Le vere origini del caos bellico

«Il Fatto Quotidiano», 25 giugno 2025

Pubblichiamo l’intervento integrale di Barbara Spinelli di cui ieri è stata letta una sintesi durante la manifestazione organizzata dal M5S all’Aja.

Si ripete che il riarmo UE è la conseguenza dell’intervento russo in Ucraina, nel febbraio 2022. Un intervento che ha radici molto precise, e che né i governi occidentali né la Commissione hanno mai in questi anni riconosciuto e neanche lontanamente pensato. Alla sua radice: la minaccia di un’estensione delle forze e dei missili Nato fino alle porte della Russia, intollerabile per Mosca come lo sarebbe l’installazione di basi militari russe o cinesi alle porte degli Stati Uniti.

La vera svolta, se siamo interessati alla genealogia del conflitto ucraino e del riarmo europeo, è avvenuta dopo la guerra fredda e in concomitanza con l’allargamento dell’Unione all’Est Europa. L’Occidente si comportò da vincitore, e gli Stati Uniti decisero che a quel punto se l’Urss era morta tutto era permesso, a partire dalle sue basi che sono 750 in almeno 80 Paesi nel mondo. Anche la creazione di un “nuovo Medio Oriente” egemonizzato dall’unica potenza atomica della regione, Israele, nacque in quel periodo, quando nel 1996 andò al governo Netanyahu: ben prima dell’11 settembre 2001. Il diritto internazionale è stato messo in questione non nel 2022 ma negli anni Novanta del secolo scorso.

Il risultato è stato che non solo la Nato è restata in piedi (retrospettivamente penso che sarebbe stato saggio scioglierla fin dal 1991, in contemporanea con la fine dell’Urss e del patto di Varsavia) ma è divenuta protagonista di una serie di guerre di regime change, tutte fallite ma sempre ricominciate.

L’Europa ha seguito servilmente quest’operazione di egemonia unilaterale dell’occidente. L’errore più madornale lo ha compiuto con un allargamento all’Europa orientale che è andato di pari passo con l’allargamento a Est della Nato, senza mai distinguere nettamente i due processi. L’Europa si è riunificata sotto l’egida atlantica, e con l’andare del tempo è diventata un unico corpo con la Nato, soprannominato nel frattempo comunità euro-atlantica.

La guerra in Ucraina nasce da questi mancati distinguo, che portano oggi i governi europei a essere più atlantisti degli Stati Uniti: a boicottare i confusi sforzi negoziali di Trump in Ucraina, e a respingere l’idea stessa di una mediazione russa nella guerra contro l’Iran come ventilato dal Presidente al G7. Nessun appoggio europeo, infine, all’appello rivolto a Teheran e soprattutto, con queste parole irritate,  a Israele: “Ritirate i vostri piloti subito!”.

Putin non aveva intenzione d’incamerare tutta l’Ucraina, e tanto meno intende invadere questo o quel pezzo d’Europa, come temuto dall’istinto russofobico di Ursula von der Leyen, di Berlino, Londra, Varsavia, Parigi, capitali baltiche. L’invasione dell’Ucraina nel 2022 era un mezzo per forzare una decisione cruciale per Mosca da vent’anni: l’ammissione che la neutralità di Kiev è necessaria alla pace europea e che la promessa di adesione ucraina alla Nato è stata una provocazione irrealistica oltre che arrogante.

Nel 1990 un’alternativa pacificatrice e profondamente nuova esisteva, e fu offerta da Gorbachev: la creazione di un sistema di sicurezza europeo negoziato con Mosca, una “Casa comune europea” consapevole della divergenza crescente fra interessi geopolitici europei e statunitensi.

A mio parere, quest’alternativa frantumata dalle espansioni Nato resta la più fedele non solo alla domanda di pace espressa oggi dai cittadini europei ma anche alla visione che i fondatori avevano dell’unità fra i popoli e gli Stati europei durante la seconda guerra mondiale e subito dopo. Era un’unità che puntava al superamento dei nazionalismi aggressivi che avevano per secoli trascinato gli Stati del continente in guerre fratricide, e fu concepita perché l’Europa dedicasse tutta la sua attenzione e le sue forze alla creazione di un modello sociale che avrebbe reso più improbabili le guerre. Il Welfare fu pensato dall’inglese William Beveridge durante la guerra, come fu pensato durante la guerra il Manifesto di Ventotene. È pura invenzione non statunitense o atlantica ma dell’antifascismo e antinazismo europeo.

Una delle frasi più raccapriccianti ma sintomatiche pronunciate ultimamente in Europa è quella di Friedrich Merz, dopo la guerra israeliana in Iran e poco prima del raid di Trump: “Israele sta facendo il lavoro sporco per noi tutti. Ho massimo rispetto per Israele che ha avuto questo coraggio”. Poco tempo prima, il 15 maggio, aveva promesso al Bundestag che il suo Paese avrebbe costruito l’”esercito più potente d’Europa”, che la Germania aumenterà le spese militari fino al 5 per cento del prodotto nazionale lordo e che la Russia era una minaccia per Berlino. Merz dice queste cose senza scomporsi, come se nella testa avesse della paglia e non qualche vago ricordo dei 27 milioni di russi morti per liberare il continente da Hitler. La socialdemocrazia che governa con lui governa tace e acconsente.

È come se parlando di Iran il Cancelliere pensasse solo agli affari delle industrie militari: nessuna parola sul genocidio a Gaza, sui centri israelo-americani di avara distribuzione del cibo trasformati in killing fields dove si spara sui Palestinesi affamati e assetati, in un quotidiano videogioco horror. E poi che significa aver rispetto per un lavoro sporco? Se il lavoro è sporco è sporco per chiunque, anche per l’Europa che arma Israele.

Non meno raccapricciante la dichiarazione con cui Mark Rutte, segretario generale Nato, ha perorato il riarmo: “La Nato è l’alleanza difensiva più potente nella storia mondiale, più potente dell’impero romano, più potente dell’impero Napoleone (…) Va trasformata in un’Alleanza più forte e più letale”. Per decenni il dispositivo militare ha finto di essere difensivo, da decenni è offensivo in maniera esplicita. “Smembrare la Russia in tanti piccoli staterelli” era, secondo Kaja Kallas Premier estone, l’obiettivo da raggiungere attraverso la guerra per procura Nato-Federazione russa. Entrata nelle istituzioni UE non l’ha smentito.

Sia chiaro, qui non si tratta di difesa europea, come pretendono UE e la Nato. La difesa comune sarebbe possibile solo se esistesse un esercito che risponde a un unico Stato, oggi lungi dall’esistere. Si tratta di acquistare armi Usa, di partecipare alle guerre decise da Washington. E soprattutto: si tratta di smembrare potenze o Stati attori del nuovo ordine multipolare, uno dopo l’altro: dalla Siria all’Iran alla Cina.

Oggi Trump annuncia tregue nella guerra contro l’Iran, fa capire che vorrebbe distanziarsi da Netanyahu, ma non cambia idea sul diktat israeliano: l’arricchimento dell’uranio ridotto a zero, domanda assente nell’accordo Obama-Teheran che rinnegò nel primo mandato su pressione di Tel Aviv.

Non meravigliamoci se gli Stati che più temono la strategia dello smembramento e le guerre di regime change decideranno – per non esser mai più aggrediti dall’Occidente – di dotarsi dell’atomica che ancora non possiedono.

La nuova supremazia della Germania

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 28 marzo 2025

Andrebbe fatta un po’ di chiarezza sul Piano Riarmo-Europa, che è stato ribattezzato Prontezza 2030 per volontà dell’italiana Meloni e del socialista spagnolo Sánchez e che nella sostanza resta quello che è: l’instaurazione di un’economia di guerra, grazie alla quale gli Stati europei mobilitano 800 miliardi di euro contro i due “nemici strategici” che sono Russia e Cina, oltre a Corea del Nord, Iran, parti imprecisate dell’Africa.

La parola ReArm scompare dal titolo, ma non dal testo, scritto da due baltici: l’estone Kaja Kallas, Alto rappresentante per la politica estera, e il lituano Andrius Kubilius, commissario alla Difesa.

Le minacce russe e cinesi sono molteplici, stando al Libro Bianco Ue: è in pericolo “la libertà d’azione nell’aria e nello spazio”; crescono le “minacce ibride con attacchi informatici, sabotaggi, interferenze elettroniche nei sistemi di navigazione e satellitari, campagne di disinformazione, spionaggio politico e industriale, armamento della migrazione”. Armamento della migrazione è orrenda traduzione di Weaponisation of Migration, migrazione usata come arma dai summenzionati nemici.

Come ai tempi della guerra antiterrorista globale scatenata dopo l’attentato al Qaeda del 2001 (ma pensata anni prima), il nemico esistenziale “minaccia il nostro stile di vita e la capacità di scegliere il nostro futuro attraverso processi democratici”. Quale stile? Se è lo stile basato sulla giustizia sociale e il pluralismo delle idee, il Riarmo lo squassa: il Welfare sarà ancor più decurtato e agli apparati militari-industriali sarà affidata la cosiddetta way of life.

Quanto all’uso russo e cinese della disinformazione, converrebbe andarci piano. Si descrive una “Cina autoritaria che estende il potere sulle nostre economie e società”, e si sottace l’immenso reticolato di influenze/ingerenze occidentali nel mondo. Per i sostenitori di ReArm Europe – termine insensato: lo Stato europeo non c’è, dunque ognuno farà da sé – l’interferenza russa o cinese è guerra ibrida, mentre la planetaria ingerenza occidentale si chiama soft power, “potere soffice”, anche quando rovescia governi come in Ucraina nel 2014, con soldi e violenza, o delegittima esiti elettorali non allineati alla Nato, come quello in Romania del dicembre 2024.

L’ordine da difendere è quello “basato sulle regole” (rules-based order) che dalla fine della Guerra fredda ha violato ogni legge internazionale in difesa di una sola regola: il dominio unipolare Usa sul pianeta, peraltro fallito. Le difficoltà che abbiamo davanti – migrazioni, disinformazioni – non nascono mai a casa nostra. Sono bombe lanciate dall’esterno contro l’immacolato, mite Occidente. Le “fabbriche russe sfornano milioni di fake news al giorno”, ammonisce gridando Roberto Benigni.

Ma la questione centrale è un’altra. Il Piano Riarmo disgregherà l’Unione in modi non subito percepibili, ma fin d’ora evidenti: infatti c’è un solo Stato che può oggi estendere il debito oltre misura, facendosi carico delle ingenti somme destinate a riarmo e infrastrutture (1.000 miliardi di euro): ed è la Germania. Gran parte degli altri, tra cui Roma e Parigi, sono talmente indebitati che l’Ue, sbilanciandosi, rischia la bancarotta. La rischia anche ostinandosi ad armare la guerra di Kiev, proprio mentre Trump tenta la pace, ingiusta come tutte le paci, con Zelensky e Putin.

Macron promette di proteggerci con le atomiche, ma ne ha poche: con 290 testate contro le 6.000 russe non crei gli equilibri della deterrenza. Inoltre il presidente non sa quello che dice, vende la pelle dell’orso senza averlo preso: il prossimo capo dello Stato, nel 2027, sarà un nazionalista. Marine Le Pen, se vince, vuole iscrivere la sovranità inalienabile dell’atomica nella Costituzione.

Dunque la Germania, che nell’originario atlantismo postbellico andava imbrigliata (“Americani dentro, Russia fuori, Tedeschi sotto”), riemerge con serie mire egemoniche. Il cancelliere in pectore Merz non ha aspettato i colleghi Ue per annunciare il proprio piano di riarmo, nel discorso al Parlamento del 18 marzo, e per opporlo a un’aggressività russa data per certa e imminente, contro i tedeschi e il resto d’Europa. Sono d’accordo gli alleati socialdemocratici e i Verdi, che sono i primi spregiatori della Russia di Putin. Nel voto più delicato, il 21 marzo alla Camera dei Länder, la Linke (“Sinistra”) ha votato a favore, con la scusa che parte dei fondi a debito andrà ai governi regionali cui partecipa.

Parlare di abbandono dell’austerità perché il tetto del debito viene sforato è mezza verità. La svolta tedesca frantumerà ancor più l’Europa. E intanto Merz spenderà meno per il reddito di cittadinanza (Bürgergeld) e l’integrazione dei migranti. Infine imporrà il silenzio Ue sulle guerre di sterminio di Israele in Palestina.

È la conferma della rivoluzione mentale iniziata da Scholz con il “cambio epocale” annunciato nel 2022 in tema di difesa (100 miliardi di euro, tre giorni dopo l’assalto all’Ucraina) e dilatato al massimo da Merz. Si conclude così una lunga epoca della nazione tedesca e in particolare della sua socialdemocrazia, che torna alle origini weimariane pre-naziste, quando il ministro della Difesa socialdemocratico Gustav Noske represse varie insurrezioni sociali e seminò migliaia di morti comunisti, tra cui Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht (“Se c’è bisogno di un segugio sanguinario, un Bluthund, eccomi qua”). Il riarmo di Merz è il culmine di un lungo processo iniziato con la supremazia economico-finanziaria tedesca che impose nel 1997 i vincoli del Patto di stabilità, poi si accanì contro la Grecia, umiliando un Paese membro come mai era avvenuto nell’Ue. L’evento è tuttora descritto come “gran successo dell’euro” e del whatever it takes. I greci si pronunciarono in un referendum contro il rigore dell’Ue (privatizzazioni e tagli sociali). Furono tacitati come se non avessero votato.

La regressione tedesca è spettacolare, rispetto agli anni 60 e 70 del secolo scorso. Viene sepolta l’esperienza di Willy Brandt, che dopo anni di arroccamento antisovietico costruì la distensione – la Ostpolitik – e sfociò nel 1973-1975 nella Conferenza sulla sicurezza europea di Helsinki. L’Atto finale della Conferenza obbligava i firmatari, tra cui Usa e Urss, al rispetto dei confini, alla soluzione pacifica dei conflitti, alla non ingerenza nei reciproci affari interni, alla difesa dei diritti umani.

Se l’Atto fosse durato avrebbe sostituito la Nato, quando nel 1991 furono sciolti Patto di Varsavia e Urss. Gli occidentali avrebbero protetto le minoranze russe nell’Europa post-sovietica (nei Baltici, in Ucraina, in Georgia). Non lo fecero. La lingua e i diritti dei russi sono oggi calpestati da Kiev come nei Baltici: il 25% della popolazione lettone è russa e così si dica per il 24% degli estoni e il 4,5% dei lituani.

Se la questione della diaspora russa non sarà risolta, sarà difficile far finta che Mosca abbia attaccato nel 2022 senza mai esser stata provocata, dopo 14 allargamenti della Nato e otto anni di guerra di Kiev contro russi e russofoni del Donbass (14.000 morti).

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Il nemico dell’Europa è il riarmo di von der Leyen

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 6 marzo 2025

Dicono molti commentatori che l’Europa si è fatta infine sentire: lo avrebbe fatto riconfortando Zelensky, dopo lo scontro di venerdì fra il presidente ucraino e Donald Trump, e promettendo un fenomenale riarmo e una guerra fredda a guida europea anziché statunitense.

Parigi e Londra sono pronte a schierare truppe in Ucraina, per garantirne la sicurezza dopo la tregua e l’accordo di pace con Mosca. Per ora Putin è contrario: non ha fatto la guerra per avere eserciti di Stati Nato al proprio confine.

Se questa è Europa, ben vengano le opposizioni al Piano di Riarmo, oggi al vertice dell’Unione. Non sono i progetti marziali della Commissione a facilitare la pace, ma le formidabili pressioni di Trump: martedì notte la Casa Bianca ha annunciato la sospensione di ogni aiuto all’Ucraina, compresi gli aiuti dei Servizi segreti, e il giorno dopo Zelensky ha accettato la mediazione Usa e proposto un’interruzione delle operazioni di aria e di mare. È quello che Papa Francesco un anno fa chiamò il “coraggio della bandiera bianca”. Viene l’ora di trattare con Putin, per fortuna non più paragonato a Hitler. L’apertura di Zelensky è giudicata positiva da Mosca.

Non si sa bene cosa si intenda, quando si invoca l’Europa: se i suoi cittadini, o i suoi Stati, o l’Europa parallela che Macron sta costruendo con Londra che non è più nell’Ue, o la Commissione guidata da Von der Leyen che non ha competenze in politica estera. Non si sa neanche fino in fondo il significato della manifestazione che il 15 marzo chiederà che l’Europa “dica qualcosa”, “parli con una voce sola”. Per dire cosa? Per quale politica estera, in un’Unione che su pace e guerra è divisa?

A motivare lo scandalo non è l’inaudita incapacità europea di concepire negoziati di pace con Mosca, ma la brutalità di Trump: è lui il nemico, accusato di umiliare Zelensky e costringerlo alla bandiera bianca. Tanto i morti non sono i nostri. Lo scandalo avrebbe senso se si parlasse di Gaza e degli aiuti Usa a Israele. Ma su Russia e Ucraina cosa si chiede? Che l’Europa negozi con Mosca un comune sistema di sicurezza oppure che inasprisca ancor più la conflittualità, contro la distensione tentata da Trump? E che vuol dire “difesa europea anziché riarmo” (posizione Pd), se manca una comune politica estera e diplomatica?

Venerdì alla Casa Bianca Zelensky si è infilato da solo nella tremenda trappola ripresa in mondovisione. Per capire l’evento tragico va vista l’intera conferenza stampa, e non solo l’esplosione finale. La conferenza non era cominciata male, Trump aveva elogiato l’esercito ucraino, ma Zelensky ha fatto di tutto per scatenare lo scontro. Ha parlato di Putin come di “un killer e un terrorista”, ha ripetuto che Mosca ha violato ben 25 volte gli accordi di tregua. Ha mostrato a Trump le foto di ucraini maltrattati dall’esercito russo e ha provocato il vicepresidente Vance: “Quale tregua?”. Inoltre ha reclamato un’assistenza militare Usa che equivalga di fatto al sostegno garantito dalla Nato.

Trump è un affarista neocoloniale che non esita ad accaparrarsi parte delle ricchezze minerarie ucraine (o russe se il Donbass resta russo) ma ha detto una cosa assennata: io sono al di sopra delle parti – ha ripetuto – non posso insultare Putin e al tempo stesso negoziare sulla fine dei bombardamenti.

Sarebbe stato ben più brutale se avesse detto un’ulteriore verità: l’Ucraina, la Nato e l’Europa hanno perso la guerra, ora si tratta di capire come mai è scoppiata. I continui allargamenti della Nato, la trasformazione dell’Ucraina in un fortilizio, il trattamento oppressivo delle minoranze russe e della loro lingua: tutto questo è vissuto come minaccia esistenziale a Mosca, non dall’invasione del ’22 ma dal 2008. Va ricordato che fu Trump nel primo mandato ad armare Kiev con i temibili missili anticarro Javelin, cruciali nella guerra odierna: Zelensky l’ha giustamente evocato nella conferenza stampa.

Si legge sui giornali che l’Europa si riunisce finalmente per contrastare Trump. E farebbe bene se lo contrastasse su Israele, cosa che non fa. Farebbe bene se difendesse l’Onu vilipesa da Washington anziché la Nato. Fa molto meno bene quando si presenta come Europa atlantista, fingendo d’ignorare la sconfitta storica della Nato e il radicale distacco statunitense dall’Europa.

Fuori posto è anche lo sdegno per il negoziato Washington-Mosca, che in un primo momento esclude Zelensky ed europei. È una lamentazione volutamente smemorata. Quando fu abbattuto il Muro di Berlino e cominciò a prefigurarsi l’unificazione tedesca (in realtà fu un’annessione della Germania Est), furono Bush padre e Gorbaciov a negoziare bilateralmente. Solo in un secondo momento le trattative si estesero alle due Germanie e ai firmatari degli accordi postbellici, Regno Unito e Francia. Allora la procedura apparve naturale. Gli unici che potevano sbloccare le cose erano Washington e il Cremlino. Ora invece si protesta, e non perché l’Europa sia più forte ma perché è diventata più inconsistente, più asservita alle industrie militari, meno addestrata alla diplomazia.

L’Unione è condannata all’irrilevanza se non richiama all’ordine rappresentanti pericolosi per la pace come Von der Leyen o l’estone Kaja Kallas, Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la sicurezza: un personaggio, quest’ultimo, che non ha mai fatto autocritica su quanto disse nel maggio ’24, poco prima d’esser nominata: “Non è una cattiva idea lo smembramento della Federazione russa in tante piccole nazioni”.

Quanto a Von der Leyen, memorabili sono le parole dopo il vertice euro-atlantico di Londra: l’Ue deve trasformare l’Ucraina in un “riccio d’acciaio indigesto a invasori” come la Russia. Il capo dell’esecutivo Ue non spiega come procedere, perché la politica estera e di difesa non è per fortuna di sua competenza. Se parla così è perché si mette al servizio delle industrie militari, non dei governanti e ancor meno dei popoli. Un sondaggio dell’Istituto inglese Focaldata rivela che i cittadini europei sono ostili alla strategia del riccio d’acciaio: una forte maggioranza di elettori francesi, tedeschi e inglesi vuole ridurre le spese militari o almeno mantenerle ai livelli attuali (il 66% in Francia, il 53 in Germania, il 54 nel Regno Unito). Dice James Kanagasooriam, capo dell’istituto di sondaggi: “I poteri politici sono alle prese con un enorme nodo gordiano”. È il nodo gordiano che lega indissolubilmente le politiche neoliberali di austerità alla militarizzazione dell’Unione.

Il “Piano Riarmo Europa” presentato martedì da Von der Leyen conferma in pieno il nodo gordiano. È annunciato un esborso di 800 miliardi di euro entro quattro anni: “Si apre un’era di riarmo. Questo è il momento dell’Europa. Siamo pronti a passare a una velocità superiore”. Una parte dei fondi europei destinati alla coesione sociale, territoriale e ambientale sarà dirottata verso il riarmo. È sperabile che qualcuno fermi la Commissione. Almeno per quanto riguarda i confini orientali d’Europa il pericolo è lei, non Trump.

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Come salvare Kiev dopo la sconfitta

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 23 febbraio 2025

Prima di accusare Giuseppe Conte di tradimento dei valori occidentali, e di sottomissione a Trump e alle estreme destre, converrebbe analizzare l’andamento della guerra in Ucraina negli ultimi tre anni e chiedersi come mai l’illusione di una vittoria di Kiev sia durata così a lungo e apparentemente duri ancora.

Come mai non ci sia alcun ripensamento, nella Commissione UE e nel Parlamento europeo, sulla strategia di Zelensky e sull’efficacia del sostegno militare a Kiev. La prossima consegna di armi, scrive il «Financial Times», dovrebbe ammontare a 20 miliardi di dollari.

Non è solo Conte a dire che Trump e i suoi ministri smascherano un’illusione costata centinaia di migliaia di morti ucraini oltre che russi: l’illusione che Kiev potesse vincere la guerra, e che per vincerla bastasse bloccare ogni negoziato con Putin e addirittura vietarlo, come decretato da Zelensky il 4 ottobre 2022, otto mesi dopo l’invasione russa e sette dopo un accordo russo-ucraino silurato da Londra e Washington.

Smascherando illusioni e propaganda, Trump prende atto dell’unica cosa che conta: non la politica del più forte, come affermano tanti commentatori, ma la realtà ineluttabile dei rapporti di forza. Realtà dolorosa, ma meno dolorosa di una guerra che protraendosi metterebbe fine all’Ucraina. Trump agisce senza cultura diplomatica e alla stregua di un affarista senza scrupoli: come già a Gaza dove si è atteggiato a immobiliarista che spopola terre non sue immaginando di costruire alberghi sopra le ossa dei Palestinesi, oggi specula sulle rovine ucraine e reclama minerali preziosi in cambio degli aiuti sborsati dagli Usa. Ma al tempo stesso dice quel che nessuno osa neanche sussurrare: Mosca ha vinto questa guerra, e Kiev l’ha perduta. La resistenza ucraina non è vittoriosa perché l’Occidente pur spendendo miliardi non voleva che lo fosse.

Fingere che la realtà sia diversa, che non sia grottesco l’ennesimo pellegrinaggio di Ursula von der Leyen a Kiev, in sostegno di Zelensky, è pensiero magico allo stato puro, invenzione di ologrammi paralleli. I vertici dell’Ue fingono di rappresentare l’intera Unione e giungono sino a reinserire nella propria cabina di comando la Gran Bretagna che dall’Unione pareva uscita.

Riconoscere la sconfitta di Kiev e Zelensky non è sacrificare l’Ucraina. Trump sacrifica il patto bellicoso con Zelensky – nella tradizione statunitense molla spudoratamente l’alleato – ma salva quel che resta dello Stato ucraino prima che cessi di esistere del tutto (i Russi hanno riconquistato il 20, non il 100% del Paese).

Così come stanno le cose militarmente, l’indignazione dei principali governi europei contro la tregua di Trump non implica la pace giusta, ma l’estinzione dell’Ucraina. Questa è la verità dei fatti tenuta nascosta durante la presidenza Biden: una bolla che Trump ha bucato con inaudita violenza verbale. Non si capisce come mai l’establishment giornalistico e politico in Europa parli di valori occidentali violati, di resistenza ucraina tradita, di Occidente sotto ricatto e attacco russo. L’Europa si è sfasciata, la Germania che va oggi al voto è il secondo grande perdente di questa guerra dopo l’Ucraina, e la bugia secondo cui Mosca può aggredire l’Europa se vince in Ucraina è irreale e antistorica.

A ciò si aggiunga che non sono i francesi, né i tedeschi, né gli italiani, né gli inglesi, a morire sul fronte. È un’intera generazione di ucraini che è perduta. Anche questo viene occultato: i giovani ucraini da tempo disertano in massa il campo di battaglia. Fuggono come possono. Il sociologo ucraino Volodymyr Ishchenko narra di giovani ripetutamente “bussificati”, spediti senza formazione a morire: il termine fa riferimento ai minibus che con violenza prelevano per strada i riluttanti. “Ogni mese si registrano casi di coscritti forzati che nelle stazioni di mobilitazione vengono picchiati a morte”. Sono soprattutto i poveri a disertare, subire violenze e morire: non hanno soldi per corrompere le autorità e strappare l’esonero dal servizio militare. “In dicembre, inchieste giornalistiche hanno rivelato torture sistematiche ed estorsioni nei ranghi dell’esercito” (Peter Korotaev e Volodymyr Ishchenko, “Why is Ukraine struggling to mobilise its citizens to fight?”, Al Jazeera 23.1.2025).

Non meno occultata, perché incompatibile col pensiero magico: la destra estrema ucraina, i neonazisti che dal 2014 ispirano la guerra di Kiev contro i separatisti del Donbass. Si parla molto di neonazisti putiniani a Ovest. Di quelli ucraini non si parla più, eppure Zelensky è diventato il loro prigioniero. Anche il suo predecessore Porošenko lo era, quando nel 2012 declassò per legge la lingua russa e boicottò gli accordi di Minsk che garantivano autonomia al Donbass e ai russofoni. Preferì la guerra civile fra il 2014 e il 2022, prima del massiccio intervento dell’esercito russo. Di questa guerra si parla poco. Fu cruenta (più di 14 mila morti) e andrebbe anch’essa condannata. Cosa diremmo se Parigi bombardasse i separatisti della Corsica?

Anche se non parla da statista, Trump ha in mente soluzioni sensate: ritornare alla promessa fatta a Gorbacëv di non allargare la Nato fino alle porte russe; riammettere Mosca nel Gruppo degli Otto (oggi Gruppo dei Sette) come era usanza alla fine della guerra fredda, prima che Obama facilitasse lo spodestamento di un governo ucraino troppo filorusso e Mosca reagisse riprendendosi la Crimea. Trump annuncia infine che europei e non europei potranno garantire militarmente l’Ucraina, ma senza gli Stati Uniti.

La Nato sopravviverà forse per qualche tempo, ma è un meccanismo spezzato. Quanto agli europei, mentono sapendo di mentire. Dicono che spenderanno molto più per la difesa, ma che per custodire la tregua invieranno truppe in Ucraina a condizione che si impegnino pure gli Stati Uniti, cosa rifiutata appunto da Trump. Non potranno inoltre riarmarsi senza tagliare lo stato sociale, e anche questo è un freno.

L’unica cosa che gli europei potrebbero fare, ma non fanno, è concepire una politica estera che ricominci da zero: cioè da quando è finita la guerra fredda, e Gorbacëv propose un sistema di sicurezza comune (la “Casa comune europea”). Forse è troppo tardi: tanto grande è il fossato che si è aperto tra Europa e Russia. Tanto forte è ancora l’ideologia neoconservatrice, che sembra spegnersi a Washington (non si sa per quanto tempo) ma persiste immutata nelle élite europee. È neocon il Presidente Mattarella, quando paragona Putin a Hitler nel momento in cui si negozia una tregua. Quando mai la Russia ha assaltato Germania, Francia, Italia, Inghilterra?

Particolarmente rattristanti sono i partiti come il Pd, che si dicono di sinistra. Oggi si ritrovano a destra di Trump, a difendere un’Europa fortino e a dimenticare la distensione di Willy Brandt negli anni 60 del secolo scorso. Al posto della Ostpolitik si piangono oggi nebbiosi valori occidentali, euroatlantici. Si auspicano negoziati, ma senza mai ammettere la sconfitta di Kiev e la necessaria sua neutralità. Forse nel pensiero magico Trump passerà presto.

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Trump e il riarmo Ue contro la Russia

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 26 gennaio 2025

Ristabilire un ordine internazionale regolato, che eviti l’esplodere bellico dei nazionalismi, il ripetersi dei genocidi, il respingimento dei rifugiati, l’impunità della tortura: questo l’impegno che gli Stati europei e gli Stati Uniti presero dopo la Seconda guerra mondiale e il genocidio degli ebrei.

Nacque un reticolato di leggi internazionali (tra cui la Convenzione sul genocidio, la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, la Corte internazionale di giustizia, l’Organizzazione Mondiale della Sanità). Gli organismi erano emanazioni dell’Onu, cui era affidato il compito di scongiurare l’impotenza mostrata dalla Società delle Nazioni dopo il 1914-18, con l’avvento del nazifascismo.

Nacque subito dopo anche l’Unione Europea, per riconciliare i due nemici secolari che erano Francia e Germania. L’idea di una federazione europea si rafforzò durante l’ultimo conflitto, nei primi anni Quaranta, quando ancora Hitler occupava mezzo continente. Fraternizzare con la Germania liberata e frenare le guerre divenne obiettivo primario della Comunità europea.

Ora questo reticolato di leggi è a pezzi: Israele può sterminare e affamare decine di migliaia di palestinesi; Meloni può restituire alla Libia un famigerato torturatore di migranti, Najeem Almasri. Rischioso arrestarlo come chiede la Corte Penale Internazionale, visto che Italia e Ue pagano la Libia perché i torturatori blocchino le partenze dei richiedenti asilo.

Da quando si è allargata ai Paesi dell’Est l’Unione Europea ha cessato di essere unione, e questo ben prima che il presidente Trump minacciasse le sue economie, incoraggiasse ogni sorta di nuovo nazionalismo etnico, denunciasse l’eccesso di regole Ue soprattutto in tema ambientale e sociale, e la mettesse davanti alla drammatica scelta: o vassallaggio completo o dazi; o spese militari europee che salgano al 5% del Pil o uscita degli Usa dalla Nato; e chissà quale altro flagello. Dopo quattro anni, il nazionalismo neoliberista che generò la Brexit s’estende e s’impone, sotto guida statunitense.

Trump e Musk si scagliano contro l’Europa unita per sfaldarla e favorire le sue destre estreme (neonazisti compresi), ma la loro offensiva rompe quel che era già rotto. Trump è uno dei sintomi della sua disgregazione, come è stata un sintomo di frantumazione l’ottusità mentale europea sulla guerra russo-ucraina.

L’ingresso dei paesi dell’Est nell’Unione Europea ha reintrodotto nella costruzione comunitaria i tre veleni contro i quali una serie di Stati del continente si erano accomunati negli anni Cinquanta: l’intenso nazionalismo etnico; il disprezzo delle leggi internazionali; l’ostilità famelica, insaziabile, verso una Russia percepita accanitamente, a Est, come erede del dominio sovietico. L’edificio si è dislocato con l’adesione dei nazionalismi orientali anche perché l’Unione è un ibrido: in piccola parte è federale (Banca Centrale in primis), in gran parte è confederazione di Stati fintamente sovrani ma con diritto di veto, specie in politica estera e di difesa.

Questo spiega come mai, contrariamente a Trump che sembra volere una tregua in Ucraina, l’Europa insiste nel fornire armi a Kiev e nell’infliggere sanzioni a Mosca. Il congelamento alla coreana della guerra sarebbe la soluzione preferita di Washington ma Putin la respinge per motivi comprensibili (equivarrebbe a tener non congelato ma caldo il conflitto, nato per frenare ulteriori allargamenti della Nato a Est: le due Coree non hanno ancora stipulato un trattato di pace, a 71 anni dalla fine della guerra). Ma nemmeno il congelamento sembra accontentare gli Europei orientali, se si escludono i governi d’Ungheria e Slovacchia. Quel che cercano è un regolamento dei conti con la Russia, una sconfitta che sia per Mosca triste, solitaria e finale (da Osvaldo Soriano).

Tutte le istituzioni europee sono oggi egemonizzate dai Nordici appena entrati nella Nato e dagli Orientali (finlandesi, svedesi, polacchi e i tre Baltici). Lo confermano i fatti e i comportamenti. Subito dopo la fine dell’Urss, l’Unione negoziò l’allargamento fingendo d’ignorare la massima ingiustizia commessa negli Stati baltici: quella che colpì le forti minoranze russe (tra il 20 e il 30% delle popolazioni in Estonia e Lettonia, quasi il 10% in Lituania), che erano discriminate e penalizzate, dal punto di vista linguistico, culturale e politico, esattamente come accadde in Ucraina dopo l’indipendenza. Le condizioni presentate da Bruxelles non menzionavano specificamente le minoranze russe. Il culmine è stato raggiunto dall’Unione il 24 dicembre scorso: il nuovo Alto Commissario per la politica estera e la sicurezza è l’estone Kaja Kallas, nota in patria e fuori come esponente di una assodata linea russofobica. Non era meno bellicoso il predecessore Josep Borrell, ma Kallas è un’autentica provocazione lanciata da Bruxelles.

Detto questo, la differenza fra Trump e europei è in larga parte fittizia. In primo luogo, non risponde del tutto al vero che l’Ue voglia proseguire la guerra per procura in Ucraina mentre Trump sarebbe pronto ad ammettere la neutralità di Kiev e l’epocale sconfitta della Nato. Chiedere poi che gli europei della Nato alzino le spese militari fino al 5% del prodotto nazionale lordo vuol dire riarmare il vecchio continente e trasformare la Nato in un formidabile dispositivo di guerra: si giustifica solo se la Russia continua a rappresentare un nemico esistenziale degli Stati occidentali.

Andrebbe sfatato, dunque, il luogo comune che dipinge Trump come clandestinamente pacifico e l’Europa come guerrafondaia. Sono guerrafondai tutti e due, fino a prova del contrario. L’America del Nord non abbandona per ora l’aspirazione al predominio unilaterale del mondo, che ha caratterizzato le sue politiche da quando si è compiaciuta nel ruolo di vincitrice della Guerra fredda.

Passiamo infine alla minaccia di Trump di lasciare la Nato, che tanto impaurisce i governi europei di destra e sinistra, le istituzioni Ue, e soprattutto il fantasma residuale della Guerra fredda che è il Parlamento europeo. In realtà sarebbe una manna per i cittadini europei, se l’Alleanza atlantica finalmente si sciogliesse. Non ha più senso e ha costi proibitivi, dopo lo scioglimento nel 1991 del Patto di Varsavia che legava militarmente l’Europa orientale a Mosca. Lo stesso Stoltenberg, ex segretario generale dell’Alleanza atlantica, ha ammesso nel settembre 2023 che l’invasione russa non era immotivata: a provocarla non era stato l’espansionismo russo ma la promessa occidentale di accogliere Ucraina e Georgia nella Nato. Da quindici anni Mosca ripeteva che non avrebbe tollerato la presenza militare dell’Alleanza lungo i propri confini.

L’abbandono Usa della Nato sarebbe un evento frastornante ma lascerebbe libera l’Europa di determinare il proprio destino. Potrebbe scegliere la bellicosità della Kallas. Ma potrebbe anche sperimentare un comune sistema di sicurezza con la Russia, resuscitando la “Casa Comune Europea” proposta da Gorbacëv nel luglio 1989. A questo punto l’Europa diverrebbe sì una potenza: ma pacifica, capace di finanziare il proprio Stato sociale. È quello che le amministrazioni Usa, Trump compreso, temono di più.

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Il sonno ipnotico della sinistra

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 3 dicembre 2024

Invece di brancolare costantemente nella nebbia, e negare che nel Parlamento europeo si esprimono e votano assieme alle destre di Meloni su questioni cruciali come la nuova Commissione, e anche la pace e la guerra, il Partito democratico ed Elly Schlein potrebbero sospendere almeno per un po’ l’abitudine di proclamare una cosa per farne un’altra e provare a dire quel che pensano dell’Europa e se magari hanno qualche idea su come cambiarla.

Se sono d’accordo oppure no con i piani di pace o di tregua che prevedono la neutralità dell’Ucraina e la cessione di territori russofoni a Mosca. Se sono favorevoli o contrari a iniziative europee autonome nei rapporti con Mosca (gli abboccamenti tentati dall’ungherese Orbán e dal tedesco Scholz sono stati bocciati dagli eurodeputati Pd, non si sa perché).

Deve anche dire, il Pd, se ha capito oppure no che l’ambizione di entrare nell’Unione europea è drasticamente diminuita nei paesi che confinano con la Russia (Georgia e in buona parte Moldavia), e che l’esito di un’elezione non diventa automaticamente illegittimo se la maggioranza degli elettori non vota come vorrebbero l’Ue, la Nato e Washington. L’adesione all’Unione europea suscita ben più sospetti di vent’anni fa, e una parte consistente di elettori georgiani e anche moldavi guardano spaventati il cumulo di morti in Ucraina e sentono che chi entra oggi in Europa aderisce per forza alle strategie belliche della Nato e di Washington. Aderisce alla nuova guerra fredda e alla corsa al riarmo che Usa, Nato e Ue vogliono, incoraggiano e pagano. Non stupisce che nelle risoluzioni dell’Europarlamento compaiano sempre più spesso termini come Comunità euro-atlantica e Ordine internazionale basato sulle regole (le regole sono statunitensi).

Per la verità i Democratici hanno già fornito una risposta a questi interrogativi, anche se regolarmente la dissimulano. Da quando è iniziata l’aggressione di Putin – dopo otto anni di guerra civile nel Donbass russofono e in parte russofilo – i deputati europei hanno votato più di 30 risoluzioni intese a finanziare una guerra inasprita ed estesa alla Russia e sempre il Pd si è allineato, con Letta e Schlein. Si può dunque presumere che la scelta decisiva sia stata fatta: in favore di una guerra sempre meno fredda con Mosca e di un’Unione che finge di integrarsi più efficacemente divenendo avamposto armato della Nato.

Torna perfino in auge Draghi, incensato dagli europarlamentari Pd con lo stesso vuoto entusiasmo esibito da Enrico Letta nelle ultime elezioni politiche. Stavolta l’Agenda Draghi n. 2 prescrive un comune indebitamento europeo come quello ottenuto da Conte dopo il Covid: non per salvare lo Stato sociale, non per far fronte al collasso climatico del pianeta, ma per finanziare l’Europa della Difesa – nuovo gioiello – e prepararsi a guerre ritenute incombenti oltre che ineluttabili.

Sarebbe un passo avanti se il Pd ammettesse queste verità, invece di ingarbugliarsi e assicurare che non cederà mai alle destre meloniane che sono ormai parte della maggioranza europarlamentare. “Nessun cedimento”, assicura Nicola Zingaretti, eurodeputato che il 28 agosto aveva annunciato: “La destra in Europa non conta perché non esiste!”. E Schlein, non meno sconclusionata: “Non cediamo di un millimetro”.

Sembrano le frasi fatte che vengono inculcate durante il sonno nello Splendido Mondo Nuovo di Huxley, con tecniche ipnotiche che fin dall’embrione bloccano ogni sorta di risveglio mentale durante il giorno, e allenano al pensiero positivo in qualunque circostanza. Frasi che non dicono nulla di fattuale, ripetute più volte a pappagallo.

La frase fatta che ricorre con più frequenza è “Siamo Responsabili”, e sempre vuol dire: ci va bene il perenne status quo, e ci comprometteremo sull’essenziale (pace/guerra, economia dell’austerità, ecc.). C’è voluto Conte e la sua denuncia del “grave errore politico” commesso mercoledì scorso dai Democratici (“Votare la Commissione Von der Leyen non è stato un infortunio”) perché i dirigenti Pd si svegliassero un attimo dall’ecolalia e capissero che come minimo dovevano spiegare il voto in favore della Commissione allargata a destra, avendo inveito per settimane contro tale prospettiva.

L’ecolalia è la ripetizione inebetita di frasi pronunciate e imposte da altri, ed è questa l’abitudine contratta dalla sinistra in Italia e in gran parte d’Europa da circa trent’anni. Oggi Schlein ricomincia a parlare di diseguaglianze sociali, di Stato sociale, di battaglie sindacali, di transizione ecologica, ma da Bruxelles gli eurodeputati Pd l’impallinano (tranne gli indipendenti Tarquinio e Strada) e comunque la segretaria non può garantire alcunché visto che con il suo consenso le principali spese andranno a difesa e armi. Si parla di transizione verde, ma come salvare la Terra se le guerre in corso e quelle pronosticate impediscono ogni negoziato e accordo tra i primi paesi inquinatori (Usa, Russia, Cina, India, Ue). E difesa da chi? Dalla Russia? Dalla Cina? Perché? Per sempre?

La sinistra naufraga in realtà da quando crollò il comunismo, e prima ancora da quando, nel 1979 e 1981, fu travolta dalla possente onda neo-liberista e antistatalista di Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Si pensò che il socialismo non sarebbe precipitato assieme al comunismo, dopo l’89, invece è accaduto proprio questo, dato che tante loro idee erano comuni. La sinistra venuta dopo fu una finzione, per non dire una frode. Si presentò come molto “responsabile”, pronta a riarmare l’Europa e a trasformarla in “comunità euro-atlantica”, contro le volontà di gran parte dei cittadini e gli interessi del continente. La lista dei trasformatori è lunga: Blair, Hollande, Macron, Veltroni, Renzi, Gentiloni+Minniti, Letta, e Starmer dopo la decapitazione politica di Jeremy Corbyn, oggi deputato indipendente).

Molti sostengono, specie in Francia, che la sinistra dovrebbe diventare socialdemocratica per essere del tutto accettabile (accettabile da chi?). Ma la socialdemocrazia del dopoguerra è stata ben altro, almeno in Germania. Essere socialdemocratici voleva dire, negli anni 50 e durante la Distensione negli anni 60, costruire una sicurezza europea assieme all’Urss, come propose poi Gorbaciov nell’89. Queste le convinzioni di Willy Brandt ed Egon Bahr, contrari alla guerra fredda e ai riarmi Nato.

La socialdemocrazia di allora considerò “serie”, “da valutare”, le Note di Stalin del marzo 1952, che offrivano la riunificazione delle due Germanie in cambio della neutralità tedesca e della non adesione alla Nato. Oggi si potrebbero cercare soluzioni analoghe per l’Ucraina, tanto più che Putin non è Stalin e la Russia non è l’Urss. Ma a differenza di allora, la vera socialdemocrazia non c’è. Ci sono frammenti di partiti progressisti, che potrebbero aiutare il Pd a svegliarsi dalle sonnolente frasi fatte in cui è immerso. Un po’ di pensiero woke non ci sta male, e per questo forse i neoconservatori hanno in odio tutto quel che dipingono come woke, e è solo “risveglio”.

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Le due facce di Trump in Ucraina e a Gaza

di domenica, Novembre 10, 2024 0 , , , , Permalink

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 10 novembre 2024

È probabile che Trump Presidente non voglia iniziare nuove guerre, e che quelle cominciate voglia finirle. Almeno così dice. Allo stesso tempo non vorrebbe entrare nella storia come perdente: cosa accaduta a Biden quando lasciò l’Afghanistan dopo gli accordi che il predecessore stipulò con i Talebani. Trump lasciò a Biden il lavoro caotico della ritirata.

Lo stesso si può dire per la guerra russa in Ucraina che Biden e l’inglese Boris Johnson hanno voluto durasse fino ad oggi – anziché concluderla con un trattato già pronto poche settimane dopo l’invasione – e che è ancora una guerra indiretta Stati Uniti-Russia. Trump vorrebbe finirla o almeno congelarla perché attribuisce una razionalità alla potenza russa e perché ritiene che gli Stati Uniti abbiano fornito troppi miliardi e armi a Zelensky.

L’ingresso di Kiev nella Nato lo considera un impaccio, visto che l’Alleanza comunque lo infastidisce, specie se entra in gioco il famoso articolo 5: Trump vuole intervenire quando e dove e per i motivi che decide lui. Non lascerà decidere a una tecnocrazia (Nato o Onu che sia) quel che è legale o non lo è. Quand’era Presidente, Trump ha sanzionato la Russia e super-armato l’Ucraina. Potrebbe ora auspicare la sua neutralità, ma non è detto. L’isolazionismo con gli alti dazi è sicuro in economia. Il resto è imprevedibile.

Lo scenario muta radicalmente, per il momento, quando dall’Ucraina si passa a Israele. Anche qui Trump vuole che le guerre finiscano, per via dello spazio che occupano nei media e nelle università. Ma intende adoperarsi perché Netanyahu raggiunga quel che si è prefisso: una guerra di riconquista delle terre bibliche, una Grande Israele senza più palestinesi se non schiavizzati.
Questo intende il nuovo Presidente quando invita Netanyahu a “finire la bisogna” (finish the job) sia in Palestina (Gaza e Cisgiordania), sia in Libano, sia soprattutto contro Iran e alleati in Yemen, Iraq, Siria. Nei mesi scorsi ha criticato Biden per aver “troppo frenato Netanyahu” (in realtà il freno era finto) e per questo il Premier israeliano ha glorificato la vittoria di Trump, cui sono andate le sovvenzioni più copiose delle lobby israeliane in Usa. Riassumendo: mentre lo Stato israeliano sta inghiottendo impunemente l’intera Palestina, Trump vuole accattivarsi gli Stati petroliferi sunniti e abbattere il secolare nemico iraniano e i suoi seguaci in Medio Oriente.

Qui conviene fare un salto indietro nel tempo, se si vuol capire la genesi delle due guerre in Ucraina e Medio Oriente. In ambedue i casi siamo alle prese con potenze nucleari (Usa, Russia, Israele dotata di oltre 100 testate) e sia Trump sia il consigliere Elon Musk rispettano solo gli Stati atomici detti “santuari”.
Secondo molti studiosi statunitensi, come Branko Marcetic, Michael Galant o Mehdi Hasan di origine araba, l’eccidio del 7 ottobre 2023 – quando Hamas abbatté la recinzione di Gaza e uccise in Israele 1.139 persone (di cui 695 civili) catturandone circa 250 – non è affatto un’ora zero della storia, un secondo genocidio che annulla gli anni in cui gli indigeni arabi furono scacciati o soggiogati, ma è la conseguenza, atroce e forse non più evitabile, di oltre mezzo secolo di umiliazioni ed espulsioni anti-palestinesi, accentuate in particolare dalla prima presidenza Trump.

Fu Trump nel 2018 a smettere le sovvenzioni Usa all’Agenzia Onu per l’assistenza dei rifugiati palestinesi UNWRA, su spinta di Netanyahu. Nello stesso anno uscì dall’accordo sul nucleare con l’Iran, aumentò gli assassinii con i droni (del generale iraniano Qasem Soleimani e dell’iracheno al-Muhandis nel 2020) e intensificò il contributo, iniziato da Obama, alla guerra saudita in Yemen. Fu il suo ministro degli Esteri Pompeo a giudicare “perfettamente in linea col diritto internazionale” le colonie in Cisgiordania, nel 2019, e fu ancora Trump, sempre nel 2019, a riconoscere la sovranità israeliana sulle alture occupate del Golan ai confini con la Siria, suscitando l’ira degli abitanti drusi. Una delle colonie porta il nome di “Trump Heights”.
Infine, fu lui a spostare l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendo di fatto la sovranità israeliana sull’intera città, compresa Gerusalemme Est occupata. Fu lui ad architettare gli accordi di Abramo tra Israele, Emirati e Bahrein nel 2020. Obiettivo: il depotenziamento dell’Iran e della questione palestinese, e l’estensione della sovranità israeliana sul 30% della Cisgiordania.

È a partire dalla prima presidenza Trump che i Palestinesi, scoraggiati come mai, rappresentati ormai efficacemente solo da Hamas e Jihad, sono stati sopraffatti da collera e disperazione, smettendo di credere nella soluzione dei due Stati che l’Occidente infruttuosamente continua a declamare. Si è così giunti al culmine efferato della protesta: l’evasione dal recinto di Gaza e l’assalto del 7 ottobre, simile per alcuni versi alla nemesi dell’11 settembre 2001 o all’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022: invasione che ha alle spalle anch’essa una storia lunga, visto che dal 2008 Mosca ha ripetutamente definito un pericolo esistenziale l’allargamento Nato a Ucraina e Georgia, ai propri confini.
Ma se Trump ha avuto più voti musulmani di Kamala Harris, se molti voti arabi sono andati all’ecologista Jill Stein, che denuncia la “colonizzazione e il genocidio dei Palestinesi”, è perché il cosiddetto campo progressista è vuoto. L’enorme errore di Kamala Harris, dopo quasi tre anni di guerra per procura in Ucraina e dopo uno sterminio già in parte compiuto a Gaza e ora in Libano, è stato di restare aggrappata alla presidenza Biden, senza accennare la minima rottura (“non c’è una sola politica di Biden che io disapprovi”), e di spostare a destra il proprio partito, vietando ai protestatari filopalestinesi di prender la parola alla Convenzione democratica e blandendo i responsabili di aggressioni e torture in Afghanistan e Iraq (famiglia Cheney).

Lo studioso Norman Solomon paragona Harris a Hubert Humphrey, vicepresidente di Lyndon Johnson, che quando si candidò alla Casa Bianca nel 1968 non ebbe il fegato di staccarsi da Johnson e dalla sua guerra in Vietnam. Perse rovinosamente contro Nixon.
Così Kamala Harris. Pensava di vincere demonizzando Trump e difendendo i diritti delle donne all’aborto, e la maggioranza delle donne bianche ha scelto Trump: l’economia era per loro prioritaria. Pensava di convincere gli ispanici: se li è presi Trump. Inoltre per colpa di Biden aveva poco tempo: poco più di tre mesi di campagna.
Ora i giornali dominanti se la prendono con Harris. L’accusano di aderire alla cultura woke, custode delle minoranze e della loro inclusione. Si ripropone l’annosa polemica delle destre contro il ’68. Forse in passato Harris difese le minoranze – in patria e fuori – proprio come le aveva difese Humphrey. Ma il potere e i soldi dei donatori l’hanno prima stravolta, poi affossata. L’hanno talmente accecata che in agosto definì se stessa e il vice Tim Walz due invincibili “guerrieri gioiosi” (joyful warriors).

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Il Parlamento Ue filiale della Nato

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 20 luglio 2024

In soli due giorni, il nuovo Parlamento europeo ha mostrato quello che è: una succursale della Nato, egemonizzata da Washington e indifferente a quanto domanda gran parte dei cittadini.

La prima risoluzione approvata dall’assemblea, il 17 luglio, ribadisce quanto affermato in passato –la necessità di accrescere gli aiuti militari all’Ucraina– ma con alcune varianti particolarmente aggressive contro la Russia. Il giorno dopo gli europarlamentari hanno rieletto Ursula von der Leyen Presidente della Commissione, che di questa intensificazione bellicosa è paladina e garante.

Nella risoluzione di mercoledì, i deputati si dicono convinti che “l’Ucraina sta seguendo un percorso irreversibile verso l’adesione alla Nato”. Non erano mai ricorsi a quest’aggettivo – irreversibile – che serve solo a distruggere l’Ucraina. Oggi lo usano sfrontatamente, ricopiando il punto 16 del comunicato approvato dal vertice Nato il 10 luglio. Evidentemente l’Occidente continua a pensare che Putin non prenda queste parole sul serio. Che si possa entrare in guerra – anche atomica – con gli occhi bendati. Che si possa continuare a far morire gli ucraini al posto nostro.

Altra novità di rilievo: il Parlamento “sostiene fermamente l’eliminazione delle restrizioni all’uso dei sistemi di armi occidentali forniti all’Ucraina contro obiettivi militari sul territorio russo”. Autorizzare gli ucraini a colpire il territorio russo con missili Usa e europei vuol dire trasformare definitivamente il conflitto russo-ucraino in guerra occidentale contro la Russia. Un passo che fin qui era stato compiuto da singoli Stati europei ma non da tutti.

Il governo italiano per esempio è contrario a colpire la Russia, in accordo con le opposizioni. Non la pensano allo stesso modo gli eurodeputati PD, che mercoledì hanno votato in blocco la risoluzione. Fanno eccezione Marco Tarquinio e Cecilia Strada, che si sono astenuti ma sono stati eletti come indipendenti. Hanno votato contro i deputati 5 Stelle, oggi nel gruppo Left, come i deputati di Sinistra e i Verdi di Bonelli.

La risoluzione non accenna neanche marginalmente a negoziati di tregua o di pace, e ripete l’impegno a sostenere l’Ucraina “tutto il tempo necessario a garantire la vittoria dell’Ucraina”. Chi decide i negoziati è l’amministrazione Usa: non sia mai detto che l’Europa – ben più coinvolta nella guerra – prenda iniziative eterodosse. La missione diplomatica di Viktor Orbán in Russia, Ucraina, Cina, Azerbaigian, Stati Uniti è condannata con sdegno dall’europarlamento e da von der Leyen, che parlando di appeasement (pacificazione) mette sullo stesso piano Putin e Hitler.

Il Presidente ungherese è il primo in Europa a tentare una mediazione, dopo Erdogan, ma il verdetto delle istituzioni Ue è feroce: la pace non s’ha da fare, né domani né mai. Specie se a negoziare è Orbán, che non è democratico (come se Erdogan o Xi Jinping lo fossero). Inoltre, vanno “estese le sanzioni nei confronti di Russia e Bielorussia”. L’Unione ha già adottato 14 pacchetti di sanzioni, ma il Parlamento è insaziabile.

Due conclusioni si possono trarre da questa votazione. Le divisioni fra governo e opposizione che esistono in Italia si dissolvono a Bruxelles, in nome dell’immutata sacra alleanza fra Popolari, Socialisti, Liberali e se necessario Verdi. I deputati Pd si dissociano dunque, sprezzanti, dalla linea di Elly Schlein. Linea ambigua, ma ferma sull’opportunità di negoziati. Il 29 maggio la segretaria aveva detto in un’intervista alla Tv: “Ho letto le dichiarazioni di Macron sull’ipotesi di togliere le limitazioni all’uso delle armi fornite dagli europei all’Ucrainaper colpire obiettivi in Russia. (…) Noi non siamo d’accordo: siamo per evitare un’escalation con un ingresso diretto della UE in guerra con la Russia”. E aveva aggiunto, perché le cose fossero chiare: “La linea di politica estera del Pd è quella che ho appena rappresentato”.

Le cose tuttavia non sono affatto chiare, come risulta dal voto dei suoi eurodeputati. La delegazione Pd nel Parlamento europeo resta neoconservatrice in politica estera e di difesa come nella precedente legislatura. Scompare infine qualsiasi accenno alle zone frontaliere russe, oltre le quali fino a poco fa sembrava vietato colpire coi missili. L’inasprimento sarà confermato dal nuovo Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, l’ex Premier estone Kaja Kallas. In patria è chiamata Dama di Ferro ed è molto discussa: lei è ai limiti della russofobia, mentre il marito ha fatto affari con la Russia. Sull’Ucraina non sarà diversa dal predecessore Josep Borrell, ma difficilmente sarà severa con Israele come lo è stato lui.

Seconda conclusione: il Parlamento europeo non risponde alla volontà dei propri elettori, contrari in tutti i paesi a un confronto diretto Occidente-Russia. Ignora la storia delle relazioni occidentali con Mosca dopo la fine dell’Urss, e fa propria la fraseologia dell’Alleanza Atlantica. Al pari di Ursula von der Leyen, non esita a tramutare sé stesso e tutta l’Unione in dispositivi della Nato. Finge a parole una sovranità strategica e pratica la sottomissione agli Stati Uniti. Unico motivo di sollievo: le sue risoluzioni bellicose non sono vincolanti, perché la politica estera non è competenza dell’UE ma degli Stati.

Ci si può chiedere come possa succedere che l’europarlamento produca risoluzioni così lontane dalle volontà dei governi e degli elettori. Una prima spiegazione potrebbe essere questa: il Parlamento ha poteri limitati, e soprattutto in politica estera e di difesa può solo sproloquiare: la sua irresponsabilità non è associata al potere. Ma c’è di più. Il Parlamento non ha una maggioranza e un’opposizione simili a quelle che esistono negli Stati membri, e non è confrontato con un governo che rappresenti l’una o l’altra parte.

La Commissione nasce da un accordo fra Stati, completamente dissociato dagli esiti del voto europeo. È una governance tecnocratica, non un governo politico. E nel Parlamento regna il consociativismo, la convergenza sistematica cui si oppongono solo estrema destra e sinistra di Left. Tutte le risoluzioni, ma anche i testi legislativi – le direttive, i regolamenti subito applicabili negli Stati – nascono da un mercanteggiamento sfibrante fra i vari gruppi parlamentari (nelle commissioni, nei negoziati che formulano i testi da sottoporre al voto nelle plenarie). Il mercanteggiamento deve produrre testi che accontentino tutti: relatori principali e “relatori ombra” per ciascun gruppo, e anche Commissione e Stati membri per le direttive e i regolamenti. Per forza ogni asperità è cancellata.

Spesso si sente dire che l’arte del compromesso praticata a Bruxelles e Strasburgo è un modello: un fulgido esempio di armonia e di consenso. I media francesi elogiano ininterrottamente questa virtù, negli ultimi giorni, contrapponendola ai vizi del proprio Parlamento diviso. Ma il consenso fatto di ripetute compromissioni non è sinonimo di democrazia, né in Francia né in Europa.

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Ue: sì o no al Partito unico della guerra

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 5 giugno 2024

Per molti elettori non sarà semplice scegliere e votare alle elezioni europee dell’8-9 giugno. Gran parte delle nostre leggi sono co-decise dal Parlamento europeo, assieme a Commissione e Stati membri, dunque il voto non è inutile.

Ma sulle due questioni oggi vitali – la guerra che rischia di divenire mondiale, il collasso climatico – esiste ormai in Europa una sorta di partito unico, che mette sullo stesso piano Unione e Nato e che non cambierà affatto fisionomia, se l’attuale maggioranza dovesse estendersi ai conservatori di Giorgia Meloni. Non cambierà neanche se sarà abolito il diritto di veto nelle decisioni Ue. I governi dell’Unione, quasi all’unanimità e ignorando i propri popoli, non sembrano temere la guerra, neanche nucleare.

Per forza di cose, il partito della guerra non sarà neppure in grado di frenare il collasso del pianeta, perché se davvero volesse farlo dovrebbe promuovere la collaborazione pacifica e il disarmo fra i massimi inquinatori: Cina, Usa, Ue, India, Russia. Se volesse farlo, riproporrebbe l’ordine europeo e internazionale immaginato nel brevissimo intervallo temporale fra caduta del Muro e scioglimento dell’Urss, quando Gorbaciov propose una Casa Comune Europea e fu sottoscritta la “Carta di Parigi per una Nuova Europa”, nel novembre 1990. I principali firmatari della Carta erano Gorbaciov, George Bush sr, Kohl, Mitterrand e Andreotti per l’Italia. “Era quel periodo benedetto in cui il mondo sembrava un posto abbastanza sicuro, tra la fine della Guerra fredda e circa dieci minuti dopo”, scrive Mick Herron nel romanzo Slow Horses: Un Covo di Bastardi.

L’avvento del partito unico della guerra ha imbastardito il dibattito politico e la campagna elettorale in tutti i Paesi europei. Chi si oppone all’invio in Ucraina di armi sempre più offensive e alle ripetute sanzioni contro la Russia (13 “pacchetti” di misure restrittive, che dal 2022 hanno penalizzato più l’Unione che Mosca) riceve lo stigma di putiniano o sovranista o antieuropeo. Chi auspica collaborazioni con Pechino è accusato di ostilità verso Taiwan e complicità con la repressione cinese di uiguri e tibetani. Chi condanna lo spopolamento sanguinario di Gaza attuato dall’esercito israeliano – sempre più simile a un genocidio, visto che i palestinesi sono stati intrappolati nella Striscia senza via d’uscita – è tacciato di antisemitismo e antisionismo, come se i due termini fossero identici e anche quando vien condannato l’eccidio del 7 ottobre. La maggior parte dei governi Ue, compreso il nostro, si rifiuta di riconoscere lo Stato palestinese.

In questo modo sono stati denigrati i dissidenti in campagna elettorale: il Movimento 5 Stelle e quello di Michele Santoro in Italia, la sinistra di Mélenchon in Francia, Podemos in Spagna, l’Alleanza di Sahra Wagenknecht in Germania. Sulla guerra, è più che mai difficile distinguere fra ex sinistra, centristi, destra dei Popolari (Forza Italia), Conservatori (Meloni), e Verdi, specie tedeschi.

Il caso più spettacolare è quello francese. Il Partito socialista ha scelto come capolista un neoconservatore fervente: Raphaël Glucksmann caldeggia un’economia di guerra, una resa dei conti militare con Mosca, un fondo comune europeo per la difesa pari a 100 miliardi, e il sequestro non solo dei profitti ma della quasi totalità dei fondi russi congelati nelle banche europee (“206 miliardi di euro, da indirizzare alla resistenza ucraina”).

Alla pari dei neoconservatori Usa e di parte dell’Amministrazione Biden, il capolista sorvola sullo spopolamento di Gaza e preconizza uno scontro duro con la Cina di Xi Jinping. Gli appelli dei socialisti europei alla preservazione dello Stato Sociale, al salario minimo, all’estensione delle spese sanitarie e sociali, a politiche più accoglienti dei migranti, sono vuoti di sostanza se tutti i soldi e gli investimenti andranno all’economia di guerra e all’Europa della Difesa. Glucksmann potrebbe esser scelto dall’ex sinistra francese come candidato alla successione di Macron, nel duello del 2027 con l’estrema destra rappresentata oggi da Marine Le Pen: tanto vicina è la visione geopolitica socialista a quella dell’attuale presidente. Macron è addirittura accusato di aver troppo a lungo temporeggiato, all’inizio dell’invasione dell’Ucraina, quando suggerì ai partner occidentali di “non umiliare Putin”.

Se menzioniamo l’esempio francese, è perché la strategia Usa su Ucraina e Russia è attuata con un retropensiero a proposito dell’Europa. L’egemonia esercitata dalla Germania sull’Unione europea è stata in questi due anni scalzata, la sua dipendenza dal gas e petrolio russo quasi azzerata, il suo peso economico e geopolitico grandemente ridotto. Anche con questo scopo sembra esser stato distrutto il gasdotto North Stream 1 e 2, per mano ucraina e/o statunitense.

Il vuoto tedesco è stato riempito progressivamente da Macron, che tra il 2023 e il 2024 ha moltiplicato i rapporti con il fronte degli Stati più anti-russi, nel Nord e nell’Est europeo, e con il Regno Unito fuori dall’Unione. L’Ungheria di Orbán non fa parte del fronte e mette in guardia contro un’Europa “pronta a entrare in guerra contro la Russia”. Il guaio è che le sue critiche colpiscono anche le politiche Ue sul clima, nel frattempo comunque molto annacquate.

In Italia, il Pd di Schlein è diviso sulle guerre in Ucraina e Palestina. La segretaria vorrebbe un ricollocamento a sinistra del partito, e forse per questo ha candidato oppositori della guerra come Marco Tarquinio, che comprensibilmente propugna anche lo scioglimento della Nato, considerata la scomparsa del Patto di Varsavia fin dal ’91. Resta che gli eurodeputati Pd hanno approvato sempre più compattamente le numerose risoluzioni militariste e antirusse del Parlamento. I voti contrari sono stati due o tre, sino a scomparire del tutto.

La parola d’ordine dell’Unione è mutuata da Washington e dalla Nato: invocata non è la “sovranità europea” usata come maquillage da Mattarella e Macron, ma l’ordine internazionale basato sulle regole (rules-based international order). Le regole sono fissate dal Paese che più le ha infrante dal 1947 in poi: gli Stati Uniti e l’apparato militare-industriale che a partire da quell’anno è diventato occulto, assieme ai dispositivi di intelligence,  grazie al National Security Act. Le ha infrante tramite minacce, sanzioni, interventi militari, cambi di regime, in un pianeta che pretende di governare da solo – dopo la fine dell’Urss – e che non riesce più a dominare. In Europa ha violato tutte le promesse fatte a Gorbaciov, programmando l’estensione della Nato fino alle porte della Russia (Ucraina e Georgia).

L’Europa tace e acconsente, agendo contro i propri interessi con fervore crescente e senza investire nell’ordine multipolare che sta nascendo. Ursula von der Leyen, bellicosa presidente della Commissione Ue, è alla testa del partito unico della guerra. Le cose rischiano di non mutare se Mario Draghi prenderà il suo posto. Su questo si deciderà l’8-9 giugno e nei prossimi anni: se al declino dell’unipolarismo Usa s’accompagneranno il declino e la servitù dell’Europa unita oppure no.

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Regressione europea targata Draghi

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 20 aprile 2024

Già alcuni salutano festosi Mario Draghi, autore di uno dei tanti rapporti che l’esecutivo europeo affida a tecnici esterni, e cadendo subitamente in estasi lo incoronano re, per grazia ricevuta non da Dio o dall’Ue o magari dal popolo, ma dalla grande stampa italiana sempre bramosa di recitare in coro gli stessi copioni.

C’è chi canta fuori dal coro, come l’economista Fabrizio Barca su questo giornale, ma il boato degli osanna ne sommerge la voce. Ha fatto bene Giorgia Meloni a dire quello che dovrebbe essere ovvio: non è questo il momento di nominare il presidente della Commissione o del Consiglio europeo. Le elezioni europee devono ancora cominciare e il popolo elettore non conta niente nelle nomine, ma un pochettino magari sì, se il futuro Parlamento europeo oserà ascoltarlo.

Quanto a Draghi, non dice né sì né no: lui scende dalle stelle, non sa cosa sia il suffragio universale, già una volta disse – quando guidava la Banca centrale europea e in Italia irrompevano in Parlamento i 5 Stelle – che le votazioni vanno e vengono ma non importa, per fortuna c’è il “pilota automatico” che impone quel che s’ha da fare: austerità, privatizzazioni, compressione dei redditi, pareggio dei bilanci iscritto nella Costituzione come in Germania (la Germania già sembra pentita). Era il 2013 e un anno prima Draghi si era detto “pronto a fare qualsiasi cosa per preservare l’euro”. Il whatever it takes fu accolto come salvifico dagli incensatori, specialmente a Berlino. Il prezzo, tristissimo, lo pagò la Grecia che venne tartassata e umiliata. Anni dopo, nel 2018, il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker riconobbe l’errore: “La dignità del popolo greco è stata calpestata” dall’Unione. Sono patemi estranei a chi si affida ai piloti automatici.

Forse per questo ora Draghi preconizza “cambiamenti radicali” e trasformazioni che “attraversino tutta l’economia europea”, e mette sotto accusa le strategie che fin qui hanno frammentato l’Unione, inducendo gli Stati membri a “ridurre i costi salariali l’uno rispetto all’altro”. Fa un po’ specie una denuncia simile (l’Europa ha sbagliato quasi tutto), come se negli ultimi decenni lui fosse vissuto sulla Luna, mentre è stato direttore generale del Tesoro responsabile delle privatizzazioni, managing director in Goldman Sachs, governatore della Banca d’Italia, presidente della Bce, capo del governo italiano. Forse vuol abbassare Ursula von der Leyen, cui potrebbe eventualmente succedere. Ma il discorso tenuto a Bruxelles non è diverso da quello di Von der Leyen. La concorrenza fra le due persone è finta.

Chi legga il discorso dell’ex Presidente del consiglio, a tutto penserà tranne che a un pensatore e protagonista politico. Draghi è un tecnico, impermeabile per via del pilota automatico alle sorprese di un voto nazionale o europeo. Nelle parole che dice e nel rapporto sulla competitività che presenterà a giugno, si mette al servizio di un’Europa-fortezza ineluttabilmente in guerra, e che lo sarà a lungo visto che le parole “pace” e “diplomazia” sono spettacolarmente assenti. Abbonda invece, sino a divenire filo conduttore, la parola “difesa”, che appare ben nove volte.

Prima di credere nel “cambiamento radicale” che Draghi promette, varrebbe la pena capire quel che intende quando suggerisce di competere più efficacemente con Stati Uniti e Cina, indossando gli abiti e le abitudini di un’Europa più compatta, economicamente, industrialmente e tecnologicamente. Se i Paesi rivali sono più forti, dice, è anche perché sono “soggetti a minori oneri normativi e ricevono pesanti sovvenzioni”. L’Europa soffre di troppe norme (immagino parli di clima, welfare, commercio) e le converrà adattarsi.

Passando alla crisi demografica, non è in vista alcun “cambio radicale”, ma l’accettazione condiscendente, passiva, dell’esistente: l’avanzata di una destra al tempo stesso sia neoliberista sia neoconservatrice. Ragion per cui è accettata per buona un’Europa che diventi fortezza non solo armandosi, ma anche chiudendosi a migranti e rifugiati. Draghi volonterosamente prende atto senza batter ciglio che la fortezza è ormai una realtà: “Con l’invecchiamento della società e un atteggiamento meno favorevole nei confronti dell’immigrazione, dovremo trovare queste competenze (lavoratori qualificati mancanti) al nostro interno”.

Dicono gli osannanti che Draghi è il glorioso erede dei padri fondatori dell’Europa, e infatti l’ex presidente del Consiglio promette una “ridefinizione dell’Unione europea non meno ambiziosa di quella operata dai Padri Fondatori”. Ma il suo non è un ritorno all’Europa della pianificazione industriale e dello Stato sociale, tanto è vero che l’Europa da “trasformare” viene da lui definita come “nuovo partenariato tra gli Stati membri” o come “sottoinsieme di Stati membri”, da cui sono esclusi coloro che non ci stanno: una Coalizione di Volonterosi insomma, formula usata nelle tante guerre di esportazione della democrazia.

Dopo la scomparsa della Comunità, scompare anche il termine che l’aveva sostituita: Unione. Un partenariato siffatto, una Difesa Comune senza politica estera europea e senza Stato europeo, è di fatto – e inevitabilmente – al servizio della Nato e della potenza politica Usa che la guida. L’Europa ai tempi della fondazione era innanzitutto un progetto di pace. Fingere di tornare a quei tempi è pura prestidigitazione. Si alleano fra loro i tecnici, le élite che mai si misurano alle urne. Sono loro ad aderire al cosiddetto ordine internazionale basato sulle regole (rules-based international order) propagandato da Washington da quando Unione europea e Nato son diventate sinonimi e hanno ufficialmente adottato l’economia di guerra contro la minaccia russa e cinese.

Secondo Draghi, tale ordine globale è stato corroso da forze esterne al campo euro-atlantico. “Credevamo nella parità di condizioni a livello globale e in un ordine internazionale basato sulle regole, aspettandoci che gli altri facessero lo stesso. Ma ora il mondo sta cambiando velocemente, e siamo stati colti di sorpresa”. Neanche un minuto il sorpresissimo Draghi è sfiorato dal sospetto che i primi a violare le regole internazionali, i patti sulla non espansione della Nato, le convenzioni sulla guerra, la tortura, il genocidio, sono stati gli occidentali, a partire dagli anni 90, e con loro lo Stato di Israele. Ci limitiamo agli ultimi casi: l’Amministrazione Usa che giudica “non vincolante” una risoluzione Onu sulla guerra di Gaza che è a tutti gli effetti un vincolo; le violazioni del diritto internazionale nelle ripetute guerre di regime change, la mancata condanna dell’assassinio di alti dirigenti militari iraniani nell’annesso consolare dell’ambasciata di Teheran in Siria, cioè in territorio iraniano (attentato terroristico a cui Teheran ha reagito con l’invio di droni e missili).

Da bravo tecnico, Draghi ignora volutamente queste quisquilie e resta convinto che le regole – non quelle Usa, ma le uniche globalmente legittime: quelle dell’Onu – non siamo mai stati noi a infrangerle.

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