partitino e un leader dai toni sguaiati esercitare un’inaudita egemonia culturale sul Pd. Ora si capisce come mai Letta si sia incaponito per mesi a definire “largo” il campo con 5 Stelle, rifiutando l’aggettivo “progressista” preferito da Conte o Bersani. Perché già lavorava a un neocentrismo che non contemplasse più la divaricazione fra destra e sinistra (fra Agenda Draghi e Agenda Sociale) ma introducesse uno spartiacque perdente: lo scontro di civiltà.

Lo spartiacque di Letta e Calenda si adatta alla seconda guerra fredda: da una parte gli “europeisti-atlantisti”, che abbracciano incondizionatamente il riarmo anti-russo deciso da Washington e Nato; dall’altra i “putiniani”, di destra e 5 Stelle, che secondo Letta e Calenda si accingerebbero anche a disfare un’UE già parecchio disfatta per conto suo. Draghi sarebbe stato addirittura silurato dal Cremlino, come ha scritto «La Stampa» per via di una domanda piuttosto banale rivolta da un funzionario dell’ambasciata russa a un rappresentante leghista (“La Lega intende uscire dal governo Draghi?”).

Non a caso Letta ha evocato come riferimento le elezioni dell’aprile 1948. Riferimento ominoso, visto che anche allora si sbandierò uno scontro di civiltà: i comunisti italiani, con cui fino a gennaio si era scritta la Costituzione, venivano dipinti nei manifesti elettorali come scheletri vestiti con l’uniforme dell’Armata Rossa.

Un altro elemento dello spartiacque centrista è rappresentato dall’apologia dell’Agenda Draghi. Subito dopo la caduta del governo il PD l’evocò con prudenza, ma su spinta di Calenda l’Agenda è ora il nerbo del patto fra i due autoproclamati frontmen della campagna (Letta e Calenda), accendendo paturnie ininfluenti in Fratoianni che entra nel cartello spacciandolo per centro-sinistra. Saranno draghiani “il metodo e l’azione” – dice il patto con Calenda – e l’adesione incondizionata alla Nato contro Russia e Cina.

La scommessa di Letta, e ovviamente di Calenda, è che il mini-partito Azione diventi maxi pescando voti a destra. Scommessa inane: le destre sarebbero forse indebolite, almeno al Senato, all’unica condizione di un fronte con 5 Stelle. A Calenda Letta ha regalato uno spazio un po’ meno sproporzionato nei collegi uninominali (24% invece dei 30 promessi) e i camaleonti Di Maio, Gelmini, Carfagna ricevono regalucci. Fratoianni e Bonelli, ottusamente inghiottendo i controsensi di Letta (“Siamo separati ma compatibili… questo patto non è di governo”) si sono infine accontentati di porticine di servizio. “Senza intesa parliamo con Conte”, suonava per qualche ora il ricatto di Fratoianni, non seguito da Bonelli che è fervente atlantista come tutti i Verdi europei.

Col passare dei giorni appare probabile che Draghi sia stato il vero artefice dei presenti garbugli, avendo voluto dimettersi a ogni costo nonostante disponesse di una maggioranza solida e assecondato da Mattarella. I motivi, scrive Giovanni Di Corato nel blog Econopoly, sono sia geopolitici sia economici. Sempre più italiani son contrari all’invio di armi all’Ucraina, dunque meglio andare al voto subito invece che fra un anno, specie se la guerra continua e se Washington apre un secondo fronte contro Pechino, dopo la dissennata visita di Nancy Pelosi a Taiwan.

Intrecciata con la geopolitica c’è poi l’economia: Draghi prevede nuvole, ma sarà uragano. Perfino Giorgia Meloni è in allarme, dice che Draghi “è fuggito”, chiede tramite Guido Crosetto patti anti-crisi con l’opposizione futura. L’Agenda Draghi è fedele al neoliberismo; liberalizza i contratti precari sottopagati; ha scritto riforme della giustizia che intaccano l’autonomia della magistratura e accorciano arbitrariamente i processi; smantella le misure sociali introdotte dai governi Conte (reddito di cittadinanza, decreto dignità, superbonus per l’edilizia). Quanto al salario minimo, il ministro Pd Orlando non fissa cifre e chiede accordi preliminari con le parti sociali, fin qui contrarie o riluttanti. Il disegno di legge sulla concorrenza, infine, liberalizza senza vincoli normativi, a cominciare dai trasporti Uber e dalla privatizzazione dell’acqua, respinta in tre referendum. L’aumento delle spese militari colpisce settori come sanità, scuola, ricerca, e il Welfare inviso alle destre. Nessuna considerazione, infine, per le proteste bipartisan contro il rigassificatore a Piombino, piazzato alle banchine del porto e non a 22 km dalla costa come a Livorno.

Calenda arriva a dire: sì a rigassificatori e termovalorizzatori, “se necessario militarizzando le aree”. Se questi sono i piani e il linguaggio del neo-centro, a opporsi da sinistra non resta che il “campo giusto” di Conte.

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Letta, tutti i silenzi del centrismo Pd

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 27 luglio 2022

Prendendo la parola ieri nella direzione del Partito democratico, Enrico Letta ha evitato di menzionare l’Agenda Draghi, intuendo forse che il termine non raccoglie i consensi inizialmente immaginati: non significa nulla, per la contraddizione che nol consente.

L’Agenda Draghi è sostanzialmente vuota perché l’ex presidente del Consiglio guidava una coalizione tra posizioni a tal punto contraddittorie che ogni riforma progressista era impossibile, a cominciare dalla giustizia fiscale. Le uniche “riforme” sono state quelle della giustizia: un regalo a chi piange in pubblico Falcone e Borsellino e dietro le quinte si adopera per distruggerne l’eredità. Secondo l’Unione europea le due riforme mettono a rischio “l’efficacia del sistema giudiziario”, specie “in relazione alla lotta alla corruzione”, e rischiano di “compromettere l’indipendenza del sistema giudiziario”.

Ma l’omaggio alle virtù di Draghi è ricorrente e accanito, nel discorso di Letta: quando accusa il “trio dell’irresponsabilità” di “tradimento dell’Italia” (il M5S accomunato a Lega e Forza Italia); quando dice che per colpa del trio i lavoratori italiani non riceveranno la mensilità in più che Draghi prometteva (ma che può ancora garantire), non otterranno misure contro la precarietà né i diritti civili (di cui peraltro il governo non si occupava, come ha rivendicato lo stesso Draghi in Parlamento). Non otterranno nemmeno il piano Orlando sul salario minimo, che però non fissa cifre ed è un mezzo imbroglio. Precariato e povertà non figurano nell’Agenda Draghi. Se ne era occupato in passato il governo Conte – col decreto Dignità e il Reddito di cittadinanza, che ha salvato un milione di persone dalla povertà e ne ha aiutate in tutto oltre 4,5 milioni – ma le misure sono state deturpate. Finito Draghi, per il Pd è la caduta nell’abisso: fa impressione l’adesione di chi pretende di rappresentare le classi popolari a un governo che per 17 mesi ha gestito compromessi al ribasso tra Pd, 5 Stelle, sinistra bersaniana e destra (anche sull’ultima ondata del Covid: un funesto fallimento di Draghi).

La compromissione con le destre è il programma dell’ex-sinistra rappresentata da Letta, che non casualmente invita i militanti a guardare al futuro anziché “salvaguardare il patrimonio del passato”. Anche perché lui, venendo da Dc e Margherita, quel patrimonio l’ignora. Come potrebbe d’altronde condividerlo, visto che annuncia la fine del campo largo (ha sempre schivato l’aggettivo progressista, preferito da Conte e Bersani) e promette un nuovo campo, contrassegnato da “liste aperte ed espansive”. Ogni alleanza è preclusa con i tre Traditori: Conte in primis, Salvini e Berlusconi. Braccia apertissime invece a ogni sorta di centristi – soprattutto Calenda, forse Renzi che però rischia di fargli perdere voti, e gruppetti in bilico fra destra e centro tra cui i disillusi di Berlusconi come Brunetta e Gelmini, da sempre neoliberisti in economia. Braccia aperte inoltre a Bersani o Fratoianni, che non osano prendere le distanze da quella che era sinistra ed è ora palesemente ex-sinistra (ma Fratoianni, rispetto al governo Draghi, era all’opposizione: altra bella contraddizione…).

La parola d’ordine di Letta sembra netta: “Noi contro Loro” (cioè contro Meloni). “Come nel 1948”, aggiunge, facendo propria la demonizzazione isterica dell’avversario comunista che caratterizzò quelle elezioni. Ma l’occhio di tigre e i colori netti di Van Gogh che prefigura, anche facendo grandi sforzi non si riesce a percepirli. L’esclusione tassativa di Conte dal campo progressista gli costerà parecchi voti, in collegi uninominali dove vince chi arriva primo. Forse meglio così (entrambi perderebbero voti), ma il No di Letta toglie comunque nerbo alla sua campagna. D’altronde come scorgere il nerbo – l’occhio di tigre – in un discorso programmatico che evita di indicare nel dettaglio i pericoli di una vittoria di Meloni-Salvini-Berlusconi, eludendo l’essenziale: le questioni sociali, l’astensionismo delle classi più povere, infine la politica di distensione e di pace che costituiscono il patrimonio delle sinistre di cui Letta vuol sbarazzarsi. L’abbandonato campo di sinistra potrebbe trovare oggi una rappresentanza in Conte, smuovere astensionisti e delusi del Pd, e fare quello che preannuncia Letta: “Risvegliare la politica”. È un cammino difficilissimo e tardivo per il M5S, ma tentare la risalita vale la pena.

Il pericolo di una destra vittoriosa – per ora a guida Meloni– è in primissimo luogo la riscrittura della Costituzione, come giustamente osservato da Antonio Floridia sul «manifesto», che suggerisce non già il campo progressista definitivamente affossato, ma almeno un accordo tecnico Pd-5 Stelle. Una volta al governo con una forte maggioranza, la destra riuscirebbe a ottenere il consenso di due terzi dei parlamentari (compresa una consistente porzione del centrismo raccolto attorno a Letta) e cambiare a sua guisa la Carta costituzionale senza nemmeno dover ricorrere al referendum. A questo rischio – il più grave – Letta non ha fatto minimamente accenno, non nominando mai la Costituzione per non urtare Renzi, Calenda e i tanti Pd che votarono sì alla “riforma” Renzi-Boschi.

Stesso silenzio sulle riforme della giustizia criticate dall’Unione europea e un accenno del tutto sommario alla guerra in Ucraina, dopo aver accusato tutti i “traditori” di Draghi –nei giorni scorsi– di essere putiniani. Letta resta profondamente atlantista, da mesi usa toni decisamente neo-con e non ha mai visto l’Unione europea come un soggetto autonomo i cui interessi non coincidono con quelli statunitensi e atlantici. Culturalmente non è legato alle battaglie socialdemocratiche per la distensione con la Russia: una tradizione che ancora sopravvive in alcuni esponenti tedeschi (tra cui il presidente della Repubblica Steinmeier). Nella campagna elettorale, il Pd tornerà a chiedere più aiuti militari all’Ucraina, in contrasto con quello che vuole la stragrande maggioranza degli italiani nei sondaggi.

Infine la questione sociale, su cui Letta si è opportunamente soffermato, ma senza specificare quel che pensa sul Reddito di cittadinanza, sull’aumento della povertà assoluta e relativa ripetutamente evocata da Domenico De Masi, sul precariato che non cessa di crescere, sulla giustizia fiscale mai attuata. Senza criticare, infine, le nebulose proposte di Draghi sul salario minimo.

Letta prospetta una vittoria del suo campo espansivo e incita a “scrivere una pagina dove nessun destino è già scritto”. È vero, nessun destino lo è. Ma una campagna che demonizza Giorgia Meloni senza spiegare in cosa precisamente consista il pericolo per la Costituzione e per la società rischia di ingessare il destino senza poterlo scuotere.

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Gli appelli a Draghi e il populismo delle élite servili

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 21 luglio 2022

Chiedendo al Parlamento un “nuovo patto di fiducia”, ieri al Senato, Mario Draghi ha usato toni talmente sprezzanti verso i partiti (5 Stelle in primis, ma anche Lega e Forza Italia) che alla fine ha subito una vistosa sconfitta. Non è chiaro se fosse questo il calcolo, se la sua proposta di rifondazione del patto fosse un bluff. È una decisione che Draghi ha motivato con un’argomentazione al tempo stesso singolare e insolente verso il Parlamento. Chiedendo ai parlamentari se fossero pronti a una ricostruzione del patto ha concluso il suo intervento così: “Sono qui, in quest’aula, solo perché gli italiani lo hanno chiesto. Questa risposta a queste domande non la dovete dare a me, ma la dovete dare a tutti gli italiani”.

Parlamento e partiti servono per la fiducia ma le loro esigenze sono svilite, sia quelle dei 5 Stelle sia quelle della Lega. I molti appelli (sindaci, accademici, imprenditori) che hanno implorato il presidente del Consiglio di non andarsene si sostituiscono nella mente di Draghi al suffragio universale, ai sondaggi, perfino al voto delle Camere. Il rapporto di fiducia Draghi ha immaginato di poterlo stringere direttamente col quello che ritiene essere il popolo italiano nella sua interezza, come fanno i capi di Stato nelle monarchie repubblicane. Alcuni parlano di populismo delle élite. Sembra un ossimoro ma non lo è. Il populismo delle élite ripete da anni che la politica è un disastro e il suffragio universale un azzardo pericoloso. La scommessa sugli omaggi di sindaci e imprenditori è stata contrassegnata da dismisura ed è naufragata.

Quel che più colpisce, negli appelli pro-Draghi, è la totale indifferenza alle richieste avanzate da Giuseppe Conte in nome del Movimento 5 Stelle. Erano richieste che avevano un filo conduttore: la questione sociale e la riconversione ecologica. Erano domande essenziali che esigevano risposte concrete e non i dinieghi rabbiosi offerti ieri dal presidente del Consiglio (su Reddito di cittadinanza, Superbonus, salario minimo, precarietà).

Spesso sono domande e critiche espresse anche dall’Ue, come l’introduzione del salario minimo, le politiche contro la precarietà e la povertà, la riforma della giustizia che introduce l’improcedibilità dei processi e che secondo il procuratore Gratteri “risponde agli auspici del papello di Riina”.

Ma chi ha firmato gli appelli non ha contemplato neppure da lontano la necessità di risposte chiare di Draghi sui drammi sociali menzionati da Conte: non era questo che domandavano, ma un regolamento dei conti che frantumasse e togliesse di mezzo i destabilizzatori che fanno capo a Conte. Nel mirino di Draghi non c’era solo il M5S: tutti i partiti che si preoccupano dei propri elettori sono stati oggetto di biasimo da parte dell’effimero monarca di Palazzo Chigi, a cominciare da Lega e Forza Italia che avevano puntato su una coalizione completamente nuova, senza 5 Stelle. Sotto tiro sono la dialettica democratica e i partiti in quanto tali che ancora una volta – come quando Conte fu silurato, o Mattarella rieletto presidente – vengono giudicati rovinosi, soprattutto quando vogliono esistere. Stiamo per perdere il tecnico mondialmente più rinomato, piangevano gli appelli e gran parte della stampa, e il buio era alle porte.

Il colmo lo ha raggiunto Antonio Scurati, in una lettera a Draghi sul Corriere del 17 luglio: lo scrittore gli ha chiesto di “umiliarsi”, e di “scendere a patti con la misera morale che spesso, troppo spesso, accompagna la condizione umana dei politicanti”. Gli ha chiesto di scendere dalle “vette inarrivabili” della “vertiginosa responsabilità” esercitata in passato e di “battersi nelle fosse della politica politicante dove il combattimento è quasi sempre brutale, rozzo, sleale e meschino”. La diagnosi conclusiva: Draghi è “spinto alle dimissioni da un accanito torneo di aspirazioni miserabili, da sudicie congiure di palazzo, da calcoli meschini, irresponsabili e spregiudicati di uomini che, presi singolarmente, non valgono un’unghia della Sua mano sinistra”. Nessun altro appello ha raggiunto tali vette di impudenza, ma tutti chiedono fra le righe l’uomo forte che – nelle crisi multiple che viviamo – sgomini la fossa dei dissensi e delle obiezioni. Forse l’eguaglia solo l’appello del vicepremier ucraino Iryna Vereshchuk: “Con leader come Mario Draghi vinceremo questa guerra che si consuma non in Ucraina ma nel continente europeo”.

Con l’eccezione di alcuni rappresentanti del Pd, e di politici come Bersani, il partito di Letta e gran parte della stampa hanno condiviso questa strategia di occultamento della questione sociale-ecologica e della battaglia contro ulteriori invii di armi all’Ucraina, che sono al centro delle richieste di Conte. Confermano quello che i più avveduti sanno: il Pd non è più sinistra, ma ex-sinistra. La sinistra è un campo disabitato che Conte potrebbe occupare, se non fosse una formazione gravemente frantumata e se si fosse staccata prima dal governo.

L’elenco di quel che potrebbe accadere dopo Draghi è copioso e inaudito, secondo gli appelli: sfracello del Piano di ripresa e resilienza innanzitutto (i motivi non sono mai indicati), caos e allarme dei mercati, inflazione e prezzi dell’energia alle stelle (verrebbe meno il tetto ai prezzi energetici chiesto dal governo, non approvato dall’Ue) e non per ultimo, disallineamento dell’Italia dall’Unione europea e dalla Nato.

Anche qui abbondano calunnie e disinformazioni. Conte avrebbe il sostegno di Putin, che manovra per destabilizzarci. Nessuna risposta viene data alla domanda centrale di Conte: “La nostra partecipazione a questi consessi (Nato-Ue) si inscrive nella logica esclusiva di uno ‘stare allineati’, oppure c’è la determinazione a rendere l’Italia protagonista, insieme agli alleati, di una linea geopolitica che impedisca una insanabile frattura, con un mondo diviso in due blocchi: da un lato i Paesi occidentali, dall’altro lato il resto del mondo?”. È una domanda legittima, se si considera che Draghi è sempre accostato a Parigi e Berlino, nonostante il suo abissale silenzio sulle riserve e preoccupazioni di Macron e Scholz.

La “sudicia congiura” denunciata da Scurati non era dunque contro Draghi, ma contro Conte. Ha finito col mandare in rovina anche il consenso del centrodestra, e ora mette in forse il campo progressista fra Pd e 5Stelle, Articolo 1, Leu. A Letta rimangono per ora Renzi e Calenda, come alleati sicuri. Anche i suoi calcoli, elaborati assieme a Draghi, sembrano sfociare in disastro.

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