I censori dei social

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 10 gennaio 2025

Si sono subito levate grida di sdegno, martedì scorso nei media scritti e parlati, quando Mark Zuckerberg ha annunciato la fine, nello spazio Usa, della collaborazione di Meta con siti di fact checking esterni, incaricati di verificare i contenuti Facebook, Instagram e Thread (la verifica/censura resta per reati specifici).

La mossa è stata immediatamente bollata come omaggio servile al Presidente eletto Trump e a Elon Musk, che impossessandosi di Twitter e ribattezzandolo X ha eliminato i verificatori/censori terzi.
L’argomentazione di Zuckerberg in favore della libertà di espressione e contro le censure eccessive praticate nell’Unione europea andrebbe meditata con cura, e invece è giudicata eretica. Ecco “riaperta la porta alle bugie messe sistematicamente in circolazione (…) per compromettere il processo democratico”, si legge su «Repubblica»Ecco che “Mark s’inginocchia” davanti a Trump. Facebook e Instagram adotteranno il metodo delle community notes sperimentato con successo da Musk per X: saranno gli utenti, con una complessa procedura collaborativa, a aggiungere contestualizzazioni e precisazioni quando ritengono scorretto un post.

Gli utenti non sono i poveri imbecilli descritti da chi nella stampa scritta o parlata si ritiene maestro di pensiero, castigatore non criticabile, geneticamente veritiero. La diffamazione dei social si è fatta così enorme, a cominciare dai tempi del Covid, che prima o poi doveva venire qualcuno e chiedere: ma chi controlla i controllori? Che bisogno c’è di una Congregazione del Sant’Uffizio che concede imprimatur preventivi e davanti a cui occorre inginocchiarsi, con la scusa che gli utenti cadrebbero così facilmente in tentazione? Gli utenti sono appaiati agli elettori: se non votano come vogliamo noi, devono avere un baco nel cervello.
La battaglia dei verificatori contro la disinformazione ha i suoi siti internet, e i suoi sponsor e finanziatori. Bbc Verify, a esempio, ha rapporti stretti con l’Istituto di Studi Strategici della Nato e non solo verifica ma fa propaganda e censura. Chiunque critichi la politica occidentale sulla guerra in Ucraina o sullo sterminio perpetrato da Israele a Gaza diventa bersaglio delle campagne contro la disinformazione. I verificatori sono numerosi ovunque.

Una delle principali collaborazioni italiane di Meta è stato per anni Open, il sito di fact checking fondato da Enrico Mentana nel 2018. È stato anche il più controverso, nella guerra di Ucraina. È noto per aver più volte diramato false notizie diffuse dai fedeli di Zelensky e per aver demonizzato Putin, ignorando le preoccupazioni del Cremlino fin dai primi allargamenti a Est della Nato. Le Congregazioni di fact checking scoprono certo notizie false, ma ne producono anche in proprio, come quando accusano giornalisti indipendenti, professori universitari e intellettuali di essere di volta in volta filo-putiniani o antisemiti.
Si può supporre che non mancherà la consueta presa di posizione del Parlamento europeo, su queste vicende: per condannare l’allineamento di Zuckerberg a Musk e Trump, per sottolineare ancora una volta – come in varie risoluzioni sulla libertà dei media – il divario di qualità, correttezza, affidabilità che separerebbe il selvaticissimo e pericoloso mondo dei social dalla stampa scritta e parlata, dipinta come immacolato rifugio del giornalismo sano, adulto, controllato magari da proprietari perniciosi ma pur sempre superiore moralmente al nefasto social network.

Sono anni che tale divario viene denunciato, non sempre a sproposito. Ma andrebbe detto che la disinformazione non è nata con l’avvento dei social. La stampa scritta, e la radio e televisione, sono stati e sono tutt’ora i massimi divulgatori di notizie distorte e di omissioni, di autocensura e censura, specie in tempi di tensioni internazionali e di guerre.
Tanto per limitarci al secondo dopoguerra, basti ricordare la maniera in cui fu narrato e continua a esser narrato l’intervento nucleare statunitense a Nagasaki e Hiroshima – non come crimine contro l’umanità, ma come conclusione tecnicamente accelerata della guerra contro il Giappone. O la maniera in cui fu raccontata la guerra di Corea, fra il 1950 e il 1953 in piena era maccartista: come giusta lotta contro il comunismo nordcoreano e mondiale, e non come eccidio delle popolazioni civili (2,5 milioni di morti) e torture di nordcoreani nelle carceri del Sud.

Molti decenni dopo si seppe che il comandante in capo delle truppe occidentali, generale Douglas MacArthur, aveva ripetutamente chiesto al Presidente Truman l’uso dell’atomica in Corea del Nord (anche l’atomica nord-coreana ha una sua genealogia). Solo pochi si ersero allora contro un conflitto che aprì la strada a tutte le successive guerre fatte per cambiare regimi, e esportare democrazia e “valori occidentali”. Tra i rari protestatari ci furono artisti come Picasso e il regista Samuel Fuller, e giornalisti come Robert Miller, Wilfred Burchett e Alan Winnington. La guerra di Corea è tra le più dimenticate, non in Oriente ma di certo negli Stati Uniti e ai vertici dell’Onu, manomessa da Washington.
Dopo di allora tutte le guerre occidentali hanno visto la stampa mainstream, detta anche legacy media, allinearsi alla propaganda Usa e diffondere fake news a palate, anche se non mancarono – specie in Vietnam – reporter che tennero viva la memoria delle crudeltà e inanità cui assistettero. Sono tutte guerre perse dagli occidentali: in Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia, Somalia, Yemen, ecc.

Oggi la situazione è diversa e peggiore. I grandi giornali e le principali reti Tv non hanno più soldi per pagare inviati di guerra come ai tempi del Vietnam. A ciò si aggiunga, non meno grave, l’impossibilità di raccogliere notizie su tutti gli Stati combattenti. Difficile sapere quel che si pensa e si dice in Russia sul conflitto in Ucraina e a Kursk, dopo l’oscuramento in Europa delle Tv russe. Impossibile scrivere reportage su Gaza perché l’ingresso dei giornalisti nella Striscia è proibito da Israele, che anche in questo caso viola il diritto internazionale. Ogni servizio Tv su Gaza e Cisgiordania dovrebbe ricordare il divieto, e ringraziare i giornalisti palestinesi e Al Jazeera per i loro reportage e per i pericoli mortali che corrono (più di 220 uccisi a Gaza). Se si vogliono notizie è solo ai social che ci si può rivolgere: in particolare a Telegram, per quanto riguarda sia l’Ucraina sia Gaza e Cisgiordania. E anche quando i media tradizionali hanno notizie più approfondite, meno rozze, c’è un muro che ostacola l’accesso online, un paywall: è il prezzo proibitivo dell’abbonamento annuale.
A questo punto si capisce come mai i media tradizionali siano i primi a esercitare pressioni perché resti in piedi, almeno in Europa e in Italia, il fact checking che Elon Musk e Mark Zuckerberg hanno abolito (tranne per specifici reati). Ne va della sopravvivenza dell’establishment giornalistico, e del suo bisogno di proteggersi dalla marea spesso indistinta, ma gratuita, dei social.

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Errata corrige
La frase “Una delle principali collaborazioni italiane di Meta è stato per anni Open, il sito di fact checking fondato da Enrico Mentana nel 2018” è inesatta, e deve essere così corretta: “Una delle principali collaborazioni italiane di Meta è stato per anni Open, il sito giornalistico fondato da Enrico Mentana nel 2018, con la sua sezione fact checking”.

Alternanza senza alternativa – L’uomo solo all’Eliseo

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 14 dicembre 2024

Emmanuel Macron ha infine deciso, con l’indolenza che adora mettere in scena e che maneggia senza scrupoli per apparire monarca ombroso, vanitoso, capriccioso, ma pur sempre monarca assoluto. O come ripete da anni: Maestro degli Orologi. Chi sospira le sue insondabili decisioni pende dalle sue labbra: è la postura cortigiana da lui prediletta, reclamata. Dopo le Legislative di luglio nominò Michel Barnier dopo quasi due mesi. Il primo ministro nominato dopo la caduta di Barnier è François Bayrou, presidente di un partitino centrista – il MoDem, Movimento Democratico, 4,5% alle legislative – che appoggia Macron dal 2017.

Ancora una volta il Presidente s’ostina a ignorare le urne, che il 7 luglio avevano dato non la maggioranza assoluta, ma di certo la preferenza alle sinistre unite nel Nuovo Fronte Popolare. Bayrou ha il pregio di condividere la brama costante di Macron e degli oligarchi economici e mediatici che hanno facilitato la sua ascesa all’Eliseo: la brama di sfasciare l’unità delle sinistre, di attrarre nella propria orbita (oggi si chiama “blocco centrale”) i socialisti, gli ecologisti e i comunisti disposti a rinnegare il partito di Mélenchon alla loro sinistra.

Il Partito socialista promette di non sfiduciare Bayrou e per ora resta all’opposizione. Ma alcuni potrebbero tradire il Fronte Popolare. E non è detto che Bayrou terrà fede all’impegno di non ricorrere a decreti e voti di sfiducia come Barnier.

Se si vuol avere un’idea su quel che accade in Francia, tutto bisognerebbe fare tranne informarsi sui media francesi (e italiani a ruota): da tempo distorcono la realtà e la recente storia di Francia. Macron sarebbe alle prese con i “due opposti estremismi” di destra e sinistra che hanno affossato Barnier. Mélenchon, capo della France Insoumise (“Francia Indomita”, primo partito nel Fronte Popolare) è descritto come “mente della crisi”, “tiranno divisivo” e ancor peggio, quando proprio vuoi uccidere politicamente l’avversario: pro-palestinese dunque antisemita. Quanto ai socialisti e agli ecologisti, la qualifica più gettonata è: “ostaggi” delle trame di Mélenchon. Uscire dal Nuovo Fronte Popolare è descritto come una liberazione.

Tutte queste rappresentazioni sono false. Non esiste l’estremismo di sinistra, nella France Insoumise e meno che mai nel suo leader. Il programma che il suo partito ha concordato con socialisti ed ecologisti, quando Macron sciolse d’un colpo l’Assemblea non immaginando che le sinistre si sarebbero unite, è un programma socialdemocratico classico, dove per socialdemocratico s’intende il socialismo prima che venisse stravolto dai secessionismi centristi di Blair, Schröder o Renzi. I punti forti del Fronte Popolare: rilancio della domanda (cioè politica keynesiana), salario minimo, abolizione della riforma macroniana delle pensioni, e soprattutto fisco più giusto, cioè tasse sui più abbienti e sulle grandi corporazioni. Il programma di Mitterrand, nel 1981, era ben più radicale di quello di Mélenchon.

Ma evidentemente non è Mélenchon il punto. In agosto il capo degli Indomiti annunciò che, se era lui il problema, si sarebbe fatto da parte pur di salvare il programma delle sinistre e la candidatura di Lucie Castets. Macron rispose picche e fu un momento di verità. Dall’inizio del secondo mandato nel 2022 il presidente perde un’elezione dopo l’altra, ma non ammette alcuna alternanza che sfoci in una alternativa alla propria agenda. Un’agenda che reintroduca l’Imposta di solidarietà sui patrimoni, che tassi gli oligarchi che gli hanno spianato la strada dell’Eliseo, è per lui inconcepibile e inammissibile. Quel che chiede ai socialisti è l’abbandono della loro agenda elettorale. Tutto digerisce tranne che la sconfessione della propria politica: anche il tacito patto di non aggressione tra Barnier e l’estrema destra, lui che ha vinto due Presidenziali promettendo agli elettori di sinistra di incarnare la barriera contro Le Pen. Il patto Barnier-Le Pen si è infranto perché a respingere il neoliberismo dell’Eliseo non è un fantomatico patto rosso-bruno, come dicono i media anche in Italia, ma la stragrande maggioranza degli elettori.

Non è più democrazia, ma capriccio di un presidente psicologicamente instabile e profondamente di destra, e non a caso si moltiplicano gli studi sulla sua personalità. Il libro più citato è quello del sociologo Marc Joly, che descrive le sistematiche manipolazioni retoriche e i fallimenti mai ammessi in politica estera del presidente (Il pensiero perverso al potere). L’adesione sempre più netta al linguaggio e alla cultura delle destre, la negazione incaponita della realtà, il disprezzo per i movimenti sociali che hanno manifestato settimanalmente, dal 2018 per oltre due anni, contro le sue politiche (Gilet Gialli, movimento sulle pensioni): questo è Macron.

Il suo cammino ha ormai le sue tappe simboliche: le Olimpiadi, la restaurazione maestosa di Notre-Dame. Due Grandi Eventi che il presidente presenta come metafore dell’Amore della Francia, del “superamento di sé”, della Responsabilità che sola può dar vita a un’unità nazionale depurata d’ogni scoria ”estremista”. Solo a queste condizioni “l’impossibile diventa possibile”, declama davanti a un parterre di capi del mondo assiepati a Notre-Dame. Tornano in auge le “radici cristiane” d’Europa, non menzionate nel preambolo del Trattato di Lisbona grazie al veto di Chirac. Unica pietra di inciampo: l’assenza di Papa Francesco, che ha preferito programmare la visita in Corsica, nella periferia di una Francia quasi decristianizzata. “Non è venuto perché predilige gli umili”, così l’arcivescovo di Parigi.

La fatidica parola d’ordine, per convincere i socialisti a “emanciparsi”, è: cultura del compromesso. Tanti socialisti ne hanno appetito. Ségolène Royal, ex candidata all’Eliseo, è giunta sino ad augurarsi in tv una “società senza movimenti sociali”. In passato fu Blair a caldeggiare un’alternanza senza alternative alla politica della Thatcher. Ora il modello è un altro: la democrazia del compromesso praticata nel Parlamento europeo. L’esempio è truffaldino. È caldeggiato da tutti coloro (la quasi unanimità, nei media francesi) che spingono i socialisti a socialdemocratizzarsi, a smettere il vecchio confronto destra-sinistra, a imparare come si fanno i compromessi e si costruiscono coalizioni “in tanti Paesi europei”, ripete Macron da mesi, negando ancora una volta la realtà delle tante coalizioni infrante nel continente, dal governo Draghi a quello tedesco.

L’Ue non ha un governo, ma un Comitato che amministra gli affari discordanti di 27 Stati e, non avendo un governo, non ha mai maggioranze parlamentari che si diano il cambio. Nulla passa in quel Parlamento se non c’è accordo del blocco centrale (Popolari, Socialisti, Liberali, Verdi, Conservatori di Giorgia Meloni). Non c’è alternanza nell’Europarlamento, ma solo continua, soffocante compromissione. Citarlo come modello è non solo scorretto, sgrammaticato. È pensiero perverso al massimo grado.

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Provano a chiamarla “responsabilità”, ma è solo destra

di martedì, Dicembre 3, 2024 0 , , , , Permalink

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 3 dicembre 2024

Dopo il voto favorevole alla seconda presidenza von der Leyen, nel Parlamento Europeo, Elly Schlein s’è ingarbugliata: “Non è la nostra Commissione ma è giusto che parta. […] Non cediamo di un millimetro”. E Zingaretti, eurodeputato: “In noi non c’è alcun cedimento, ma un protagonismo perché la destra non si impadronisca dell’Europa”. Invece il cedimento c’è, e le rassicurazioni se ne vanno in fumo fin da subito. Da quando la sinistra ha cessato di esser tale, c’è un fossato tra quel che dice e che fa: lo chiamano Responsabilità.

Il Pd non solo approva una Commissione spostata a destra, ma assieme alle stesse destre vota il giorno dopo due mozioni neoconservatrici e anti-russe sulle armi a Kiev e sulle elezioni in Georgia, giudicate illegittime senza prove serie. Schlein si esercita in doppiezza, ma è assediata dai centristi del suo partito che da Bruxelles le sparano addosso contando di abbatterla. I 5 Stelle che con Avs sono nel gruppo “Left”, in Europa, hanno votato sia contro Von der Leyen sia contro le due risoluzioni, e per questo è opportuno che almeno loro restino in piedi.

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Il sonno ipnotico della sinistra

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 3 dicembre 2024

Invece di brancolare costantemente nella nebbia, e negare che nel Parlamento europeo si esprimono e votano assieme alle destre di Meloni su questioni cruciali come la nuova Commissione, e anche la pace e la guerra, il Partito democratico ed Elly Schlein potrebbero sospendere almeno per un po’ l’abitudine di proclamare una cosa per farne un’altra e provare a dire quel che pensano dell’Europa e se magari hanno qualche idea su come cambiarla.

Se sono d’accordo oppure no con i piani di pace o di tregua che prevedono la neutralità dell’Ucraina e la cessione di territori russofoni a Mosca. Se sono favorevoli o contrari a iniziative europee autonome nei rapporti con Mosca (gli abboccamenti tentati dall’ungherese Orbán e dal tedesco Scholz sono stati bocciati dagli eurodeputati Pd, non si sa perché).

Deve anche dire, il Pd, se ha capito oppure no che l’ambizione di entrare nell’Unione europea è drasticamente diminuita nei paesi che confinano con la Russia (Georgia e in buona parte Moldavia), e che l’esito di un’elezione non diventa automaticamente illegittimo se la maggioranza degli elettori non vota come vorrebbero l’Ue, la Nato e Washington. L’adesione all’Unione europea suscita ben più sospetti di vent’anni fa, e una parte consistente di elettori georgiani e anche moldavi guardano spaventati il cumulo di morti in Ucraina e sentono che chi entra oggi in Europa aderisce per forza alle strategie belliche della Nato e di Washington. Aderisce alla nuova guerra fredda e alla corsa al riarmo che Usa, Nato e Ue vogliono, incoraggiano e pagano. Non stupisce che nelle risoluzioni dell’Europarlamento compaiano sempre più spesso termini come Comunità euro-atlantica e Ordine internazionale basato sulle regole (le regole sono statunitensi).

Per la verità i Democratici hanno già fornito una risposta a questi interrogativi, anche se regolarmente la dissimulano. Da quando è iniziata l’aggressione di Putin – dopo otto anni di guerra civile nel Donbass russofono e in parte russofilo – i deputati europei hanno votato più di 30 risoluzioni intese a finanziare una guerra inasprita ed estesa alla Russia e sempre il Pd si è allineato, con Letta e Schlein. Si può dunque presumere che la scelta decisiva sia stata fatta: in favore di una guerra sempre meno fredda con Mosca e di un’Unione che finge di integrarsi più efficacemente divenendo avamposto armato della Nato.

Torna perfino in auge Draghi, incensato dagli europarlamentari Pd con lo stesso vuoto entusiasmo esibito da Enrico Letta nelle ultime elezioni politiche. Stavolta l’Agenda Draghi n. 2 prescrive un comune indebitamento europeo come quello ottenuto da Conte dopo il Covid: non per salvare lo Stato sociale, non per far fronte al collasso climatico del pianeta, ma per finanziare l’Europa della Difesa – nuovo gioiello – e prepararsi a guerre ritenute incombenti oltre che ineluttabili.

Sarebbe un passo avanti se il Pd ammettesse queste verità, invece di ingarbugliarsi e assicurare che non cederà mai alle destre meloniane che sono ormai parte della maggioranza europarlamentare. “Nessun cedimento”, assicura Nicola Zingaretti, eurodeputato che il 28 agosto aveva annunciato: “La destra in Europa non conta perché non esiste!”. E Schlein, non meno sconclusionata: “Non cediamo di un millimetro”.

Sembrano le frasi fatte che vengono inculcate durante il sonno nello Splendido Mondo Nuovo di Huxley, con tecniche ipnotiche che fin dall’embrione bloccano ogni sorta di risveglio mentale durante il giorno, e allenano al pensiero positivo in qualunque circostanza. Frasi che non dicono nulla di fattuale, ripetute più volte a pappagallo.

La frase fatta che ricorre con più frequenza è “Siamo Responsabili”, e sempre vuol dire: ci va bene il perenne status quo, e ci comprometteremo sull’essenziale (pace/guerra, economia dell’austerità, ecc.). C’è voluto Conte e la sua denuncia del “grave errore politico” commesso mercoledì scorso dai Democratici (“Votare la Commissione Von der Leyen non è stato un infortunio”) perché i dirigenti Pd si svegliassero un attimo dall’ecolalia e capissero che come minimo dovevano spiegare il voto in favore della Commissione allargata a destra, avendo inveito per settimane contro tale prospettiva.

L’ecolalia è la ripetizione inebetita di frasi pronunciate e imposte da altri, ed è questa l’abitudine contratta dalla sinistra in Italia e in gran parte d’Europa da circa trent’anni. Oggi Schlein ricomincia a parlare di diseguaglianze sociali, di Stato sociale, di battaglie sindacali, di transizione ecologica, ma da Bruxelles gli eurodeputati Pd l’impallinano (tranne gli indipendenti Tarquinio e Strada) e comunque la segretaria non può garantire alcunché visto che con il suo consenso le principali spese andranno a difesa e armi. Si parla di transizione verde, ma come salvare la Terra se le guerre in corso e quelle pronosticate impediscono ogni negoziato e accordo tra i primi paesi inquinatori (Usa, Russia, Cina, India, Ue). E difesa da chi? Dalla Russia? Dalla Cina? Perché? Per sempre?

La sinistra naufraga in realtà da quando crollò il comunismo, e prima ancora da quando, nel 1979 e 1981, fu travolta dalla possente onda neo-liberista e antistatalista di Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Si pensò che il socialismo non sarebbe precipitato assieme al comunismo, dopo l’89, invece è accaduto proprio questo, dato che tante loro idee erano comuni. La sinistra venuta dopo fu una finzione, per non dire una frode. Si presentò come molto “responsabile”, pronta a riarmare l’Europa e a trasformarla in “comunità euro-atlantica”, contro le volontà di gran parte dei cittadini e gli interessi del continente. La lista dei trasformatori è lunga: Blair, Hollande, Macron, Veltroni, Renzi, Gentiloni+Minniti, Letta, e Starmer dopo la decapitazione politica di Jeremy Corbyn, oggi deputato indipendente).

Molti sostengono, specie in Francia, che la sinistra dovrebbe diventare socialdemocratica per essere del tutto accettabile (accettabile da chi?). Ma la socialdemocrazia del dopoguerra è stata ben altro, almeno in Germania. Essere socialdemocratici voleva dire, negli anni 50 e durante la Distensione negli anni 60, costruire una sicurezza europea assieme all’Urss, come propose poi Gorbaciov nell’89. Queste le convinzioni di Willy Brandt ed Egon Bahr, contrari alla guerra fredda e ai riarmi Nato.

La socialdemocrazia di allora considerò “serie”, “da valutare”, le Note di Stalin del marzo 1952, che offrivano la riunificazione delle due Germanie in cambio della neutralità tedesca e della non adesione alla Nato. Oggi si potrebbero cercare soluzioni analoghe per l’Ucraina, tanto più che Putin non è Stalin e la Russia non è l’Urss. Ma a differenza di allora, la vera socialdemocrazia non c’è. Ci sono frammenti di partiti progressisti, che potrebbero aiutare il Pd a svegliarsi dalle sonnolente frasi fatte in cui è immerso. Un po’ di pensiero woke non ci sta male, e per questo forse i neoconservatori hanno in odio tutto quel che dipingono come woke, e è solo “risveglio”.

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Le due facce di Trump in Ucraina e a Gaza

di domenica, Novembre 10, 2024 0 , , , , Permalink

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 10 novembre 2024

È probabile che Trump Presidente non voglia iniziare nuove guerre, e che quelle cominciate voglia finirle. Almeno così dice. Allo stesso tempo non vorrebbe entrare nella storia come perdente: cosa accaduta a Biden quando lasciò l’Afghanistan dopo gli accordi che il predecessore stipulò con i Talebani. Trump lasciò a Biden il lavoro caotico della ritirata.

Lo stesso si può dire per la guerra russa in Ucraina che Biden e l’inglese Boris Johnson hanno voluto durasse fino ad oggi – anziché concluderla con un trattato già pronto poche settimane dopo l’invasione – e che è ancora una guerra indiretta Stati Uniti-Russia. Trump vorrebbe finirla o almeno congelarla perché attribuisce una razionalità alla potenza russa e perché ritiene che gli Stati Uniti abbiano fornito troppi miliardi e armi a Zelensky.

L’ingresso di Kiev nella Nato lo considera un impaccio, visto che l’Alleanza comunque lo infastidisce, specie se entra in gioco il famoso articolo 5: Trump vuole intervenire quando e dove e per i motivi che decide lui. Non lascerà decidere a una tecnocrazia (Nato o Onu che sia) quel che è legale o non lo è. Quand’era Presidente, Trump ha sanzionato la Russia e super-armato l’Ucraina. Potrebbe ora auspicare la sua neutralità, ma non è detto. L’isolazionismo con gli alti dazi è sicuro in economia. Il resto è imprevedibile.

Lo scenario muta radicalmente, per il momento, quando dall’Ucraina si passa a Israele. Anche qui Trump vuole che le guerre finiscano, per via dello spazio che occupano nei media e nelle università. Ma intende adoperarsi perché Netanyahu raggiunga quel che si è prefisso: una guerra di riconquista delle terre bibliche, una Grande Israele senza più palestinesi se non schiavizzati.
Questo intende il nuovo Presidente quando invita Netanyahu a “finire la bisogna” (finish the job) sia in Palestina (Gaza e Cisgiordania), sia in Libano, sia soprattutto contro Iran e alleati in Yemen, Iraq, Siria. Nei mesi scorsi ha criticato Biden per aver “troppo frenato Netanyahu” (in realtà il freno era finto) e per questo il Premier israeliano ha glorificato la vittoria di Trump, cui sono andate le sovvenzioni più copiose delle lobby israeliane in Usa. Riassumendo: mentre lo Stato israeliano sta inghiottendo impunemente l’intera Palestina, Trump vuole accattivarsi gli Stati petroliferi sunniti e abbattere il secolare nemico iraniano e i suoi seguaci in Medio Oriente.

Qui conviene fare un salto indietro nel tempo, se si vuol capire la genesi delle due guerre in Ucraina e Medio Oriente. In ambedue i casi siamo alle prese con potenze nucleari (Usa, Russia, Israele dotata di oltre 100 testate) e sia Trump sia il consigliere Elon Musk rispettano solo gli Stati atomici detti “santuari”.
Secondo molti studiosi statunitensi, come Branko Marcetic, Michael Galant o Mehdi Hasan di origine araba, l’eccidio del 7 ottobre 2023 – quando Hamas abbatté la recinzione di Gaza e uccise in Israele 1.139 persone (di cui 695 civili) catturandone circa 250 – non è affatto un’ora zero della storia, un secondo genocidio che annulla gli anni in cui gli indigeni arabi furono scacciati o soggiogati, ma è la conseguenza, atroce e forse non più evitabile, di oltre mezzo secolo di umiliazioni ed espulsioni anti-palestinesi, accentuate in particolare dalla prima presidenza Trump.

Fu Trump nel 2018 a smettere le sovvenzioni Usa all’Agenzia Onu per l’assistenza dei rifugiati palestinesi UNWRA, su spinta di Netanyahu. Nello stesso anno uscì dall’accordo sul nucleare con l’Iran, aumentò gli assassinii con i droni (del generale iraniano Qasem Soleimani e dell’iracheno al-Muhandis nel 2020) e intensificò il contributo, iniziato da Obama, alla guerra saudita in Yemen. Fu il suo ministro degli Esteri Pompeo a giudicare “perfettamente in linea col diritto internazionale” le colonie in Cisgiordania, nel 2019, e fu ancora Trump, sempre nel 2019, a riconoscere la sovranità israeliana sulle alture occupate del Golan ai confini con la Siria, suscitando l’ira degli abitanti drusi. Una delle colonie porta il nome di “Trump Heights”.
Infine, fu lui a spostare l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendo di fatto la sovranità israeliana sull’intera città, compresa Gerusalemme Est occupata. Fu lui ad architettare gli accordi di Abramo tra Israele, Emirati e Bahrein nel 2020. Obiettivo: il depotenziamento dell’Iran e della questione palestinese, e l’estensione della sovranità israeliana sul 30% della Cisgiordania.

È a partire dalla prima presidenza Trump che i Palestinesi, scoraggiati come mai, rappresentati ormai efficacemente solo da Hamas e Jihad, sono stati sopraffatti da collera e disperazione, smettendo di credere nella soluzione dei due Stati che l’Occidente infruttuosamente continua a declamare. Si è così giunti al culmine efferato della protesta: l’evasione dal recinto di Gaza e l’assalto del 7 ottobre, simile per alcuni versi alla nemesi dell’11 settembre 2001 o all’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022: invasione che ha alle spalle anch’essa una storia lunga, visto che dal 2008 Mosca ha ripetutamente definito un pericolo esistenziale l’allargamento Nato a Ucraina e Georgia, ai propri confini.
Ma se Trump ha avuto più voti musulmani di Kamala Harris, se molti voti arabi sono andati all’ecologista Jill Stein, che denuncia la “colonizzazione e il genocidio dei Palestinesi”, è perché il cosiddetto campo progressista è vuoto. L’enorme errore di Kamala Harris, dopo quasi tre anni di guerra per procura in Ucraina e dopo uno sterminio già in parte compiuto a Gaza e ora in Libano, è stato di restare aggrappata alla presidenza Biden, senza accennare la minima rottura (“non c’è una sola politica di Biden che io disapprovi”), e di spostare a destra il proprio partito, vietando ai protestatari filopalestinesi di prender la parola alla Convenzione democratica e blandendo i responsabili di aggressioni e torture in Afghanistan e Iraq (famiglia Cheney).

Lo studioso Norman Solomon paragona Harris a Hubert Humphrey, vicepresidente di Lyndon Johnson, che quando si candidò alla Casa Bianca nel 1968 non ebbe il fegato di staccarsi da Johnson e dalla sua guerra in Vietnam. Perse rovinosamente contro Nixon.
Così Kamala Harris. Pensava di vincere demonizzando Trump e difendendo i diritti delle donne all’aborto, e la maggioranza delle donne bianche ha scelto Trump: l’economia era per loro prioritaria. Pensava di convincere gli ispanici: se li è presi Trump. Inoltre per colpa di Biden aveva poco tempo: poco più di tre mesi di campagna.
Ora i giornali dominanti se la prendono con Harris. L’accusano di aderire alla cultura woke, custode delle minoranze e della loro inclusione. Si ripropone l’annosa polemica delle destre contro il ’68. Forse in passato Harris difese le minoranze – in patria e fuori – proprio come le aveva difese Humphrey. Ma il potere e i soldi dei donatori l’hanno prima stravolta, poi affossata. L’hanno talmente accecata che in agosto definì se stessa e il vice Tim Walz due invincibili “guerrieri gioiosi” (joyful warriors).

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Guerre e migranti, il diritto è a pezzi

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 23 ottobre 2024

A forza di violarli e ignorarli, il diritto internazionale e quello europeo stanno diventando ininfluenti, inconsistenti come fossero soffioni: basta un soffio e i semi si disperdono nell’aria.

Accade nella guerra in Ucraina, e a Gaza, in Libano, in Cisgiordania. Non c’è convenzione internazionale e risoluzione Onu che sia rispettata, specie a Gaza dove secondo la Corte di giustizia dell’Onu è “plausibile” il genocidio, chiamato alternativamente sterminio o pulizia etnica.

E accade anche per quanto riguarda il diritto europeo, in questi giorni in Italia. Il diritto dell’Unione è preminente sulle leggi nazionali, e resta tale anche con il decreto sui Paesi sicuri che il governo ha varato lunedì come norma non più secondaria, ma primaria. La legge europea sancisce il diritto dei migranti a fuggire dal proprio Paese e a chiedere asilo in Europa, se la nazione di provenienza li perseguita o li minaccia, e dunque non è “sicura”. La Corte di giustizia europea ha confermato il 4 ottobre che i migranti non possono esser rispediti in Paesi che non siano sicuri in tutte le loro parti e per numerose categorie di persone.

È il motivo per cui il Tribunale di Roma, obbedendo alla vincolante legge europea, ha costretto il governo Meloni a riportare in Italia i dodici migranti trasferiti in Albania: i Paesi da cui erano fuggiti sono l’Egitto e il Bangladesh, che il governo italiano continua a ritenere sicuri e che per il diritto europeo non lo sono, né in parte né in toto. I giudici non potevano che disapplicare il trattenimento dei migranti in Albania, dove le procedure di rimpatrio sono accelerate e le tutele minime. Come ricorda giustamente Franz Baraggino sul giornale e il sito del «Fatto» ogni giudice italiano è anche giudice europeo, e “un Paese di provenienza è sicuro per tutti o non lo è per nessuno”.

Non bisogna tuttavia illudersi. Al pari del diritto internazionale, anche quello europeo sta disperdendosi nell’aria, perché il Patto sulla Migrazione e l’Asilo approvato nell’aprile scorso permetterà a partire dal 2026 di respingere con procedure d’urgenza chi fugge da Paesi solo in parte sicuri. Secondo la Commissione Ue, il nuovo sistema “è orientato ai risultati ma ben ancorato ai valori europei” (in inglese la dicitura è più cruda: il management sarà “sostenibile e dignitoso”).

Una serie di Paesi Ue insiste perché il nuovo Patto sia introdotto fin dal 2025. E non pochi governi, con la presidente della Commissione Ursula von der Leyen, elogiano il modello Albania sottacendo la questione Paesi sicuri. D’altronde non sono sicuri la Libia, l’Egitto, la Tunisia, il Sudan, con cui l’Unione ha stipulato costosi accordi di rimpatrio. Inoltre il primato del diritto europeo su quello nazionale è diffusamente contestato: dalla destra ed estrema destra in Francia, dall’estrema destra in Polonia.

Scrive l’avvocato Fulvio Vassallo che il nuovo Patto sulla Migrazione cancellerà gran parte del diritto d’asilo, proprio “nel momento in cui arriveranno i richiedenti asilo frutto delle guerre di cui sono complici gli Stati europei”. Allo svanire del diritto internazionale e delle sue Convenzioni (genocidio, rifugiati, tortura, protezione dei civili nelle guerre, diritto umanitario, diritti dell’infanzia, razzismo) contribuiscono anche gli Stati Uniti, come complici decisivi, che s’allarmano per il carnaio a Gaza e l’invasione del Libano ma facilitano ambedue fornendo bombe a Israele, aiutandolo in Libano e promettendo assistenza contro l’Iran.

Così vengono frantumate sia le leggi europee, sia le istituzioni e le leggi internazionali create dopo l’esperienza nazifascista.

È sotto attacco l’Onu, in prima linea. È ormai usuale trattarla come ostacolo irrilevante, e Netanyahu imita Washington che a partire dall’11 settembre 2001 ha scatenato guerre feroci contro gli “assi del male”, delegittimando e aggirando le Nazioni Unite. Il culmine lo sta toccando Netanyahu, convinto o istigato da ministri neofascisti che desiderano annettere Gaza e Cisgiordania.

L’assalto ai soldati Onu nel Sud Libano (Unifil) ha suscitato grande riprovazione, ma è solo l’ultima di una lunga serie di offensive israeliane contro l’Onu. Vari governi europei hanno definito “inaccettabile” quel che continuano ad accettare, come sempre accade quando si usa questo scabrosissimo aggettivo. “È una guerra contro il mondo”, si rammarica l’ex Presidente del Consiglio Prodi, e aggiunge una frase bizzarra: “Non avrei mai creduto che potesse avvenire”. In realtà tutto è già avvenuto. L’Onu e le sue leggi sono in fiamme da tempo e in particolare dopo l’attentato Hamas del 7 ottobre 2023.

È sotto attacco il Segretario generale Onu, che non si stanca di condannare la punizione collettiva che s’abbatte su un intero popolo (compresi bambini, donne, medici, giornalisti) per gli eccidi commessi da Hamas. A partire dal 2 ottobre, Antònio Guterres è stato dichiarato persona non grata in Israele per non aver subito deplorato la rappresaglia iraniana dopo l’assassinio di Nasrallah, leader di Hezbollah.

È sotto attacco l’Unwra, l’agenzia Onu che dal 1949 assiste i Palestinesi a Gaza e in Cisgiordania, oltre che in Giordania, Libano e Siria. Per il governo israeliano Hamas e Unwra sono la stessa cosa e nel gennaio scorso Netanyahu ha accusato dodici suoi rappresentanti di partecipazione al massacro del 7 ottobre. Il 22 aprile l’accusa è stata giudicata senza fondamento da un’analisi indipendente commissionata dall’On. A Gaza, le sedi Unwra, le sue scuole, i suoi ospedali sono stati rasi al suolo. Più di 230 suoi dipendenti sono stati ammazzati. Parecchi Stati occidentali, tra cui l’Italia, hanno sospeso i finanziamenti, sia pure temporaneamente, dopo la denuncia di Netanyahu.

Non per ultima è sotto attacco la Corte internazionale di giustizia, organo giudiziario dell’Onu. La Corte ha statuito nel gennaio 2024 che il rischio di genocidio a Gaza è plausibile, e ha ordinato a Israele di adottare entro un mese le misure per prevenirlo. La sentenza è denigrata dal governo israeliano.

Nonostante le tante violazioni, l’Occidente si proclama custode del diritto internazionale, specie in Ucraina. Ma anch’esso aggira l’Onu, propugnando un suo ordine basato sulle regole: quelle della Nato e di Washington. La tesi prevalente nei governi e nei media tradizionali è che accettare la sconfitta di Kiev vuol dire avallare le trasgressioni del diritto internazionale e la modifica bellicosa dei confini: cosa che l’Occidente ha già abbondantemente fatto, smantellando militarmente la Jugoslavia e rovesciando i regimi malvisti con soldi e armi. La Russia è malvista, ma è una potenza nucleare, dunque Washington per ora è prudente. Non ci sarà da stupirsi se l’Iran, osservando come vanno le cose, si doterà anch’essa del deterrente atomico, che Israele possiede da mezzo secolo.

In mezzo alle rovine del diritto internazionale ed europeo, non restano in piedi che l’equilibrio del terrore, e il falso progressismo di chi vuole accogliere i migranti solo perché “ci servono economicamente”.

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Perché oggi l’atomica è di nuovo possibile

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 26 settembre 2024

Si sente spesso dire, da politici e commentatori, che gli europei non sono quelli d’un tempo: hanno paura della guerra, non sanno più farla. Anche quando combattono per procura, lasciando che siano gli ucraini a morire per i cosiddetti Valori Occidentali, son pronti a vendere le armi ma non la pelle.

Degli Stati Uniti si dicono cose analoghe, anche se Washington ha uno scopo specifico: fingere un’egemonia planetaria peraltro già perduta. All’Europa apatica e invertebrata mancherebbe il coraggio: quello che ti spinge entusiasticamente al fronte e all’economia di guerra per difendere una Causa.

Queste lamentazioni apparentemente vorrebbero risvegliare, smuovere, ma sono in realtà prive di senso. Il motivo per cui la guerra e gli stermini sono visti più volentieri in Tv che guerreggiati in prima persona – ma comunque visti volentieri e caldeggiati – nasce non dalla paura di essere coinvolti e sacrificare soldati, ma da una mancanza spettacolare di paura.

Le guerre del 900 sono ricordate, non senza timori, ma stranamente c’è una guerra che non sembra suscitare autentica e durevole paura nei politici: il conflitto nucleare, scatenato magari dall’uso russo di atomiche tattiche nel teatro di guerra ucraino e seguito non improbabilmente da uno scontro nucleare tra Russia-Occidente. Per quanto riguarda le guerre dello Stato israeliano (Gaza, Libano, Cisgiordania, Siria, Yemen, in prospettiva Iran) quel che viene occultato, più che dimenticato, è il potenziale atomico di cui Israele dispone dagli anni 60: oggi tra 100 e 200 testate.

C’è da domandarsi se questo grande lamento dei politici nasca da una memoria sepolta ad arte di quel che fu il bombardamento del Giappone nel 1945, prima a Hiroshima poi a Nagasaki, nonostante Tokyo fosse già pronta alla resa. A deciderlo fu il presidente Harry Truman. Poi durante la Guerra di Corea (1950-53) l’uso dell’atomica fu nuovamente contemplato dal generale Douglas MacArthur. Il comandante delle truppe nella zona di guerra supplicò Truman di colpire Corea del Nord e Cina con 34 bombe nucleari. Per fortuna fu licenziato.

Già in Corea dunque l’atomica era banalizzata. In Europa si moltiplicavano i movimenti anti-nucleari ma l’esperienza di Hiroshima e Nagasaki finì nel dimenticatoio. Fu certamente un crimine contro l’umanità se non un genocidio, ma molti esperti e politici continuano a dire che la guerra con il suo strascico di morte sarebbe durata per anni, se non fosse stata provvidenzialmente interrotta da “Little Boy” e “Fat Man”, i due nomi scherzosi dati alle ogive. Negli anni successivi il governo giapponese preferì nascondere il fatto che Tokyo prima di agosto era disposta alla resa, e che le atomiche furono sganciate per mandare un segnale all’Unione Sovietica, in vista delle imminenti spartizioni d’Europa.

Uno dei motivi per cui la banalizzazione e gli occultamenti sono stati possibili e accettati dai vincitori del ’45, secondo lo storico di diritto internazionale Richard Falk, è la “sbalorditiva coincidenza”, nel dopoguerra, di due eventi cruciali: la decisione dei vincitori di convocare il tribunale di Norimberga contro i crimini nazisti, l’8 agosto 1945, e i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki due giorni prima e uno dopo, il 6 e 9 agosto dello stesso anno.

Non solo il Tribunale adottò una giustizia dei vincitori, mettendo appropriatamente sotto accusa la Germania di Hitler, ma sorvolando sui crimini di guerra degli alleati (distruzione totale e indiscriminata di Dresda e di molte città tedesche, lucidamente descritta da Winfried Sebald in “Storia naturale della distruzione”). Ancor più gravemente, il Tribunale fu muto sulle atomiche impiegate in Giappone.

Il misfatto dei vincitori occidentali – responsabile Usa in testa – perdura nonostante le ripetute commemorazioni, e le due bombe non ricevono la denominazione che meritano: un delitto condannabile accanto a quelli nazisti. A tutt’oggi gli Stati Uniti non sono chiamati a rendere conto, e come minimo a scusarsi, di quello che fu un inequivocabile crimine contro l’umanità: né militarmente giustificato, né legale, né legittimo. Gli uccisi dalle due esplosioni a Hiroshima e Nagasaki furono 214.000, i feriti 150.000. Negli anni successivi migliaia di sopravvissuti morirono o s’ammalarono di cancro, leucemia e altri effetti delle radiazioni.

Scrive ancora Richard Falk, a proposito dell’impunità di cui godettero, e godono ancora, le amministrazioni Usa: “Non si tratta solo di insensibilità. Si tratta di intorpidimento morale, che predispone gli attori politici – siano essi Stati, imperi o leader – ad abbracciare crimini passati e a commettere futuri crimini” («Counterpunch», 12.8.2022). Rivelatore il titolo del film di Stanley Kubrick, nel 1964: Il dottor Stranamore – Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba. La bomba atomica si abbraccia, si ama. Così si trasforma in impiegabile mezzo di guerra.

La guerra di Israele in Medio Oriente e tra Nato e Russia in Ucraina, più quella che si prospetta con Pechino su Taiwan e sul Mar cinese meridionale, può sfociare in conflagrazione nucleare. Alla luce di questa possibilità, è dissennato svilire e denunciare la paura che pervade parte delle popolazioni. Dopo Hiroshima e Nagasaki, e da quando Israele e altri Stati si sono dotati dell’atomica, la natura della guerra è inevitabilmente cambiata. Anche il pianeta, barcollante com’è, non sopporterebbe simili disastri. Ripetere che in Ucraina l’Occidente “non sa più fare le guerre” è da scriteriati. Washington ne pare più consapevole dell’Unione europea.

Nel 1979 il filosofo Hans Jonas disse, nel libro Il principio responsabilità, che esiste un’euristica della paura, che impone di cercare e conoscere meglio noi stessi grazie alle energie racchiuse nei nostri spaventi, se si ha a cuore il futuro della terra. Esiste la possibilità di correggere politiche e comportamenti, scrisse, se non ci si affida a visioni salvifiche (esportazioni del comunismo, della democrazia) ma a visioni di possibili catastrofi.

Fa parte di questa euristica (ricerca, scoperta), la consapevolezza che le guerre in corso non solo si potevano evitare ma possono essere fermate, e che a questo scopo le parole di condanna non bastano, specie se provenienti dall’Onu e dai suoi veti. Può invece bastare l’interruzione totale dell’invio di armi sia a Israele, sia a un’Ucraina che non può vincere e per salvarsi dovrà trattare subito. La condizione è smettere la complicità dei governi con le industrie di produzione e commercio di armi, interessatissime a proseguire le guerre. Secondo il SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) i primi tre fornitori di armi a Israele sono Usa, Germania e Italia. Quando se ne comincerà a parlare in Italia?

Ecco perché è davvero una controverità continuare a ignorare o insultare le paure dei cittadini, e a immaginare un’Europa bellicosa come nei “bei tempi passati”. È il coraggio della pace che ci vuole, ma unito alla volontà di prender sul serio la paura dell’atomica.

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Occidente, democrazia zombi

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 21 settembre 2024

Verrà il momento in cui andare a votare sarà un nonsenso, a meno di non abbellire l’evento con spettacoli gratuiti, a ogni seggio: concerti, fuochi d’artificio, varietà.

Già oggi nelle principali democrazie occidentali le elezioni sono puro spettacolo teatrale: sono elezioni zombi per una democrazia zombi, afferma lo storico Emmanuel Todd nel suo ultimo libro (La Défaite de l’Occident, La disfatta dell’Occidente).

Niente di quanto dicono e promettono i candidati è verosimile, essendo presto smentito. Anche il linguaggio che usano – stigmatizzazioni automatiche, formule in stile pubblicitario ripetute tante volte che paiono rivolgersi ai sordi – serve a dissimulare, nascondere, perpetuare il potere di élite dominanti che solo per finta si sottopongono al voto. Le élite sono al servizio delle lobby sulle questioni essenziali (pace e guerra, finanze, energia, clima) e le lobby aborrono lo scrutinio universale.

Nel vocabolario delle élite europee spiccano parole nebbiose e sconclusionate, utili a screditare il dissenso. L’accusa di sovranismo è la principale: chiunque reclami più indipendenza, nazionale o europea, commette peccato sovranista. Altro epiteto infamante: populista. La storia del populismo è lunga e complessa, ma è oggi usata per denigrare la sovranità popolare e svuotare il suffragio universale.

Gli episodi di democrazia zombi si moltiplicano negli ultimi tempi, annullando non tanto le alternanze politiche – i passaggi di governo da un campo all’altro – quanto la possibilità che le alternanze producano alternative. Il potere enorme e tutelare del gruppo centrale che governa malgrado le elezioni incorpora le sinistre centriste e non tollera alternative. Nel 2013 Mario Draghi incensò il “pilota automatico” che negli organi dell’Unione europea era indifferente alla sovranità popolare e alla dialettica destra-sinistra. Nel 1993 Clinton coniò il termine “democrazia di mercato”. Continuamente evocati, i Valori imbellettano l’erosione delle democrazie operata dall’ideologia neoconservatrice che resta ai comandi ed è legata alle grandi industrie dell’energia e degli armamenti.

Il caso statunitense va menzionato per primo, visto che si tratta della superpotenza da cui l’Europa vuole dipendere. Nella campagna contro Donald Trump, Kamala Harris pretende di rappresentare la sinistra in lotta contro l’estrema destra. E certamente Trump è totalmente imprevedibile, dunque pericoloso. Ma ecco che improvvisamente, a spalleggiare Harris, scendono in campo personaggi neoconservatori di destra ben più nefasti di Trump: tra questi campeggia Dick Cheney, già vicepresidente di Bush jr, che in realtà comandò e stravolse gli equilibri internazionali al posto del Presidente, e che è responsabile di 5 milioni di morti nelle guerre successive all’attentato dell’11 settembre, in Afghanistan e in Iraq oltre che in vari altri Paesi del globo.

È Cheney l’ideatore-organizzatore delle prigioni di Guantanamo, del Memorandum che legalizzava la tortura in Iraq e in Afghanistan, della sorveglianza di massa dei cittadini (Patriot Act), del ricorso della Cia al trasporto, alla detenzione illegale e alla tortura di prigionieri sospettati di terrorismo in undici Paesi europei tra cui l’Italia (Extraordinary Rendition). È lui che mise in pratica l’estensione dei poteri presidenziali, tramite la “teoria dell’esecutivo unitario”. Anche Alberto Gonzales, consigliere giuridico di G.W. Bush e responsabile del Memorandum sulla tortura, appoggia Kamala Harris.

Sia Cheney sia Gonzales sarebbero liberi di cambiare casacca, se la cambiassero. Non l’hanno cambiata e tuttavia Harris si è detta “onorata” dalla scelta di Cheney, nel duello televisivo con Trump, e ha fatto capire che continuerà a capeggiare il Partito Unico della Guerra che Biden ha guidato in questi anni: alimentando il conflitto Usa-Russia in Ucraina e sostenendo con armi e danaro la guerra di Israele su più fronti (genocidio a Gaza, ritenuto “plausibile” dalla Corte Internazionale di Giustizia dell’Onu; offensiva anti-Palestinese in Cisgiordania, mortiferi attacchi cibernetici in Libano e Siria, missili ieri su Beirut). Nel dibattito con Trump, Harris ha promesso di aiutare Israele contro i nemici esterni: cioè Iran, Hezbollah, Huthi dello Yemen. “Abbiamo le forze armate più letali del mondo”, ripete con fierezza. Sull’immigrazione proclama che anche lei erigerà muri al confine col Messico, più efficacemente di Trump.

C’è poi il caso francese. A luglio si è votato per una nuova Camera e la sinistra unita nel Nuovo Fronte Popolare è arrivata prima, con un classico programma socialdemocratico: aumento del salario minimo, tassazione di extraprofitti, fiscalità che non favorisca i più ricchi, riforma più equa delle pensioni. Macron non ha accettato l’esito elettorale, pur sapendo che i propri deputati sarebbero dimezzati senza le desistenze al secondo turno delle sinistre. Risultato: l’Eliseo ha nominato Primo ministro Michel Barnier, esponente di uno dei partiti meno votati, i Repubblicani. Macronisti e Destra Repubblicana sono centrali nel nuovo governo, e la politica di ieri, respinta da tre quarti dei francesi, continua indisturbata. In mancanza di maggioranza, non potrà che patteggiare con l’estrema desta. Macron non è riuscito a dividere le sinistre, perché i socialisti restano per ora fedeli all’unità. Il suffragio universale per Macron è un non evento.

Terzo caso: i laburisti di Keir Starmer, che fra il 2018 e il 2020 ha emarginato la vera sinistra di Jeremy Corbyn, profittando delle campagne che lo bollavano come antisemita e forse aizzandole. Sull’immigrazione Starmer rinnega solo in apparenza i conservatori: gli immigrati che aspirano alla regolarizzazione non verranno trasferiti in Ruanda ma in Albania, quali che siano i costi e la legalità. Starmer si dice attratto dal “modello Meloni” e si è recato a Roma per omaggiarlo.

Ultimo caso degno di nota: quello del Parlamento europeo, che non ha potere né rappresentatività in politica estera, ma influisce su media e partiti nazionali. Giovedì ha approvato un’ennesima risoluzione che propugna l’uso di missili occidentali in Russia, dunque lo scontro diretto Nato-potenza atomica russa. Neanche una riga è dedicata ai negoziati. Hanno votato a favore i Popolari, i Liberali, i Verdi, i Socialisti e parte dei conservatori.

Per l’Italia si sono opposti 5 Stelle, Sinistra, Verdi e Lega. Solo due socialisti si sono astenuti, Cecilia Strada e Marco Tarquinio. Piuttosto ridicoli gli eurodeputati Pd: prima hanno votato la cancellazione del paragrafo sull’uso dei missili in Russia, poi hanno approvato l’intera risoluzione con il paragrafo non eliminato. Nell’Europarlamento dominano i centristi del Pd. E i centristi, come diceva Mitterrand, “non sono né di sinistra né di sinistra”.

Il modo migliore di tradire l’elettore è convincerlo a scegliere il “male minore”. Sono considerati un male minore Kamala Harris, Macron, Starmer, perfino Meloni quando aderisce all’interventismo Neocon. Il male minore è talmente simile al male che meglio fingere che sia un bene e addirittura un Valore europeo.

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Il piano Draghi vuole l’Eurexit

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 14 settembre 2024

Stupisce, nel Rapporto di Mario Draghi sul futuro competitivo dell’Ue, la coesistenza tra alcune giuste intuizioni sul declino europeo e l’assenza di profondità storica.

Non si spiega in altro modo l’adesione acritica a un presente che per forza cambierà, in meglio o in peggio, ma che per ora è quello che è: la corsa barcollante verso un conflitto forse nucleare che nulla ha in comune con la Guerra fredda e che somiglia piuttosto a una prolungata, micidiale crisi di Cuba. Per non parlare del collasso climatico, ormai non più minaccia ma realtà, irrimediabile se i principali inquinatori (Usa, Cina, Russia) continuano a farsi la guerra. La stragrande maggioranza dei cittadini respinge questo presente, con punte massime in Italia, Bulgaria e Grecia.

Il Rapporto pretende di guardare lontano, annuncia addirittura una rivoluzione. Il vocabolo rivoluzione è oggi moneta corrente quando s’intende il contrario. Lo usò il presidente Macron, che nel primo mandato non si vergognò di promettere un “mondo nuovo” (anch’esso respinto dai cittadini). Nessuno sguardo lungo, invece: il Piano fotografa l’attuale scenario di conflitti, per Draghi si tratta solo di prenderne atto e gestirlo. Se auspica un’Europa potenza militare che faccia a meno delle stampelle Usa, è per perpetuare guerre che sanciscano l’egemonia globale, già mondialmente a pezzi, dell’Occidente collettivo.

Nel Mondo Nuovo, l’Unione avrà un volto diverso dai primordi: la pace resta “primo e principale obiettivo”, ma solo a condizione di una crescita di produttività che abbia come orizzonte l’economia di guerra finanziata dall’Ue. L’aumento drastico delle spese di difesa è al centro del rapporto Draghi, e su questo ci soffermiamo. L’Europa è invitata a sovvenzionarlo con l’indebitamento comune (eurobond) già fruttuosamente negoziato durante il Covid dal governo Conte con altri Stati del Sud europeo. Ma Germania e Paesi nordici non intendono ripetere l’avventura.

Scrive Draghi che “in un mondo di geopolitica stabile non avevamo motivo di preoccuparci della crescente dipendenza da Paesi che ci aspettavamo rimanessero nostri amici […] l’egemonia statunitense ha permesso all’Ue di separare in larga misura la politica economica dalle preoccupazioni in termini di sicurezza, nonché di utilizzare i “dividendi della pace” derivanti dalla riduzione delle spese per la difesa per sostenere i propri obiettivi interni. L’ambiente geopolitico, tuttavia, è ora in evoluzione a causa dell’aggressione arbitraria della Russia nei confronti dell’Ucraina, del deterioramento delle relazioni tra Stati Uniti e Cina e della crescente instabilità in Africa, fonte di molte materie prime fondamentali”. Urge dunque un riarmo militare dell’Unione che permetta di uguagliare Stati Uniti e Cina, che sia governato dagli organi comunitari (Commissione, Servizio europeo per l’azione esterna, Agenzia europea per la difesa, nuova “Autorità per l’industria della difesa”). A queste istituzioni non elette va affidata la “politica economica estera” e il compito di “mantenere la nostra libertà” (sic).

È qui che vengono meno sia il senso storico sia la chiaroveggenza. L’Europa è in declino demografico, constata il Rapporto, quindi serve “aumentare la produttività”. Integrare meglio gli immigrati non è l’opzione. La guerra mondiale è il comune destino, cui ci si adatta costruendo un baluardo europeo accanto a quello statunitense. Il sempre più palese disfacimento della superpotenza Usa è negato, così come lo nega Kamala Harris: “L’America possiede la più forte e letale forza di combattimento nel mondo”, ripete torva da settimane.

L’Europa unita fu concepita in piena Seconda guerra mondiale e puntava a inglobare la Germania, primo responsabile di “aggressioni arbitrarie”. Era nell’interesse della pace europea incorporarla, così come sarebbe oggi nell’interesse europeo costruire con la Russia euro-asiatica la comune architettura di sicurezza proposta da Gorbaciov negli anni 90, quando ancora Mosca sperava di sventare l’allargamento Nato fino alle porte della Russia, grazie a promesse occidentali purtroppo solo verbali. La crisi di Cuba perennizzata cancella il ricordo delle svolte distensive di Kennedy negli Usa e di Willy Brandt in Europa. Pare il film Ricomincio da capo.

L’ideologia di Draghi ha impressionanti somiglianze – non solo linguistiche – con l’esperimento Brexit. Lo scopo è la deregolamentazione neoliberista, anche se accompagnata alla critica del modello sociale Usa e degli errori “commessi nella fase di iperglobalizzazione”, quando in Europa prevalse l’“insensibilità alle conseguenze sociali” dei piani di austerità (la corresponsabilità di Draghi non è menzionata).

È una specie di Eurexit, quella che si prospetta: l’Unione europea come progetto di pace continentale s’estingue, scompaiono i legami con il suo retroterra euroasiatico, e la Germania paese chiave è azzoppata dopo la demolizione violenta dei due gasdotti North Stream, voluta dai presidenti Trump e Biden. È la verità che Draghi non vede, anche se l’ex premier Boris Johnson l’ha resa esplicita, il 12 aprile: “Se l’Ucraina cade sarà una catastrofe per l’Occidente, sarà la fine della sua egemonia”. O invece Draghi la vede e approva Johnson?

L’economia di guerra auspicata nel Rapporto spalanca le porte alle lobby militari e contesta i vincoli normativi imposti sia dall’Unione sia dalla Banca Europea per gli Investimenti (Bei), che per statuto non finanzia riarmamenti e munizioni. Tutto questo senza relazione con la realtà: la Russia è un’immensa nazione in crisi demografica, che sa difendere le zone di confine ma non può né vuole minacciarci.

L’ex presidente della Bce insiste più volte sulle norme (i famosi lacci e lacciuoli denunciati nel 1973 dal governatore della Banca d’Italia Guido Carli, poi rispolverati da Berlusconi) che impediscono alle industrie europee, in primis militari, di cooperare e crescere. È l’identica battaglia dei fautori della Brexit contro il red tape, la soffocante burocrazia delle regole europee, soprattutto in campo sociale e militare.

Il Rapporto non spiega quali siano le norme che rallentano la deregolamentazione europea. Oltre a quelle della Banca per gli Investimenti, va ricordato l’articolo 41,2 del Trattato Ue, che su politica estera e di sicurezza dispone: “Le spese operative… sono… a carico del bilancio dell’Unione, eccetto le spese derivanti da operazioni che hanno implicazioni nel settore militare o della difesa, e a meno che il Consiglio, deliberando all’unanimità, decida altrimenti”.

Ma non è solo Draghi a stupire, assieme a chi l’incensa come Ursula von der Leyen. Stupiscono in special modo le reazioni italiane. Landini della Cgil enumera i punti positivi del Rapporto, tranne quello centrale sull’economia di guerra. In un telegiornale apprendiamo che il Piano Draghi raffigura “quel che è maestoso in Europa”. Maestoso: non c’è aggettivo più penoso, se pensiamo alle decine di migliaia di morti – in Ucraina, Gaza, Cisgiordania – che avrebbero potuto essere evitati.

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La lobby occidentale che difende Netanyahu

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 4 settembre 2024

Per la seconda volta nell’ultimo decennio l’accusa di antisemitismo si abbatte su politici di primo piano e li trasforma in appestati.

Nel 2018 toccò a Jeremy Corbyn, leader del Laburismo che difendeva i diritti dei palestinesi senza mai mettere in questione l’esistenza di Israele. Oggi tocca a Jean-Luc Mélenchon, capo del primo partito di sinistra in Francia, politicamente demolito in piena guerra di Gaza per aver sostenuto i palestinesi e messo in guardia contro tutti i razzismi, sia islamofobi sia antisemiti. Mélenchon è considerato ben più minaccioso di Marine Le Pen. Jacques Attali, già consigliere del presidente socialista Mitterrand, lo ha accusato di “genocidio simbolico”, in occasione dell’attentato alla sinagoga del 24 agosto nel sud della Francia a La Grande-Motte.

La diffamazione scatta in automatico, come un tic. È brutale e può distruggere un’ambizione politica. Ha dietro di sé la forza dei giornali mainstream, dei talk show in Tv, dell’establishment politico ed economico. Il linguaggio dei diffamatori è ripetitivo, se di linguaggio si può parlare quando vengono reiterate compulsivamente formule e aggettivi mai spiegati. È il lessico propagandistico (hasbara, in ebraico) di uno dei più potenti e antichi gruppi di pressione: la lobby sionista israeliana.

Non importa quel che accade a Gaza: più di 41.000 morti, soprattutto bambini e donne. Da tempo ha cessato di essere una rappresaglia. Non importano le proteste sempre più diffuse in Israele – parenti degli ostaggi, sindacati, giornali come Haaretz – e nelle università europee e statunitensi. Il sionismo inteso come progetto coloniale vacilla ma la lobby, finanziariamente molto influente, non se ne cura. Se osteggi le politiche di Tel Aviv, difendi i palestinesi e chiedi di metter fine all’invio di armi a Israele, vuol dire che sei antisionista, dunque automaticamente antisemita, dunque indifferente al genocidio subito dagli ebrei nel Novecento: questo il sillogismo ricorrente, arma della lobby. Il peso abnorme esercitato dai gruppi di pressione israeliani, specie negli Stati Uniti, è un dato difficilmente confutabile. È una delle tante verità israeliane mai ammesse, sempre opache.

È opaca la denominazione dello Stato, definito ebraico pur essendo abitato per oltre il 25 per cento da non ebrei (arabo-palestinesi musulmani e cristiani, cristiani non arabi, drusi, beduini, ecc.). È opaca la formula che descrive Israele come “unica democrazia in Medio Oriente”, perché la democrazia non si concilia con l’occupazione coloniale o l’assedio dei palestinesi. È opaca la forza militare di Israele, che dagli anni 60 dispone di un armamento atomico senza mai ammetterlo. Secondo il giornalista Seymour Hersh, Tel Aviv ha già minacciato una volta l’uso dell’atomica, nella Guerra del Kippur del 1973 (The Samson Option, 1991).

Ma più opaca di tutte le politiche è l’esistenza di una lobby sionista estremamente danarosa e attiva – soprattutto in Usa e Regno Unito – che fin dalla nascita dello Stato di Israele sostiene le sue politiche di colonizzazione, e che oggi appoggia l’ennesimo tentativo di svuotare la Palestina dei suoi abitanti. Si dice che Netanyahu sta spianando Gaza e attaccando anche la Cisgiordania solo per restare al potere, senza un piano per il futuro. Quasi un anno è passato dalla strage perpetrata da Hamas il 7 ottobre, e una rettifica si impone. È vero che Netanyahu teme di perdere il potere, ma un piano ce l’ha: la pulizia etnica in Palestina.

La lobby sionista ha istituzioni secolari negli Stati Uniti e Gran Bretagna e filiali ovunque. Influenza i giornali e li monitora, finanzia i politici amici. Denuncia regolarmente l’antisemitismo in aumento, mescolando antisemitismo vero e opposizione alle guerre di Israele. Nei Paesi europei operano vari gruppi di pressione tra cui l’Ong Elnet (European Leadership Network).

È chiamata a volte lobby ebraica, ma con l’ebraismo non ha niente a che vedere. Ha a che vedere con il sionismo, che è una corrente politica dell’ebraismo e che dopo molti conflitti interni ha finito col pervertire la religione. È nata nella seconda metà dell’800 e culminata nei testi e negli atti fondatori di Theodor Herzl e Chaim Weizmann. Per il sionismo politico, l’ebraismo non è una religione ma una nazione, uno Stato militarizzato, edificato in Palestina con uno slogan che falsificando la realtà era per forza bellicoso: la Palestina era “una terra senza popolo per un popolo senza terra”, data da Dio agli ebrei per sempre. Secondo il filosofo Yeshayahu Leibowitz, che intervistai nel 1991, Israele era preda di un “nazionalismo tendenzialmente fascista”. Non stupisce che Netanyahu e i suoi ministri razzisti si alleino oggi alle estreme destre in Europa e Usa.

Non tutti gli ebrei approvarono la ridefinizione della propria religione come nazione e Stato. In parte perché consapevoli che la Palestina non era disabitata, in parte perché la lealtà assoluta allo Stato israeliano imposta dalla corrente sionista esponeva gli ebrei della diaspora a sospetti di doppia lealtà.

Indispensabile per capire questa fusione tra religione e Stato militarizzato è l’ultimo libro di Ilan Pappe (Lobbying for Zionism on Both Sides of the Atlantic, 2024). Lo storico racconta, proseguendo lo studio di John Mearsheimer e Stephen Walt sulla lobby (2007), la nascita del sionismo nella seconda metà dell’800, e cita fra gli iniziatori le sette messianiche evangelicali negli Stati Uniti. Sono loro che con più zelo promossero e motivarono il movimento sionista. L’idea-guida del sionismo millenarista è che Israele ha un diritto divino a catturare l’intera Palestina. Se il piano si realizza, giungerà o tornerà il Messia. Questo univa nell’800 sionisti ebrei e cristiani. C’era tuttavia un tranello insidioso: per i sionisti cristiani, il Messia arriva a condizione che gli ebrei alla fine si convertano in massa al cristianesimo.

Il sionismo colonizzatore è oggi in difficoltà. “Non in mio nome”, è scritto sugli striscioni degli ebrei che manifestano contro la nuova Nakba (“Catastrofe”, in arabo) che il governo Netanyahu infligge a Gaza come nel 1948. E che infligge in Cisgiordania dal 28 agosto.

Ciononostante i governi occidentali accettano l’equiparazione fra antisemitismo e antisionismo, per timore delle denigrazioni e manipolazioni della lobby. Quasi tutti hanno fatto propria la “definizione operativa” dell’antisemitismo adottata nel 2016 dall’International Holocaust Remembrance Alliance (cosiddetta Definizione IRHA, legalmente non vincolante). Tra gli esempi indicati, l’antisionismo e le critiche di Israele. Il governo Conte-2 si è allineato nel gennaio 2020.

Difficile in queste condizioni monitorare e combattere l’antisemitismo. L’unica cosa certa è che la politica di Israele non solo svuota la Palestina e crea nuove generazioni di resistenti più che mai agguerriti, non solo rende vano l’appello ai “due popoli due Stati”, ma mette in pericolo gli ebrei in tutto il mondo. Nel lungo termine può condurre Israele stesso al collasso.

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