Guerre e migranti, il diritto è a pezzi

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 23 ottobre 2024

A forza di violarli e ignorarli, il diritto internazionale e quello europeo stanno diventando ininfluenti, inconsistenti come fossero soffioni: basta un soffio e i semi si disperdono nell’aria.

Accade nella guerra in Ucraina, e a Gaza, in Libano, in Cisgiordania. Non c’è convenzione internazionale e risoluzione Onu che sia rispettata, specie a Gaza dove secondo la Corte di giustizia dell’Onu è “plausibile” il genocidio, chiamato alternativamente sterminio o pulizia etnica.

E accade anche per quanto riguarda il diritto europeo, in questi giorni in Italia. Il diritto dell’Unione è preminente sulle leggi nazionali, e resta tale anche con il decreto sui Paesi sicuri che il governo ha varato lunedì come norma non più secondaria, ma primaria. La legge europea sancisce il diritto dei migranti a fuggire dal proprio Paese e a chiedere asilo in Europa, se la nazione di provenienza li perseguita o li minaccia, e dunque non è “sicura”. La Corte di giustizia europea ha confermato il 4 ottobre che i migranti non possono esser rispediti in Paesi che non siano sicuri in tutte le loro parti e per numerose categorie di persone.

È il motivo per cui il Tribunale di Roma, obbedendo alla vincolante legge europea, ha costretto il governo Meloni a riportare in Italia i dodici migranti trasferiti in Albania: i Paesi da cui erano fuggiti sono l’Egitto e il Bangladesh, che il governo italiano continua a ritenere sicuri e che per il diritto europeo non lo sono, né in parte né in toto. I giudici non potevano che disapplicare il trattenimento dei migranti in Albania, dove le procedure di rimpatrio sono accelerate e le tutele minime. Come ricorda giustamente Franz Baraggino sul giornale e il sito del «Fatto» ogni giudice italiano è anche giudice europeo, e “un Paese di provenienza è sicuro per tutti o non lo è per nessuno”.

Non bisogna tuttavia illudersi. Al pari del diritto internazionale, anche quello europeo sta disperdendosi nell’aria, perché il Patto sulla Migrazione e l’Asilo approvato nell’aprile scorso permetterà a partire dal 2026 di respingere con procedure d’urgenza chi fugge da Paesi solo in parte sicuri. Secondo la Commissione Ue, il nuovo sistema “è orientato ai risultati ma ben ancorato ai valori europei” (in inglese la dicitura è più cruda: il management sarà “sostenibile e dignitoso”).

Una serie di Paesi Ue insiste perché il nuovo Patto sia introdotto fin dal 2025. E non pochi governi, con la presidente della Commissione Ursula von der Leyen, elogiano il modello Albania sottacendo la questione Paesi sicuri. D’altronde non sono sicuri la Libia, l’Egitto, la Tunisia, il Sudan, con cui l’Unione ha stipulato costosi accordi di rimpatrio. Inoltre il primato del diritto europeo su quello nazionale è diffusamente contestato: dalla destra ed estrema destra in Francia, dall’estrema destra in Polonia.

Scrive l’avvocato Fulvio Vassallo che il nuovo Patto sulla Migrazione cancellerà gran parte del diritto d’asilo, proprio “nel momento in cui arriveranno i richiedenti asilo frutto delle guerre di cui sono complici gli Stati europei”. Allo svanire del diritto internazionale e delle sue Convenzioni (genocidio, rifugiati, tortura, protezione dei civili nelle guerre, diritto umanitario, diritti dell’infanzia, razzismo) contribuiscono anche gli Stati Uniti, come complici decisivi, che s’allarmano per il carnaio a Gaza e l’invasione del Libano ma facilitano ambedue fornendo bombe a Israele, aiutandolo in Libano e promettendo assistenza contro l’Iran.

Così vengono frantumate sia le leggi europee, sia le istituzioni e le leggi internazionali create dopo l’esperienza nazifascista.

È sotto attacco l’Onu, in prima linea. È ormai usuale trattarla come ostacolo irrilevante, e Netanyahu imita Washington che a partire dall’11 settembre 2001 ha scatenato guerre feroci contro gli “assi del male”, delegittimando e aggirando le Nazioni Unite. Il culmine lo sta toccando Netanyahu, convinto o istigato da ministri neofascisti che desiderano annettere Gaza e Cisgiordania.

L’assalto ai soldati Onu nel Sud Libano (Unifil) ha suscitato grande riprovazione, ma è solo l’ultima di una lunga serie di offensive israeliane contro l’Onu. Vari governi europei hanno definito “inaccettabile” quel che continuano ad accettare, come sempre accade quando si usa questo scabrosissimo aggettivo. “È una guerra contro il mondo”, si rammarica l’ex Presidente del Consiglio Prodi, e aggiunge una frase bizzarra: “Non avrei mai creduto che potesse avvenire”. In realtà tutto è già avvenuto. L’Onu e le sue leggi sono in fiamme da tempo e in particolare dopo l’attentato Hamas del 7 ottobre 2023.

È sotto attacco il Segretario generale Onu, che non si stanca di condannare la punizione collettiva che s’abbatte su un intero popolo (compresi bambini, donne, medici, giornalisti) per gli eccidi commessi da Hamas. A partire dal 2 ottobre, Antònio Guterres è stato dichiarato persona non grata in Israele per non aver subito deplorato la rappresaglia iraniana dopo l’assassinio di Nasrallah, leader di Hezbollah.

È sotto attacco l’Unwra, l’agenzia Onu che dal 1949 assiste i Palestinesi a Gaza e in Cisgiordania, oltre che in Giordania, Libano e Siria. Per il governo israeliano Hamas e Unwra sono la stessa cosa e nel gennaio scorso Netanyahu ha accusato dodici suoi rappresentanti di partecipazione al massacro del 7 ottobre. Il 22 aprile l’accusa è stata giudicata senza fondamento da un’analisi indipendente commissionata dall’On. A Gaza, le sedi Unwra, le sue scuole, i suoi ospedali sono stati rasi al suolo. Più di 230 suoi dipendenti sono stati ammazzati. Parecchi Stati occidentali, tra cui l’Italia, hanno sospeso i finanziamenti, sia pure temporaneamente, dopo la denuncia di Netanyahu.

Non per ultima è sotto attacco la Corte internazionale di giustizia, organo giudiziario dell’Onu. La Corte ha statuito nel gennaio 2024 che il rischio di genocidio a Gaza è plausibile, e ha ordinato a Israele di adottare entro un mese le misure per prevenirlo. La sentenza è denigrata dal governo israeliano.

Nonostante le tante violazioni, l’Occidente si proclama custode del diritto internazionale, specie in Ucraina. Ma anch’esso aggira l’Onu, propugnando un suo ordine basato sulle regole: quelle della Nato e di Washington. La tesi prevalente nei governi e nei media tradizionali è che accettare la sconfitta di Kiev vuol dire avallare le trasgressioni del diritto internazionale e la modifica bellicosa dei confini: cosa che l’Occidente ha già abbondantemente fatto, smantellando militarmente la Jugoslavia e rovesciando i regimi malvisti con soldi e armi. La Russia è malvista, ma è una potenza nucleare, dunque Washington per ora è prudente. Non ci sarà da stupirsi se l’Iran, osservando come vanno le cose, si doterà anch’essa del deterrente atomico, che Israele possiede da mezzo secolo.

In mezzo alle rovine del diritto internazionale ed europeo, non restano in piedi che l’equilibrio del terrore, e il falso progressismo di chi vuole accogliere i migranti solo perché “ci servono economicamente”.

© 2024 Editoriale Il Fatto S.p.A.

Perché oggi l’atomica è di nuovo possibile

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 26 settembre 2024

Si sente spesso dire, da politici e commentatori, che gli europei non sono quelli d’un tempo: hanno paura della guerra, non sanno più farla. Anche quando combattono per procura, lasciando che siano gli ucraini a morire per i cosiddetti Valori Occidentali, son pronti a vendere le armi ma non la pelle.

Degli Stati Uniti si dicono cose analoghe, anche se Washington ha uno scopo specifico: fingere un’egemonia planetaria peraltro già perduta. All’Europa apatica e invertebrata mancherebbe il coraggio: quello che ti spinge entusiasticamente al fronte e all’economia di guerra per difendere una Causa.

Queste lamentazioni apparentemente vorrebbero risvegliare, smuovere, ma sono in realtà prive di senso. Il motivo per cui la guerra e gli stermini sono visti più volentieri in Tv che guerreggiati in prima persona – ma comunque visti volentieri e caldeggiati – nasce non dalla paura di essere coinvolti e sacrificare soldati, ma da una mancanza spettacolare di paura.

Le guerre del 900 sono ricordate, non senza timori, ma stranamente c’è una guerra che non sembra suscitare autentica e durevole paura nei politici: il conflitto nucleare, scatenato magari dall’uso russo di atomiche tattiche nel teatro di guerra ucraino e seguito non improbabilmente da uno scontro nucleare tra Russia-Occidente. Per quanto riguarda le guerre dello Stato israeliano (Gaza, Libano, Cisgiordania, Siria, Yemen, in prospettiva Iran) quel che viene occultato, più che dimenticato, è il potenziale atomico di cui Israele dispone dagli anni 60: oggi tra 100 e 200 testate.

C’è da domandarsi se questo grande lamento dei politici nasca da una memoria sepolta ad arte di quel che fu il bombardamento del Giappone nel 1945, prima a Hiroshima poi a Nagasaki, nonostante Tokyo fosse già pronta alla resa. A deciderlo fu il presidente Harry Truman. Poi durante la Guerra di Corea (1950-53) l’uso dell’atomica fu nuovamente contemplato dal generale Douglas MacArthur. Il comandante delle truppe nella zona di guerra supplicò Truman di colpire Corea del Nord e Cina con 34 bombe nucleari. Per fortuna fu licenziato.

Già in Corea dunque l’atomica era banalizzata. In Europa si moltiplicavano i movimenti anti-nucleari ma l’esperienza di Hiroshima e Nagasaki finì nel dimenticatoio. Fu certamente un crimine contro l’umanità se non un genocidio, ma molti esperti e politici continuano a dire che la guerra con il suo strascico di morte sarebbe durata per anni, se non fosse stata provvidenzialmente interrotta da “Little Boy” e “Fat Man”, i due nomi scherzosi dati alle ogive. Negli anni successivi il governo giapponese preferì nascondere il fatto che Tokyo prima di agosto era disposta alla resa, e che le atomiche furono sganciate per mandare un segnale all’Unione Sovietica, in vista delle imminenti spartizioni d’Europa.

Uno dei motivi per cui la banalizzazione e gli occultamenti sono stati possibili e accettati dai vincitori del ’45, secondo lo storico di diritto internazionale Richard Falk, è la “sbalorditiva coincidenza”, nel dopoguerra, di due eventi cruciali: la decisione dei vincitori di convocare il tribunale di Norimberga contro i crimini nazisti, l’8 agosto 1945, e i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki due giorni prima e uno dopo, il 6 e 9 agosto dello stesso anno.

Non solo il Tribunale adottò una giustizia dei vincitori, mettendo appropriatamente sotto accusa la Germania di Hitler, ma sorvolando sui crimini di guerra degli alleati (distruzione totale e indiscriminata di Dresda e di molte città tedesche, lucidamente descritta da Winfried Sebald in “Storia naturale della distruzione”). Ancor più gravemente, il Tribunale fu muto sulle atomiche impiegate in Giappone.

Il misfatto dei vincitori occidentali – responsabile Usa in testa – perdura nonostante le ripetute commemorazioni, e le due bombe non ricevono la denominazione che meritano: un delitto condannabile accanto a quelli nazisti. A tutt’oggi gli Stati Uniti non sono chiamati a rendere conto, e come minimo a scusarsi, di quello che fu un inequivocabile crimine contro l’umanità: né militarmente giustificato, né legale, né legittimo. Gli uccisi dalle due esplosioni a Hiroshima e Nagasaki furono 214.000, i feriti 150.000. Negli anni successivi migliaia di sopravvissuti morirono o s’ammalarono di cancro, leucemia e altri effetti delle radiazioni.

Scrive ancora Richard Falk, a proposito dell’impunità di cui godettero, e godono ancora, le amministrazioni Usa: “Non si tratta solo di insensibilità. Si tratta di intorpidimento morale, che predispone gli attori politici – siano essi Stati, imperi o leader – ad abbracciare crimini passati e a commettere futuri crimini” («Counterpunch», 12.8.2022). Rivelatore il titolo del film di Stanley Kubrick, nel 1964: Il dottor Stranamore – Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba. La bomba atomica si abbraccia, si ama. Così si trasforma in impiegabile mezzo di guerra.

La guerra di Israele in Medio Oriente e tra Nato e Russia in Ucraina, più quella che si prospetta con Pechino su Taiwan e sul Mar cinese meridionale, può sfociare in conflagrazione nucleare. Alla luce di questa possibilità, è dissennato svilire e denunciare la paura che pervade parte delle popolazioni. Dopo Hiroshima e Nagasaki, e da quando Israele e altri Stati si sono dotati dell’atomica, la natura della guerra è inevitabilmente cambiata. Anche il pianeta, barcollante com’è, non sopporterebbe simili disastri. Ripetere che in Ucraina l’Occidente “non sa più fare le guerre” è da scriteriati. Washington ne pare più consapevole dell’Unione europea.

Nel 1979 il filosofo Hans Jonas disse, nel libro Il principio responsabilità, che esiste un’euristica della paura, che impone di cercare e conoscere meglio noi stessi grazie alle energie racchiuse nei nostri spaventi, se si ha a cuore il futuro della terra. Esiste la possibilità di correggere politiche e comportamenti, scrisse, se non ci si affida a visioni salvifiche (esportazioni del comunismo, della democrazia) ma a visioni di possibili catastrofi.

Fa parte di questa euristica (ricerca, scoperta), la consapevolezza che le guerre in corso non solo si potevano evitare ma possono essere fermate, e che a questo scopo le parole di condanna non bastano, specie se provenienti dall’Onu e dai suoi veti. Può invece bastare l’interruzione totale dell’invio di armi sia a Israele, sia a un’Ucraina che non può vincere e per salvarsi dovrà trattare subito. La condizione è smettere la complicità dei governi con le industrie di produzione e commercio di armi, interessatissime a proseguire le guerre. Secondo il SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) i primi tre fornitori di armi a Israele sono Usa, Germania e Italia. Quando se ne comincerà a parlare in Italia?

Ecco perché è davvero una controverità continuare a ignorare o insultare le paure dei cittadini, e a immaginare un’Europa bellicosa come nei “bei tempi passati”. È il coraggio della pace che ci vuole, ma unito alla volontà di prender sul serio la paura dell’atomica.

© 2024 Editoriale Il Fatto S.p.A.

Occidente, democrazia zombi

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 21 settembre 2024

Verrà il momento in cui andare a votare sarà un nonsenso, a meno di non abbellire l’evento con spettacoli gratuiti, a ogni seggio: concerti, fuochi d’artificio, varietà.

Già oggi nelle principali democrazie occidentali le elezioni sono puro spettacolo teatrale: sono elezioni zombi per una democrazia zombi, afferma lo storico Emmanuel Todd nel suo ultimo libro (La Défaite de l’Occident, La disfatta dell’Occidente).

Niente di quanto dicono e promettono i candidati è verosimile, essendo presto smentito. Anche il linguaggio che usano – stigmatizzazioni automatiche, formule in stile pubblicitario ripetute tante volte che paiono rivolgersi ai sordi – serve a dissimulare, nascondere, perpetuare il potere di élite dominanti che solo per finta si sottopongono al voto. Le élite sono al servizio delle lobby sulle questioni essenziali (pace e guerra, finanze, energia, clima) e le lobby aborrono lo scrutinio universale.

Nel vocabolario delle élite europee spiccano parole nebbiose e sconclusionate, utili a screditare il dissenso. L’accusa di sovranismo è la principale: chiunque reclami più indipendenza, nazionale o europea, commette peccato sovranista. Altro epiteto infamante: populista. La storia del populismo è lunga e complessa, ma è oggi usata per denigrare la sovranità popolare e svuotare il suffragio universale.

Gli episodi di democrazia zombi si moltiplicano negli ultimi tempi, annullando non tanto le alternanze politiche – i passaggi di governo da un campo all’altro – quanto la possibilità che le alternanze producano alternative. Il potere enorme e tutelare del gruppo centrale che governa malgrado le elezioni incorpora le sinistre centriste e non tollera alternative. Nel 2013 Mario Draghi incensò il “pilota automatico” che negli organi dell’Unione europea era indifferente alla sovranità popolare e alla dialettica destra-sinistra. Nel 1993 Clinton coniò il termine “democrazia di mercato”. Continuamente evocati, i Valori imbellettano l’erosione delle democrazie operata dall’ideologia neoconservatrice che resta ai comandi ed è legata alle grandi industrie dell’energia e degli armamenti.

Il caso statunitense va menzionato per primo, visto che si tratta della superpotenza da cui l’Europa vuole dipendere. Nella campagna contro Donald Trump, Kamala Harris pretende di rappresentare la sinistra in lotta contro l’estrema destra. E certamente Trump è totalmente imprevedibile, dunque pericoloso. Ma ecco che improvvisamente, a spalleggiare Harris, scendono in campo personaggi neoconservatori di destra ben più nefasti di Trump: tra questi campeggia Dick Cheney, già vicepresidente di Bush jr, che in realtà comandò e stravolse gli equilibri internazionali al posto del Presidente, e che è responsabile di 5 milioni di morti nelle guerre successive all’attentato dell’11 settembre, in Afghanistan e in Iraq oltre che in vari altri Paesi del globo.

È Cheney l’ideatore-organizzatore delle prigioni di Guantanamo, del Memorandum che legalizzava la tortura in Iraq e in Afghanistan, della sorveglianza di massa dei cittadini (Patriot Act), del ricorso della Cia al trasporto, alla detenzione illegale e alla tortura di prigionieri sospettati di terrorismo in undici Paesi europei tra cui l’Italia (Extraordinary Rendition). È lui che mise in pratica l’estensione dei poteri presidenziali, tramite la “teoria dell’esecutivo unitario”. Anche Alberto Gonzales, consigliere giuridico di G.W. Bush e responsabile del Memorandum sulla tortura, appoggia Kamala Harris.

Sia Cheney sia Gonzales sarebbero liberi di cambiare casacca, se la cambiassero. Non l’hanno cambiata e tuttavia Harris si è detta “onorata” dalla scelta di Cheney, nel duello televisivo con Trump, e ha fatto capire che continuerà a capeggiare il Partito Unico della Guerra che Biden ha guidato in questi anni: alimentando il conflitto Usa-Russia in Ucraina e sostenendo con armi e danaro la guerra di Israele su più fronti (genocidio a Gaza, ritenuto “plausibile” dalla Corte Internazionale di Giustizia dell’Onu; offensiva anti-Palestinese in Cisgiordania, mortiferi attacchi cibernetici in Libano e Siria, missili ieri su Beirut). Nel dibattito con Trump, Harris ha promesso di aiutare Israele contro i nemici esterni: cioè Iran, Hezbollah, Huthi dello Yemen. “Abbiamo le forze armate più letali del mondo”, ripete con fierezza. Sull’immigrazione proclama che anche lei erigerà muri al confine col Messico, più efficacemente di Trump.

C’è poi il caso francese. A luglio si è votato per una nuova Camera e la sinistra unita nel Nuovo Fronte Popolare è arrivata prima, con un classico programma socialdemocratico: aumento del salario minimo, tassazione di extraprofitti, fiscalità che non favorisca i più ricchi, riforma più equa delle pensioni. Macron non ha accettato l’esito elettorale, pur sapendo che i propri deputati sarebbero dimezzati senza le desistenze al secondo turno delle sinistre. Risultato: l’Eliseo ha nominato Primo ministro Michel Barnier, esponente di uno dei partiti meno votati, i Repubblicani. Macronisti e Destra Repubblicana sono centrali nel nuovo governo, e la politica di ieri, respinta da tre quarti dei francesi, continua indisturbata. In mancanza di maggioranza, non potrà che patteggiare con l’estrema desta. Macron non è riuscito a dividere le sinistre, perché i socialisti restano per ora fedeli all’unità. Il suffragio universale per Macron è un non evento.

Terzo caso: i laburisti di Keir Starmer, che fra il 2018 e il 2020 ha emarginato la vera sinistra di Jeremy Corbyn, profittando delle campagne che lo bollavano come antisemita e forse aizzandole. Sull’immigrazione Starmer rinnega solo in apparenza i conservatori: gli immigrati che aspirano alla regolarizzazione non verranno trasferiti in Ruanda ma in Albania, quali che siano i costi e la legalità. Starmer si dice attratto dal “modello Meloni” e si è recato a Roma per omaggiarlo.

Ultimo caso degno di nota: quello del Parlamento europeo, che non ha potere né rappresentatività in politica estera, ma influisce su media e partiti nazionali. Giovedì ha approvato un’ennesima risoluzione che propugna l’uso di missili occidentali in Russia, dunque lo scontro diretto Nato-potenza atomica russa. Neanche una riga è dedicata ai negoziati. Hanno votato a favore i Popolari, i Liberali, i Verdi, i Socialisti e parte dei conservatori.

Per l’Italia si sono opposti 5 Stelle, Sinistra, Verdi e Lega. Solo due socialisti si sono astenuti, Cecilia Strada e Marco Tarquinio. Piuttosto ridicoli gli eurodeputati Pd: prima hanno votato la cancellazione del paragrafo sull’uso dei missili in Russia, poi hanno approvato l’intera risoluzione con il paragrafo non eliminato. Nell’Europarlamento dominano i centristi del Pd. E i centristi, come diceva Mitterrand, “non sono né di sinistra né di sinistra”.

Il modo migliore di tradire l’elettore è convincerlo a scegliere il “male minore”. Sono considerati un male minore Kamala Harris, Macron, Starmer, perfino Meloni quando aderisce all’interventismo Neocon. Il male minore è talmente simile al male che meglio fingere che sia un bene e addirittura un Valore europeo.

© 2024 Editoriale Il Fatto S.p.A.

Il Parlamento Ue filiale della Nato

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 20 luglio 2024

In soli due giorni, il nuovo Parlamento europeo ha mostrato quello che è: una succursale della Nato, egemonizzata da Washington e indifferente a quanto domanda gran parte dei cittadini.

La prima risoluzione approvata dall’assemblea, il 17 luglio, ribadisce quanto affermato in passato –la necessità di accrescere gli aiuti militari all’Ucraina– ma con alcune varianti particolarmente aggressive contro la Russia. Il giorno dopo gli europarlamentari hanno rieletto Ursula von der Leyen Presidente della Commissione, che di questa intensificazione bellicosa è paladina e garante.

Nella risoluzione di mercoledì, i deputati si dicono convinti che “l’Ucraina sta seguendo un percorso irreversibile verso l’adesione alla Nato”. Non erano mai ricorsi a quest’aggettivo – irreversibile – che serve solo a distruggere l’Ucraina. Oggi lo usano sfrontatamente, ricopiando il punto 16 del comunicato approvato dal vertice Nato il 10 luglio. Evidentemente l’Occidente continua a pensare che Putin non prenda queste parole sul serio. Che si possa entrare in guerra – anche atomica – con gli occhi bendati. Che si possa continuare a far morire gli ucraini al posto nostro.

Altra novità di rilievo: il Parlamento “sostiene fermamente l’eliminazione delle restrizioni all’uso dei sistemi di armi occidentali forniti all’Ucraina contro obiettivi militari sul territorio russo”. Autorizzare gli ucraini a colpire il territorio russo con missili Usa e europei vuol dire trasformare definitivamente il conflitto russo-ucraino in guerra occidentale contro la Russia. Un passo che fin qui era stato compiuto da singoli Stati europei ma non da tutti.

Il governo italiano per esempio è contrario a colpire la Russia, in accordo con le opposizioni. Non la pensano allo stesso modo gli eurodeputati PD, che mercoledì hanno votato in blocco la risoluzione. Fanno eccezione Marco Tarquinio e Cecilia Strada, che si sono astenuti ma sono stati eletti come indipendenti. Hanno votato contro i deputati 5 Stelle, oggi nel gruppo Left, come i deputati di Sinistra e i Verdi di Bonelli.

La risoluzione non accenna neanche marginalmente a negoziati di tregua o di pace, e ripete l’impegno a sostenere l’Ucraina “tutto il tempo necessario a garantire la vittoria dell’Ucraina”. Chi decide i negoziati è l’amministrazione Usa: non sia mai detto che l’Europa – ben più coinvolta nella guerra – prenda iniziative eterodosse. La missione diplomatica di Viktor Orbán in Russia, Ucraina, Cina, Azerbaigian, Stati Uniti è condannata con sdegno dall’europarlamento e da von der Leyen, che parlando di appeasement (pacificazione) mette sullo stesso piano Putin e Hitler.

Il Presidente ungherese è il primo in Europa a tentare una mediazione, dopo Erdogan, ma il verdetto delle istituzioni Ue è feroce: la pace non s’ha da fare, né domani né mai. Specie se a negoziare è Orbán, che non è democratico (come se Erdogan o Xi Jinping lo fossero). Inoltre, vanno “estese le sanzioni nei confronti di Russia e Bielorussia”. L’Unione ha già adottato 14 pacchetti di sanzioni, ma il Parlamento è insaziabile.

Due conclusioni si possono trarre da questa votazione. Le divisioni fra governo e opposizione che esistono in Italia si dissolvono a Bruxelles, in nome dell’immutata sacra alleanza fra Popolari, Socialisti, Liberali e se necessario Verdi. I deputati Pd si dissociano dunque, sprezzanti, dalla linea di Elly Schlein. Linea ambigua, ma ferma sull’opportunità di negoziati. Il 29 maggio la segretaria aveva detto in un’intervista alla Tv: “Ho letto le dichiarazioni di Macron sull’ipotesi di togliere le limitazioni all’uso delle armi fornite dagli europei all’Ucrainaper colpire obiettivi in Russia. (…) Noi non siamo d’accordo: siamo per evitare un’escalation con un ingresso diretto della UE in guerra con la Russia”. E aveva aggiunto, perché le cose fossero chiare: “La linea di politica estera del Pd è quella che ho appena rappresentato”.

Le cose tuttavia non sono affatto chiare, come risulta dal voto dei suoi eurodeputati. La delegazione Pd nel Parlamento europeo resta neoconservatrice in politica estera e di difesa come nella precedente legislatura. Scompare infine qualsiasi accenno alle zone frontaliere russe, oltre le quali fino a poco fa sembrava vietato colpire coi missili. L’inasprimento sarà confermato dal nuovo Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, l’ex Premier estone Kaja Kallas. In patria è chiamata Dama di Ferro ed è molto discussa: lei è ai limiti della russofobia, mentre il marito ha fatto affari con la Russia. Sull’Ucraina non sarà diversa dal predecessore Josep Borrell, ma difficilmente sarà severa con Israele come lo è stato lui.

Seconda conclusione: il Parlamento europeo non risponde alla volontà dei propri elettori, contrari in tutti i paesi a un confronto diretto Occidente-Russia. Ignora la storia delle relazioni occidentali con Mosca dopo la fine dell’Urss, e fa propria la fraseologia dell’Alleanza Atlantica. Al pari di Ursula von der Leyen, non esita a tramutare sé stesso e tutta l’Unione in dispositivi della Nato. Finge a parole una sovranità strategica e pratica la sottomissione agli Stati Uniti. Unico motivo di sollievo: le sue risoluzioni bellicose non sono vincolanti, perché la politica estera non è competenza dell’UE ma degli Stati.

Ci si può chiedere come possa succedere che l’europarlamento produca risoluzioni così lontane dalle volontà dei governi e degli elettori. Una prima spiegazione potrebbe essere questa: il Parlamento ha poteri limitati, e soprattutto in politica estera e di difesa può solo sproloquiare: la sua irresponsabilità non è associata al potere. Ma c’è di più. Il Parlamento non ha una maggioranza e un’opposizione simili a quelle che esistono negli Stati membri, e non è confrontato con un governo che rappresenti l’una o l’altra parte.

La Commissione nasce da un accordo fra Stati, completamente dissociato dagli esiti del voto europeo. È una governance tecnocratica, non un governo politico. E nel Parlamento regna il consociativismo, la convergenza sistematica cui si oppongono solo estrema destra e sinistra di Left. Tutte le risoluzioni, ma anche i testi legislativi – le direttive, i regolamenti subito applicabili negli Stati – nascono da un mercanteggiamento sfibrante fra i vari gruppi parlamentari (nelle commissioni, nei negoziati che formulano i testi da sottoporre al voto nelle plenarie). Il mercanteggiamento deve produrre testi che accontentino tutti: relatori principali e “relatori ombra” per ciascun gruppo, e anche Commissione e Stati membri per le direttive e i regolamenti. Per forza ogni asperità è cancellata.

Spesso si sente dire che l’arte del compromesso praticata a Bruxelles e Strasburgo è un modello: un fulgido esempio di armonia e di consenso. I media francesi elogiano ininterrottamente questa virtù, negli ultimi giorni, contrapponendola ai vizi del proprio Parlamento diviso. Ma il consenso fatto di ripetute compromissioni non è sinonimo di democrazia, né in Francia né in Europa.

© 2024 Editoriale Il Fatto S.p.A.

Ue: sì o no al Partito unico della guerra

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 5 giugno 2024

Per molti elettori non sarà semplice scegliere e votare alle elezioni europee dell’8-9 giugno. Gran parte delle nostre leggi sono co-decise dal Parlamento europeo, assieme a Commissione e Stati membri, dunque il voto non è inutile.

Ma sulle due questioni oggi vitali – la guerra che rischia di divenire mondiale, il collasso climatico – esiste ormai in Europa una sorta di partito unico, che mette sullo stesso piano Unione e Nato e che non cambierà affatto fisionomia, se l’attuale maggioranza dovesse estendersi ai conservatori di Giorgia Meloni. Non cambierà neanche se sarà abolito il diritto di veto nelle decisioni Ue. I governi dell’Unione, quasi all’unanimità e ignorando i propri popoli, non sembrano temere la guerra, neanche nucleare.

Per forza di cose, il partito della guerra non sarà neppure in grado di frenare il collasso del pianeta, perché se davvero volesse farlo dovrebbe promuovere la collaborazione pacifica e il disarmo fra i massimi inquinatori: Cina, Usa, Ue, India, Russia. Se volesse farlo, riproporrebbe l’ordine europeo e internazionale immaginato nel brevissimo intervallo temporale fra caduta del Muro e scioglimento dell’Urss, quando Gorbaciov propose una Casa Comune Europea e fu sottoscritta la “Carta di Parigi per una Nuova Europa”, nel novembre 1990. I principali firmatari della Carta erano Gorbaciov, George Bush sr, Kohl, Mitterrand e Andreotti per l’Italia. “Era quel periodo benedetto in cui il mondo sembrava un posto abbastanza sicuro, tra la fine della Guerra fredda e circa dieci minuti dopo”, scrive Mick Herron nel romanzo Slow Horses: Un Covo di Bastardi.

L’avvento del partito unico della guerra ha imbastardito il dibattito politico e la campagna elettorale in tutti i Paesi europei. Chi si oppone all’invio in Ucraina di armi sempre più offensive e alle ripetute sanzioni contro la Russia (13 “pacchetti” di misure restrittive, che dal 2022 hanno penalizzato più l’Unione che Mosca) riceve lo stigma di putiniano o sovranista o antieuropeo. Chi auspica collaborazioni con Pechino è accusato di ostilità verso Taiwan e complicità con la repressione cinese di uiguri e tibetani. Chi condanna lo spopolamento sanguinario di Gaza attuato dall’esercito israeliano – sempre più simile a un genocidio, visto che i palestinesi sono stati intrappolati nella Striscia senza via d’uscita – è tacciato di antisemitismo e antisionismo, come se i due termini fossero identici e anche quando vien condannato l’eccidio del 7 ottobre. La maggior parte dei governi Ue, compreso il nostro, si rifiuta di riconoscere lo Stato palestinese.

In questo modo sono stati denigrati i dissidenti in campagna elettorale: il Movimento 5 Stelle e quello di Michele Santoro in Italia, la sinistra di Mélenchon in Francia, Podemos in Spagna, l’Alleanza di Sahra Wagenknecht in Germania. Sulla guerra, è più che mai difficile distinguere fra ex sinistra, centristi, destra dei Popolari (Forza Italia), Conservatori (Meloni), e Verdi, specie tedeschi.

Il caso più spettacolare è quello francese. Il Partito socialista ha scelto come capolista un neoconservatore fervente: Raphaël Glucksmann caldeggia un’economia di guerra, una resa dei conti militare con Mosca, un fondo comune europeo per la difesa pari a 100 miliardi, e il sequestro non solo dei profitti ma della quasi totalità dei fondi russi congelati nelle banche europee (“206 miliardi di euro, da indirizzare alla resistenza ucraina”).

Alla pari dei neoconservatori Usa e di parte dell’Amministrazione Biden, il capolista sorvola sullo spopolamento di Gaza e preconizza uno scontro duro con la Cina di Xi Jinping. Gli appelli dei socialisti europei alla preservazione dello Stato Sociale, al salario minimo, all’estensione delle spese sanitarie e sociali, a politiche più accoglienti dei migranti, sono vuoti di sostanza se tutti i soldi e gli investimenti andranno all’economia di guerra e all’Europa della Difesa. Glucksmann potrebbe esser scelto dall’ex sinistra francese come candidato alla successione di Macron, nel duello del 2027 con l’estrema destra rappresentata oggi da Marine Le Pen: tanto vicina è la visione geopolitica socialista a quella dell’attuale presidente. Macron è addirittura accusato di aver troppo a lungo temporeggiato, all’inizio dell’invasione dell’Ucraina, quando suggerì ai partner occidentali di “non umiliare Putin”.

Se menzioniamo l’esempio francese, è perché la strategia Usa su Ucraina e Russia è attuata con un retropensiero a proposito dell’Europa. L’egemonia esercitata dalla Germania sull’Unione europea è stata in questi due anni scalzata, la sua dipendenza dal gas e petrolio russo quasi azzerata, il suo peso economico e geopolitico grandemente ridotto. Anche con questo scopo sembra esser stato distrutto il gasdotto North Stream 1 e 2, per mano ucraina e/o statunitense.

Il vuoto tedesco è stato riempito progressivamente da Macron, che tra il 2023 e il 2024 ha moltiplicato i rapporti con il fronte degli Stati più anti-russi, nel Nord e nell’Est europeo, e con il Regno Unito fuori dall’Unione. L’Ungheria di Orbán non fa parte del fronte e mette in guardia contro un’Europa “pronta a entrare in guerra contro la Russia”. Il guaio è che le sue critiche colpiscono anche le politiche Ue sul clima, nel frattempo comunque molto annacquate.

In Italia, il Pd di Schlein è diviso sulle guerre in Ucraina e Palestina. La segretaria vorrebbe un ricollocamento a sinistra del partito, e forse per questo ha candidato oppositori della guerra come Marco Tarquinio, che comprensibilmente propugna anche lo scioglimento della Nato, considerata la scomparsa del Patto di Varsavia fin dal ’91. Resta che gli eurodeputati Pd hanno approvato sempre più compattamente le numerose risoluzioni militariste e antirusse del Parlamento. I voti contrari sono stati due o tre, sino a scomparire del tutto.

La parola d’ordine dell’Unione è mutuata da Washington e dalla Nato: invocata non è la “sovranità europea” usata come maquillage da Mattarella e Macron, ma l’ordine internazionale basato sulle regole (rules-based international order). Le regole sono fissate dal Paese che più le ha infrante dal 1947 in poi: gli Stati Uniti e l’apparato militare-industriale che a partire da quell’anno è diventato occulto, assieme ai dispositivi di intelligence,  grazie al National Security Act. Le ha infrante tramite minacce, sanzioni, interventi militari, cambi di regime, in un pianeta che pretende di governare da solo – dopo la fine dell’Urss – e che non riesce più a dominare. In Europa ha violato tutte le promesse fatte a Gorbaciov, programmando l’estensione della Nato fino alle porte della Russia (Ucraina e Georgia).

L’Europa tace e acconsente, agendo contro i propri interessi con fervore crescente e senza investire nell’ordine multipolare che sta nascendo. Ursula von der Leyen, bellicosa presidente della Commissione Ue, è alla testa del partito unico della guerra. Le cose rischiano di non mutare se Mario Draghi prenderà il suo posto. Su questo si deciderà l’8-9 giugno e nei prossimi anni: se al declino dell’unipolarismo Usa s’accompagneranno il declino e la servitù dell’Europa unita oppure no.

© 2024 Editoriale Il Fatto S.p.A.

“Macron pensa di fare De Gaulle e invece è solo una marionetta”

Intervista di Tommaso Rodano, «Il Fatto Quotidiano», 16 marzo 2024

Barbara Spinelli, ieri Macron e Scholz avrebbero concordato di “non prendere mai l’iniziativa di un’escalation militare”. È un passo indietro per il presidente francese, ormai calato nelle vesti del falco?
Non credo che Macron abbia fatto marcia indietro. Anche nella conferenza stampa di giovedì aveva parlato di uno scatto in avanti dell’Occidente come reazione militare alle avanzate russe. Non credo nemmeno che Scholz faccia marcia indietro sui missili Taurus da inviare a Kiev. Anche se in Germania si sta discutendo una manovra piuttosto disgustosa, su spinta dei Verdi e Liberali: i missili verrebbero inviati all’Inghilterra affinché siano gli inglesi a inviarli in Ucraina, con esperti britannici che si occupino della loro manutenzione e destinazione. In questo modo i tedeschi eviterebbero di inviare i propri uomini, incaricati di decidere se i missili saranno impiegati sul suolo ucraino o anche su quello russo. Scholz non lo vuole.

Nelle prime fasi del conflitto ricordavamo Macron al tavolo con Putin, tra i pochi leader internazionali a promuovere un dialogo. Poi cosa è successo?
È vero, all’inizio Macron insisteva sulla necessità di non umiliare la Russia. Aveva adottato una logica da prima guerra mondiale (evitare gli errori che seguirono il ’14-18). Ora è in una logica da seconda guerra mondiale: “guerra esistenziale”, sostegno all’Ucraina per recuperare tutti i territori Crimea compresa, rinuncia a parlare con Putin. È un cambiamento impressionante, Gli occidentali, per fortuna con alcune differenze interne, prendono atto che la controffensiva ucraina è fallita e si stanno preparando a una seconda controffensiva, nella quale l’appoggio dell’Occidente sarà ancora più forte, con l’invio sul territorio ucraino non ancora di soldati, ma sicuramente di consiglieri militari con il controllo sulla destinazione dei missili a lunga gittata. Ci sono rischi molto grandi: il primo è la morte di altre centinaia di migliaia di soldati ucraini. Quanti ne resteranno alla fine della carneficina? Il secondo è l’incidente nucleare. Oggi i droni ucraini hanno colpito la città di Kaluga, a meno di 160 chilometri da Mosca. Si sta giocando col fuoco.

Anche in Francia c’è un’opinione pubblica contraria all’escalation militare, ma il presidente si muove in direzione opposta.
L’operazione di Macron è condivisa dalle altre forze politiche, tranne l’estrema destra, la sinistra di Mélenchon e i comunisti. Macron sta facendo campagna elettorale, è questo l’aspetto nefasto della faccenda. È la politica interna che spiega il cambio radicale nella politica estera francese. Lui vuole apparire alla vigilia delle elezioni europee come un De Gaulle, dimenticando però che De Gaulle era per l’autonomia della Francia dagli Usa e dalla Nato e per i buoni rapporti con la Russia. È un finto De Gaulle, un finto Churchill. Una marionetta che nasconde la realtà e mente su tutto: sul proprio isolamento mondiale, sulle responsabilità ucraine nel fallimento degli accordi di Minsk, sull’espansione della Nato e le sue responsabilità, sui necessari negoziati, attorno alla neutralità ucraina.

I sondaggi gli danno torto: Marine Le Pen è di nuovo in crescita, se si votasse oggi il partito di Macron rischierebbe di rientrare in Parlamento dimezzato.
Infatti siamo all’improvvisazione. Nell’intervista di giovedì, quando gli hanno domandato se ritenesse possibile l’invio di truppe francesi, Macron ha risposto alla giornalista: “Lei è seduta su una sedia. Può escludere che dopo si alzerà in piedi?”. Come se l’escalation fosse un movimento naturale del corpo.

Macron è al secondo mandato, non potrà ricandidarsi. Che partita sta giocando?
Nell’immediato vuol dare una mano al proprio partito e ai socialisti, che hanno esattamente le stesse idee sull’Ucraina. Poi c’è il lungo termine. Macron fa parte di una élite, non solo francese, molto atlantista, legata all’industria delle armi. Le sue posizioni somigliano a quelle di Draghi. Immagino stia preparando il proprio futuro personale.

© 2024 Editoriale Il Fatto S.p.A.

 

I socialisti “comodi” che riarmano l’Ue

di domenica, Marzo 10, 2024 0 , , , , Permalink

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 10 marzo 2024

Se fossero davvero innovativi e volessero difendere il progetto originario di unità europea, che era pacifico, i socialisti e socialdemocratici del continente dovrebbero esaminare se stessi e infine ammetterlo: non si governa per decenni in coabitazione con i Popolari, che sono dominanti nel Parlamento europeo, senza farsi contaminare dal coabitante.

Non si esce illesi da un connubio metodico, capillare, costante, che pervade ogni mossa degli europarlamentari che usano dirsi “di sinistra”, che si fanno eleggere nel gruppo chiamato Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici (S&D), e che con la sinistra non hanno più nulla a che fare (se mai l’hanno avuto nei tempi recenti). Chi appartiene al gruppo fa parte della cerchia che conta a Bruxelles e Strasburgo, che decide nelle Commissioni parlamentari il destino non solo delle inutili risoluzioni su politica estera o diritti dell’uomo, ma anche dei regolamenti o direttive che diverranno più o meno automaticamente legge europea. Difficile rinunciare a queste abitudini e queste seduzioni del potere.

Di questa cupola di potenti fanno parte sia i Liberali che oggi si ispirano a Emmanuel Macron (Renew), sia i Verdi che dalla guerra jugoslava in poi sono atlantisti d’avanguardia. Alcuni esempi recenti: le critiche che i Verdi – tramite il ministro degli Esteri Annalena Baerbock– hanno rivolto al Cancelliere Scholz, contrario a inviare in Ucraina i missili Taurus che potendo colpire la Russia rischierebbero una guerra mondiale. Secondo esempio, si parva licet: l’uscita strampalata della vice Presidente del Parlamento Pina Picierno (Pd) che ha chiesto sanzioni europee (non si sa di che genere) contro Ciro Cerullo, Jorit in arte, per un murale a Mariupol e per “adesione al disegno criminale e genocidario del popolo ucraino da parte di Putin”.

Naturalmente non mancano eurodeputati socialisti che pensano in altro modo e si sforzano – debolmente – di resistere al fascino nonché alle tante comodità del connubio. Ma il dispositivo della coabitazione finisce con lo stritolarli, fino a che le loro figure sbiadiscono e diventano ombre. Elly Schlein, che oggi guida il Pd e nella precedente legislatura fu ottima eurodeputata, ne sa qualcosa. E anche se decide di soprassedere, dovrebbe sapere come si comportano i rappresentanti Pd appena mettono radici nell’europarlamento. È faticoso sradicarsi, le abitudini non si spengono facilmente. Il pericolo, per chi dissente in Europa, è di confondersi con gli “estremismi di destra e sinistra”, che la cupola aborre.

Sui temi che oggi contano di più, e cioè sulla “guerra grande” in Ucraina e Medio Oriente (Yemen e Libano oltre a Gaza), gli eurodeputati Pd non seguono generalmente le indicazioni della segreteria, e appoggiano le risoluzioni o i regolamenti più bellicosi, fedeli all’atlantismo di Renzi e Letta. Schlein ancora non ha deciso se privilegiare i negoziati con Mosca – e di conseguenza suggerire la neutralità o almeno il non allineamento di Kiev– o armare Zelensky fino a improbabili vittorie. Ma gli europarlamentari Pd le idee chiare le hanno, e sulla guerra non ascoltano le riserve della segretaria ma votano sistematicamente come i Popolari, i liberali di Renew e i Verdi. Lo stesso vale quando si discute di austerità economica.

È quel che si verificò quando Jeremy Corbyn divenne leader del Labour, fra il 2015 e il 2020, e tentò di spostare a sinistra un partito che per anni, con Blair e Cameron, si era tramutato in una forza favorevole alle guerre in Afghanistan, Iraq, Libia: tutte rovinose, tutte impopolari e perse. Se si escludono alcuni dissidenti, i laburisti eletti in Europa fecero finta che Corbyn non esistesse. Corbyn fu poi travolto da assurde accuse di antisemitismo ma intanto Londra era uscita dall’UE.

Il fatto è che gli eurodeputati socialisti vivono in una bolla eurocratica, smettono le vecchie appartenenze e si disinteressano del proprio elettorato. Solo ha peso quel che si dice dentro la cupola e nei caffè della Place du Luxembourg, alle porte del Parlamento a Bruxelles. Immaginano di esser di sinistra perché difendono i diritti civili o i LGBT+ o le vie legali di migrazione, ma sulla questione oggi centrale – la guerra, il riarmo d’Europa – sono atlantici e basta.

Si spiegano così le molte risoluzioni sulla guerra in Ucraina, approvate grazie alle complicità dentro la cupola. Ci limitiamo a menzionare quella del novembre 2022, che definisce la Russia Stato promotore del terrorismo e approva le sanzioni. Quella del giugno 2023, che insiste sull’adesione rapida di Kiev alla Nato oltre che all’UE, e preclude quindi ogni trattativa. Infine il regolamento approvato nel luglio 2023, che prevede la produzione massiccia di munizioni e missili destinati all’Ucraina o agli armamenti nazionali sforniti per via degli aiuti a Kiev. Le risoluzioni non hanno peso, essendo puramente declamatorie, ma i regolamenti sono ben altra cosa: diventano automaticamente legge europea, da applicare in tutti gli Stati membri.

La svolta verso l’Europa militarizzata, punta di diamante di una Nato in espansione, avviene con questo regolamento, che stanzia 500 milioni di euro per fabbricare un milione di proiettili l’anno in sostegno di Kiev. Quasi tutto il Pd vota a favore. È contrario un deputato, Smeriglio, e cinque si astengono. Passa perfino il paragrafo che prevede il finanziamento del riarmo con i soldi del Fondo europeo di coesione sociale e territoriale e forse del Pnrr: sono risorse sottratte allo stato sociale (sanità, istruzione, clima).

Schlein aveva insistito sulla cancellazione del paragrafo, ma non aveva istruito i suoi parlamentari su quel che c’era da fare se non venisse cancellato. Risultato: hanno votato contro il regolamento solo i 5 Stelle, gli unici che possono dirsi progressisti, accanto alla sinistra del gruppo Left. Va detto che i pentastellati hanno subito emorragie gravi, in due legislature: alcuni sono migrati verso i Verdi, il vicepresidente del Parlamento Castaldo è addirittura migrato verso Renew. Isabella Adinolfi è con Forza Italia nel gruppo dei Popolari.

Giungiamo infine alla risoluzione dello scorso febbraio sui missili a lungo raggio da inviare in Ucraina, dopo la controffensiva fallita di Zelensky. Per l’ennesima volta non si chiedono negoziati ma ancora più armi per riconquistare tutti i territori, Crimea compresa. Stavolta nessun dissenso nell’ex sinistra. Il Pd vota compatto per il riarmo di Kiev e per l’Europa roccaforte contro la Russia. Gli eurodeputati restati nel M5S si oppongono. La “maggioranza Ursula” scricchiola, ma già conta sulla stampella Meloni (gruppo Conservatori).

Una sinistra classica potrebbe votare contro il riarmo europeo, in memoria degli errori commessi nel 1914, quando gran parte del socialismo europeo votò i crediti di guerra (in Germania si opposero Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, prima di essere ammazzati). Ieri come oggi, non c’era che il Papa a denunciare l’“inutile strage”. Oggi come ieri, entra in scena l’interventismo di sinistra.

© 2024 Editoriale Il Fatto S.p.A.

La falsa memoria dell’Occidente verso un futuro di morte

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 23 febbraio 2024

Visto che si parla molto di memoria, trasformandola spesso in manovra diversiva, potremmo farne un uso meno opportunista e ricordare che tra febbraio e marzo non entriamo nel terzo, ma nell’undicesimo anno della guerra d’Ucraina. È più della Prima e della Seconda guerra mondiale messe insieme.

Il conflitto odierno ha una genealogia e trovare una soluzione che metta fine alle ostilità è possibile solo se si analizzano criticamente gli anni che precedono l’invasione del 24 febbraio 2022. È quello che gli occidentali si rifiutano di fare, convinti come sono del proprio primato mondiale e della propria ininterrotta, indiscutibile rettitudine. Se Navalny muore, l’assassino è Putin; se il giornalista Assange rischia la morte in carcere per aver pubblicato i leak di un whistleblower, la colpa è sua.

Ai confini orientali dell’Unione europea come in Palestina, l’Occidente a guida Usa non vede che l’ultimo segmento della storia – l’illegale invasione del 2022; il criminale eccidio inflitto da Hamas il 7 ottobre – e ignora volutamente gli eventi che hanno originato ambedue gli episodi.

Ignorare le rispettive storie lunghe incoraggia due comportamenti. Primo: fingere che le sconfitte militari di Kiev non esistano e che continuare ad armare Israele sia compatibile con la stabilità mediorientale. Secondo: volere con tutte le forze che le guerre perdurino (la guerra mondiale a pezzi denunciata da Papa Francesco). Chi chiede negoziati tra avversari, accordi di pace o di tregua, disarmo, superamento del nefasto dominio unipolare Usa ha rappresentanti in gran parte del pianeta, ma non negli Stati Uniti, non nell’Ue e non nelle destre europee, nell’ex sinistra e ancor meno tra i Verdi.

È nell’aprile del 2014 che inizia l’offensiva dell’esercito ucraino contro una parte del proprio popolo, i russofoni del Donbass (più di 14.000 morti in otto anni): un regolamento di conti voluto da chi a Kiev si propone di riscrivere la storia e spezzare il legame millenario russo-ucraino e russo-europeo. Ma, per capire come si sia giunti a quella guerra civile, occorre risalire ancora indietro negli anni ed evocare i primi allargamenti della Nato, compiuti nonostante la promessa fatta a Gorbaciov nel 1990: non estendere d’un pollice l’Alleanza (parola di James Baker, segretario di Stato americano).

Fin dal 2007 alla conferenza di Monaco sulla sicurezza, Putin aveva avvertito quelli che ancora chiamava partner occidentali: “Abbiamo il diritto di chiedere: contro chi s’intende espandere la Nato? E cosa è successo con le garanzie dei nostri partner occidentali dopo la dissoluzione del Patto di Varsavia? Dove sono oggi le dichiarazioni di allora? Nessuno riesce neanche a ricordarle”. Non meno dura la replica, durante la stessa conferenza, alle parole del ministro della Difesa italiano (Arturo Parisi, governo Prodi), secondo cui non solo l’Onu ma anche l’Unione europea e la Nato “possono legittimare l’uso della forza per combattere la violenza ingiusta e ripristinare la pace”. “Forse non ho udito correttamente – così Putin – ma i nostri punti di vista divergono. L’uso della forza può essere legittimato solo se la decisione è presa dall’Onu. Non abbiamo bisogno di sostituire l’Onu con la Nato e l’Unione europea”.

Già allora il monito di Putin fu ignorato: si scelse lo scontro con una potenza russa ritenuta moribonda. Ragion per cui l’espansione Nato proseguì. E nel 2008 l’Alleanza assicurò le porte aperte a due paesi confinanti con la Russia: Ucraina e Georgia. Ciononostante, nel 2010 una legge costituzionale in Ucraina decretò il non allineamento del Paese. Non fu gradito, e l’abbandono della neutralità venne annunciato nel 2014, dopo un semi-colpo di Stato voluto da Washington (e orchestrato dal vicesegretario di Stato Victoria Nuland), che infiltrò il movimento democratico Euromaidan con l’aiuto di miliziani neonazisti e destituì il governo Yanukovich, giudicato filorusso. L’adesione della Crimea alla Russia avvenne dopo le porte aperte della Nato all’Ucraina e alla Georgia, mentre imperversava l’offensiva dell’esercito e delle milizie ucraine in Donbass. Nel 2019 la volontà di adesione alla Nato fu iscritta nella Costituzione di Kiev.

Una volta riconosciuta questa storia lunga, il cammino verso la pace potrebbe un po’ accorciarsi, nonostante il cumulo di morti e l’inacidirsi dell’ostilità che ormai l’intralciano. Può accorciarsi a due condizioni: che si attivi la diplomazia e che si torni alla neutralità del 2010. Gli occidentali insistono a non volerlo. I governi di Washington e Londra hanno bloccato ogni tregua, perfino quando Kiev accettò un piano di pace nel marzo 2022, poche settimane dopo l’invasione russa. Pur d’impedire la neutralità prevista dal piano, l’invio di armi continua. L’intento è vincere la partita con Mosca fino all’ultimo soldato ucraino morto.

È la prova che i nostri governanti – in Italia, in Europa e negli Stati Uniti – si stanno abituando alla guerra e addirittura sembrano esservi affezionati come mai era accaduto dal 1945. Nessun governo europeo ha obiettato quando il segretario Nato Jens Stoltenberg il 10 febbraio ha incitato a prepararsi a un’economia di guerra e a “decenni di confrontazione con la Russia”. È finita l’epoca dei grandi accordi di disarmo negoziati in piena Guerra fredda, degli sforzi per sventare un nuovo conflitto mondiale, della grande paura dell’atomica. Forse perché i responsabili del crimine a Hiroshima e Nagasaki, essendo usciti vincitori dalla guerra, non sono mai stati processati. È finita anche l’Unione europea così come concepita in origine: come strumento per garantire la pace nel continente, non come fortilizio contro Mosca.

La parola d’ordine oggi è riarmo, a tutti i costi. A questo deve servire l’Unione europea. Questo promette Ursula von der Leyen, candidata alla rielezione come presidente della Commissione: difesa comune con più spese militari e meno investimenti nella transizione ecologica, troppo costosi in tempi di riarmo e di anteguerra.

È significativo in questo quadro il nuovo Patto di Stabilità approvato il 10 febbraio da Consiglio Ue e Parlamento europeo. Per la prima volta l’aumento delle spese militari figura tra le riforme che gli Stati membri devono attuare per non rischiare infrazioni (punto 2.3 del Patto). I precedenti Patti di Stabilità avevano umiliato la sovranità della Grecia con il ricorso alla “governance” della trojka (Commissione, Banca centrale europea, Fondo monetario), ma almeno non contenevano alcun vincolo di natura militare. Ora a esercitare la governance sono gli apparati militari-industriali e le loro lobby. Sono loro che nell’Ue si “unificano”.

La guerra è così accettata, chiamata. Diventa lievito delle industrie. Promette “crescita e posti di lavoro”, come assicurato a ottobre dal segretario di Stato americano Blinken e dal ministro della Difesa Austin. È sinonimo di stabilità. Questa è l’Europa della Difesa magnificata da chi si proclama europeista e atlantista. Lo spegnersi in Occidente della paura della guerra e dell’atomica mette spavento.

© 2024 Editoriale Il Fatto S.p.A.

Ue, Meloni e il favore delle tenebre

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 20 dicembre 2023

Non c’è da stupirsi se Giorgia Meloni si mostri soprattutto intimorita dagli attacchi di Giuseppe Conte, e si nasconda dietro polemiche frivole per dissimulare questo timore.

Il leader del Movimento 5 Stelle è l’unico esponente forte, nell’opposizione, a mettere sotto accusa la politica estera del governo, e a chiedere un cambio di rotta sulle due questioni fondamentali: la guerra in Ucraina e quella d’Israele a Gaza. L’unico a intuire, fin dal governo Draghi, che l’acritica subordinazione agli Usa – e dunque alla Nato – produce disastri per l’Italia e l’Ue, screditando ambedue sul piano strategico, economico e morale.

Di qui la domanda di Conte: che lo Stato italiano si faccia sentire, in Ucraina con iniziative diplomatiche, a Gaza minacciando di sanzionare Israele per l’uccisione e espulsione dei palestinesi – in massa – dalla terra di Gaza. Più di 7.000 bambini sono stati ammazzati dall’esercito israeliano, senza alcun rapporto causale con il pogrom sanguinario del 7 ottobre. Si dice che l’Italia non conta nulla, e in gran parte è vero. Ma conta parecchio come Stato esportatore di armi: è tra i primi nel mondo (3,8% delle vendite globali), e alla testa del ministero della Difesa come nel Pd c’è chi cura questo commercio da anni.

Sostiene Giorgia Meloni che Conte approvò la riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes) senza consultare il Parlamento e “con il favore delle tenebre”. Ha mentito ben sapendo come andarono le cose, e roteare irosamente gli occhi non trasforma le bugie in verità. Vero è invece che il suo governo sta muovendosi con il favore delle tenebre nella guerra medio orientale. Lunedì scorso Lloyd Austin, ministro della Difesa Usa, ha delineato quella che è una prima estensione della guerra di Gaza: una coalizione militare di dieci Stati decisi a fronteggiare l’offensiva crescente di guerrieri Houthi nel Mar Rosso contro navi mercantili che servono anche porti israeliani. L’Italia è indicata fra i paesi europei della coalizione, con Francia, Regno Unito, Spagna, Olanda, Norvegia. Di questo non si fa parola, né in dichiarazioni né in Parlamento. Forse manderemo soldati, forse solo armi. Comunque si procede senza spiegare alcunché.

Quanto all’Ucraina, le parole di Palazzo Chigi sfiorano l’oscenità. L’Italia “prova stanchezza” per il protrarsi della guerra e il fallimento della controffensiva ucraina di giugno (telefonata di Meloni con i due comici russi scambiati per dirigenti africani), e non è certo l’unico Stato europeo a dirsi spossato. Niente da eccepire, a prima vista: la “via d’uscita” auspicata da Meloni nella telefonata è urgente e necessaria, se si è consapevoli che via d’uscita significa, oggi, concessioni territoriali a Mosca.

Ma Meloni non completa il ragionamento accennando all’inevitabile compromesso Kiev-Mosca: esponendo prima dell’ultimo Consiglio europeo quel che intendeva nella telefonata rubata, si è permessa una frase grottesca e senza senso: “stanchezza […] non vuol dire non credere nella vittoria dell’Ucraina. Noi ci abbiamo creduto dall’inizio e continuiamo a crederci”.

Fin qui le insensatezze, le incoerenze, la paura di mettere in questione l’allineamento atlantico dell’attuale governo e di quello precedente. Se aggiungiamo l’aggettivo “osceno”, è perché sentirsi “stanchi” di fronte al cumulo di morti ucraini che continua a crescere e crescere senza che i notiziari Tv dicano più nulla (solo su YouTube si vedono brandelli della battaglia: uomini che si rotolano già semi morti nel fango che sta ghiacciandosi) vuol dire nascondere il fatto che è stato l’Occidente collettivo, su ordine statunitense e britannico, a volere il protrarsi di un conflitto che poteva finire poche settimane dopo l’invasione russa, quando Washington e Boris Johnson in persona proibirono a Zelensky di smettere la guerra e gli ordinarono di cestinare l’accordo sulla neutralità militare ucraina, approvato da Kiev e Mosca fra il marzo e l’aprile del 2022.

Stanchi di cosa, allora? Ecco governanti europei che contemplano tutto quel sangue e quel fango che loro stessi hanno voluto si perpetuasse e che lo vogliono ancora. Ecco il Presidente del Consiglio Meloni (ma anche il Presidente Usa, e quasi tutti i capi di Stato e di governo dell’Ue) che sragiona e agisce come Lady Macbeth, complice e aizzatrice del marito che opera alla Casa Bianca: “Le mie mani sono del tuo stesso colore, ma mi vergogno di avere un cuore così bianco”. Il cuore così bianco e tuttavia insanguinato è quello degli Europei e dell’Italia. Stanchezza vuol dire noia, sazietà. Questa è l’oscenità, davanti a tanti morti. Avviene anch’essa col favore delle tenebre.

Altra indecenza: quel che succede a Gaza. Gli europei possono poco, perché solo Washington possiede strumenti di pressione efficaci perché cessino gli eccidi e lo svuotamento di Gaza perpetrati da Netanyahu. Ma potrebbero esercitare a loro volta pressioni sull’alleato statunitense, perché non si limiti a parlare ma agisca. Biden mette in guardia contro la pulizia etnica non solo a Gaza ma anche in Cisgiordania, per opera dei coloni armati dal governo israeliano. Ma s’indigna a parole. Nei fatti continua a aiutare militarmente Israele, e moltiplica addirittura le forniture di missili e munizioni, secondo l’agenzia Bloomberg.

Gli alleati di Israele esprimono sdegno e sbandierano parole d’ordine ormai desuete (“Due popoli in due Stati” è inconcepibile, alla luce degli eccidi e delle deportazioni) e pensano che la soluzione consista nello spodestamento di Netanyahu. Sono menzogne, come quelle proferite sull’Ucraina. Con o senza Netanyahu, lo Stato di Israele è incapace per ora di escogitare un accordo con i Palestinesi. E se oggi i due Stati sono dichiarati a Tel Aviv impossibili, resta in piedi solo l’opzione Grande Israele, cioè l’annessione più o meno esplicita di Cisgiordania e Gaza. A quel punto i numeri di ebrei e palestinesi si pareggeranno (7,3 milioni gli ebrei; 7,3 i palestinesi). Israele potrà sopravvivere come Stato ebraico solo con l’apartheid. Disfarsi di Netanyahu è opportuno ma insufficiente: gran parte della classe dirigente israeliana si è assuefatta alla colonizzazione dei territori e non sa più farne a meno.

Intanto sta accadendo quel che Biden e gli Europei temevano di più: non solo le sistematiche violenze in Cisgiordania, e il definitivo seppellimento dell’Autorità palestinese operato dai coloni (in accordo con le volontà di Hamas), ma l’estensione graduale del conflitto, in Libano e oltre. Gli Houthi che vengono dallo Yemen e l’inattesa forza che possiedono (missili balistici lanciati contro le navi mercantili nel Mar Rosso) sono stati sottovalutati per settimane, e ora nasce l’idea di una coalizione per fronteggiarli. La coalizione in realtà esiste già (la Combined Maritime Force, a difesa del cosiddetto ”ordine internazionale basato sulle regole” che gli Usa tentano invano di imporre), ma nuove coalizioni armate vedono la luce: col consenso degli Europei e dell’Italia, e ancora una volta col favore delle tenebre.

© 2023 Editoriale Il Fatto S.p.A.

L’invenzione di Borrell

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 5 ottobre 2023

Più chiaro e apodittico di così non poteva essere, L’Alto Rappresentante per la Politica estera e di sicurezza europea Josep Borrell: “L’Unione europea resta unita nel suo sostegno all’Ucraina”, si è felicitato il 2 ottobre al Consiglio dei ministri degli Esteri Ue riuniti sfrontatamente a Kiev, aggiungendo il memorabile detto: “Non vedo alcuno Stato membro vacillare”.

La realtà smentisce simili farneticazioni, in particolare dopo la vittoria alle urne dello slovacco Robert Fico, contrario all’invio di armi all’Ucraina e favorevole a tempestive trattative di tregua o di pace.

L’opposizione di Fico si aggiunge a quella dell’ungherese Orbán, e alle titubanze di Stati neutrali come Malta, Irlanda, Austria, che nel marzo 2021 hanno dato il proprio consenso alla creazione di un fondo europeo degli armamenti (detto incongruamente “Strumento di Pace”: European Peace Facility) ma a condizione che i loro contributi non servano all’acquisto e invio di armi letali, vietati dalle rispettive Costituzioni.

Infine sta titubando il governo polacco, il più strenuo difensore – per oltre un anno – di una prolungata guerra per procura in Ucraina. Il 20 settembre il premier Morawiecki ha annunciato: “Abbiamo deciso di sospendere le forniture militari all’Ucraina per concentrarci sull’ammodernamento delle nostre forze armate”. La decisione, se attuata, fa seguito all’embargo sulle importazioni di grano ucraino, deliberato per proteggere gli agricoltori polacchi: “Abbiamo fatto molto per l’Ucraina [circa un milione di profughi accolti in Polonia, ndr] e ci aspettiamo che comprendano i nostri interessi. Siamo consapevoli delle difficoltà di Kiev, ma gli interessi dei nostri agricoltori sono la cosa più importante”, così Morawiecki a Polsat News. Anche le imminenti elezioni in Polonia (15 ottobre) sono la cosa più importante, e il Partito di governo non intende perderle.

Sullo sfondo, poi, si moltiplicano i dubbi della potenza che egemonizza la politica estera degli Stati europei: “Se le forniture americane all’Ucraina continueranno alla velocità attuale, il Pentagono ha sei mesi prima di esaurire le scorte”, ha scritto il Wall Street Journal. Biden ha riconfortato Kiev nonostante i tentennamenti del Congresso. La vita di milioni di soldati ucraini dipende dalla sua campagna elettorale.

Dunque non si sa bene in quale pianeta viva Borrell e che cosa percepisca il suo sguardo perennemente appannato, quando assicura di non vedere “alcuno Stato membro vacillare” sulla guerra. Le ipotesi sono tre. O l’Alto rappresentante ha le traveggole, e quel che vede è un filmato che scambia per realtà. Sulla falsariga del romanzo di Bioy Casares (L’Invenzione di Morel), saremmo al cospetto, nel caso dell’Alto Rappresentante, dell’“Invenzione di Borrell”. Il quale vede quel che s’accampa sul suo schermo ma non in natura, e s’inventa un mondo alternativo in cui tutti sono “buoni”, cioè atlantisti. Grosso modo è quanto scrive Marco Travaglio nell’editoriale di martedì: “I Buoni non sbagliano mai, e se il resto del mondo li odia è perché è cattivo, dunque non esiste”.

Oppure – seconda ipotesi – c’è del metodo nella follia di Borrell. Quel che decidono gli elettori non ha peso, e siccome lo scrutinio universale è un impedimento per le decisioni dei Buoni, meglio ignorarne i verdetti, sganciare i governi (opportunamente ribattezzati governance) dalle preferenze elettorali e fare il possibile perché Fico non trovi una maggioranza. Il fenomeno non è nuovo. Nel 2012 il presidente del Consiglio Mario Monti disse: “Se i governi si facessero vincolare dalle decisioni dei loro Parlamenti, senza mantenere un proprio spazio di manovra, allora una disintegrazione dell’Europa sarebbe più probabile di un’integrazione”. E di recente, durante il Covid: “Bisogna trovare modalità meno democratiche nella somministrazione (sic) dell’informazione. (…) In una situazione di guerra si devono accettare delle limitazioni alle libertà”. Oppure, terza ipotesi, l’Ue si esercita a divenire un’Unione ristretta, propaggine degli Stati Uniti.

Borrell è un socialista neo-con, legato al Gruppo degli eurodeputati socialisti e democratici. Al pari di Borrell, il gruppo è in buona parte fedele alla Terza Via di Tony Blair e mal digerisce i voti popolari, se propensi a smettere gli aiuti militari all’Ucraina e le guerre di regime change. La decisione di espellere Fico, auspicata specialmente dai socialisti francesi e dall’italiana Pina Picierno, è per ora solo rinviata.

Fico non è un modello di democrazia né è socialista, sempre che si sappia cosa sia un socialista oggi. È pronto ad allearsi con l’estrema destra, pur di ottenere una maggioranza. E nel 2018 il suo governo cadde non solo perché accusato di corruzione, ma anche perché il suo partito apparve coinvolto nell’assassinio del giornalista Ján Kuciak e della sua fidanzata Martina Kušnírová, nel febbraio 2018. Kuciak indagava sui legami corruttivi tra pezzi dello Stato, mafie locali e ’ndrangheta. In quei mesi feci parte di una commissione del Parlamento europeo sull’assassinio di Kuciak, e il comportamento del partito di Fico destò parecchi sospetti.

Nessuna di queste vicende tuttavia – né il caso Kuciak, né la vicinanza di Fico all’estrema destra, né le sue ripetute dichiarazioni islamofobe – indussero il gruppo socialista a espellere il partito slovacco, nella penultima legislatura. Non passò neanche la proposta di sospenderlo, avanzata dal capogruppo Gianni Pittella. L’accusa di putinismo è una lettera scarlatta, surclassa ogni infamia. Perché opporsi alla prolungata guerra per procura infrange, nel magnifico e progressivo universo dei socialisti, i “valori europei”. E i valori europei si sa cosa sono: non le leggi europee, non l’ordine Onu, non le Costituzioni nazionali, non la Carta europea dei diritti dell’uomo, non i trattati climatici, ma il cosiddetto comune sentire che Nato e Usa prescrivono, dall’alto e indipendentemente dagli interessi europei, agli Occidentali. Se citiamo i trattati climatici, non per ultimi, è perché nell’Invenzione di Borrell non c’è neanche spazio per i disastri del pianeta. Disastri che solo un accordo fra potenze (Usa, Russia, Cina, Europa, India) potrebbe forse ancora salvare.

© 2023 Editoriale Il Fatto S.p.A.