La guerra di regime change contro la potenza atomica russa

Intervento alla Conferenza “Guerra o pace? Quali scelte politiche per riportare la pace in Europa”, tenutasi venerdì 30 giugno su iniziativa della Vicepresidente del Senato Mariolina Castellone. 

Volevo cominciare con l’insurrezione fallita di Prigožin ma ieri sera ho visto una puntata di Otto e Mezzo che mi ha colpito particolarmente. Il ministro degli esteri ucraino, Dmytro Kuleba, era intervistato da Lilli Gruber, Marco Travaglio e Lucio Caracciolo: un’intervista vera finalmente, non gli osanna a Zelensky dei salotti di Bruno Vespa. Tutti e tre lo hanno incalzato con grande maestria, e Kuleba ha dovuto infine ammetterlo: la resistenza ucraina mira in realtà a smembrare quello che Kiev chiama impero russo.

Le armi che mandiamo servono alla realizzazione di questo piano, demente e rischiosissimo. Il ministro non si cura minimamente dei dubbi espressi da Mark Milley, capo di Stato maggiore degli Stati Uniti, sulla fattibilità di una vittoria ucraina che comunque non è ottenibile – Kuleba pare dimenticarlo – senza assistenza Usa. Si rallegra, sempre il ministro, all’idea che Putin possa essere indebolito dal capo del gruppo Wagner. Finge inesistenti comportamenti democratici con i russofoni del Donbass e con la stampa, accettata nei campi di battaglia solo se embedded, incorporata. Vede questa guerra come una partita di calcio: qui non giochiamo per fare compromessi ma per vincere! Ecco, gli Occidentali stanno sostenendo un governo che ha questi progetti, che non spende neanche una parola sul rischio di guerra atomica. Stanno per inserire nella Nato quest’impasto di risentimento monoetnico e furia distruttiva, come a suo tempo accolsero le primavere arabe per ritrovarsi poi faccia a faccia con l’Isis.

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Non c’è da stupirsi dunque se le reazioni dei commentatori mainstream al tentativo di ammutinamento di Prigožin, nei giornali e nei talkshow, sono state così euforiche, nel diagnosticare l’indebolirsi tanto agognato del potere russo. Come se tutti sapessero quel che realmente succede al Cremlino. Come se tutti sognassero lo stesso sogno distruttore del ministro Kuleba.

Anche se sedata rapidamente, e per ora forse efficacemente, la tentata insurrezione ha mostrato che il pericolo di un collasso del potere russo esiste, a cominciare da quello militare. Che al collasso potrebbe far seguito lo smembramento della nazione. Le armi di distruzione di massa della potenza atomica russa finirebbero in mano a poteri incontrollabili, il cosiddetto Armageddon diverrebbe ancora più vicino di quel che è oggi.

Come spiegato lucidamente da Caracciolo nelle domande a Kuleba, varie nazioni – Cina in testa – si getterebbero sui pezzi sparsi di una Russia che Kuleba s’ostina a definire non Federazione multietnica, ma impero anacronistico e poco moderno nel XXI secolo. Anche la mania di chiamare Zar il Presidente russo suggella la complicità delle élite occidentali con un’Ucraina illegalmente aggredita, ma non per questo meno colpevole di un nazionalismo russofobo sterminato.

Persino quando il pericolo dell’insurrezione di Prigožin  è apparso chiaro, ci sono stati commentatori che con visibile compiacimento, e all’unisono con i commenti di Kiev, hanno concluso che la resistenza ucraina aveva infine ottenuto questo buon risultato: Putin era debole; aveva addirittura i giorni contati. Era valsa dunque la pena assistere Kiev con invii di armi sempre più offensive e sanzioni antirusse sempre più pesanti, visto lo sfaldamento del barbarico impero che ne può discendere. Neanche per un minuto i commentatori hanno abbandonato la cecità di cui hanno dato prova da quando la guerra è de facto cominciata: cioè a partire dal febbraio 2014, quando è apparso evidente che il potere centrale a Kiev non intendeva in alcun modo integrare pacificamente le popolazioni russofone del Donbass (14.000 circa sono i morti della guerra civile fra il febbraio 2014 e il febbraio 2022. L’annessione della Crimea è anch’essa illegale, ma non è ingiustificata).

L’idea granitica dei paladini delle guerre di regime change (tutte peraltro fallite) è che la Russia vada punita per il male inflitto all’Ucraina “senza mai esser stata provocata” e all’unico scopo di espandere l’impero, come recita il refrain ripetuto senza variazioni da un anno e mezzo. Dico punizione della Russia e non del governo russo perché c’è una forte componente russofobica nelle argomentazioni dei neo-conservatori euro-americani.

Di questi commentatori – politici o giornalisti che siano, i giornalisti hanno dimenticato che sono un potere separato – andrebbe detto quel che Raymond Aron disse di Giscard d’Estaing: questi uomini “non sanno che la storia è tragica”. Esemplare da questo punto di vista il direttore di Repubblica, che la sera dell’insurrezione ha constatato il benefico indebolimento dei vertici russi, ottenuto grazie alla resistenza ucraino-atlantica. Nel suo giornale ha poi sottolineato come invadendo l’Ucraina Mosca abbia aggredito “l’architettura di sicurezza creata dall’Occidente dopo la fine della Guerra Fredda”. Non è chiaro cosa sia questa decantata “architettura di sicurezza”. So solo che non è un’architettura, e non ha garantito sicurezza bensì caos e guerre nelle varie zone critiche della terra. Un caos che genera ovunque Stati falliti e fughe in massa di profughi.

Guerre e caos sono attizzati per sancire il primato globale dell’egemone statunitense, che da quando è finita l’Urss insiste nell’ergersi a gran vincitore della guerra fredda. Una postura squilibrata e destabilizzatrice denunciata più volte da Mosca, non solo da Putin ma anche da Gorbachev e Eltsin. L’aspirazione di Bush, Clinton, Obama, Trump, Biden a un ordine mondiale unipolare ha ucciso sul nascere l’idea di una “Casa Europea”, ovvero del sistema di sicurezza che Gorbačëv proponeva a un’Europa di cui Mosca si sentiva giustamente parte.

L’architettura di sicurezza rimpianta da Molinari ha rimpiazzato la Casa Europea e sancito il predominio di Washington su un continente trasformato in avamposto – come Corea del Sud, come Taiwan – della potenza Usa. Consentiamo agli allargamenti della Nato su ordine statunitense, e l’allineamento europeo a Washington nella guerra ucraina ha polverizzato ogni velleità di autonomia strategica. Siamo parte della sfera d’interesse statunitense, avendo perso di vista i nostri interessi. Oggi l’ordine internazionale unipolare è celebrato, in Italia, come il più morale dei mondi possibili. Unica eccezione: il Movimento Cinque Stelle e Sinistra italiana. Il loro opporsi è bollato come putinismo appena si esprime.

Cito l’inesistente architettura di sicurezza del dopo guerra fredda per mettere in luce le falsità, le riscritture storiche, le calunnie che infestano il vocabolario delle élite occidentali mentre imperversa una guerra per procura. Un vocabolario che storce o cancella la realtà, che sostituisce il reale con le cosiddette narrazioni (“cosa ci raccontano questi eventi?”, usano chiedere i giornalisti televisivi), e che è confezionato per giustificare l’ostinato proseguimento di una guerra che – ormai lo sappiamo – poteva probabilmente concludersi fin dal marzo 2022, qualche giorno dopo l’invasione, a sentire non solo l’ex premier israeliano Naftali Bennett il 4 febbraio ma Putin stesso. In occasione di un incontro con dirigenti africani a Mosca, il 17 giugno, il Presidente russo ha persino mostrato la bozza del trattato che i negoziatori delle due parti firmarono nel marzo 2022 in Turchia.

Il trattato s’intitolava “Permanente Neutralità e garanzie di sicurezza per l’Ucraina”, e prevedeva l’inserimento nella costituzione ucraina della neutralità permanente (dunque la cancellazione del paragrafo sull’auspicata adesione alla Nato, inserito in costituzione nel 2019 dal governo Poroshenko). Stati Uniti, Gran Bretagna, Russia, Cina e Francia erano indicati come garanti. La nuova formulazione non era una resa dell’Ucraina. Si tornava alla neutralità permanente sancita in costituzione quando il paese divenne indipendente nel 1990. Incalzato da Travaglio su quell’accordo, Kuleba ha fatto finta di non capire.

Intanto la deformazione dei vocabolari prosegue. Si continua a parlare di “aggressione russa non provocata”, quando è evidente che l’aggressione era illegale ma che le provocazioni occidentali c’erano state. Da oltre sedici anni sappiamo che l’allargamento a Est della Nato – che gli Occidentali avevano promesso di evitare quando fu riunificata la Germania – era vista come minaccioso accerchiamento non solo da Putin, ma anche da Gorbačëv e Eltsin. Nella conferenza annuale di Monaco del 2007 Putin parlò di linee rosse oltre le quali il conflitto tra Russia e Occidente era inevitabile. La Nato e Washington hanno finto di non sentire, espandendo l’Alleanza atlantica all’Europa orientale e spingendosi fino a promettere l’adesione a Ucraina e Georgia, nel vertice Nato a Bucarest del 2008 poi in quello di Bruxelles del 2021.

Neanche la guerra in corso interrompe la strategia di totale indifferenza agli interessi russi, tanto è vero che fra qualche giorno, l’11 luglio, la Nato si riunirà a Vilnius per riconfermare la volontà di integrare l’Ucraina, magari senza fissare date precise. Se questo passo cruciale sarà compiuto – perfino Macron dice ora di volerlo compiere – vorrà dire due cose: primo, la Nato intende prolungare la guerra anziché aprire negoziati; secondo, il peso di Polonia e Stati baltici è oggi preponderante nell’Unione europea e nell’Alleanza atlantica.

Un altro concetto deformato è quello di “pace giusta”, col quale si usa zittire chi si oppone all’invio di armi a Kiev, specie a lungo raggio. Pace giusta è un ossimoro, perché nelle presenti circostanze la tregua è possibile solo se ambedue le parti fanno concessioni ritenute ingiuste fino al giorno prima. Ripetere che solo una “pace giusta” è negoziabile significa, semplicemente, volere che la guerra continui. È quello che hanno segnalato Londra e Washington, quando Zelensky si disse disposto, nel marzo 2022, a un compromesso con Putin che prevedeva la neutralità ucraina e la rinuncia alla Crimea. Boris Johnson si precipitò allarmatissimo a Kiev, vietando a Zelensky ogni concessione e confermando spudoratamente che la guerra in Ucraina era sin da principio guerra per procura fra Nato e Mosca, proxy war sulla pelle del popolo ucraino e magari perfino di Zelensky. Altro che difesa delle sovranità e dell’autodeterminazione degli Stati, sbandierata senza sosta dalle democrazie occidentali!

L’ipocrisia di quello che Mosca chiama abbastanza correttamente “occidente collettivo” giunge sino a negare il diritto alle sfere di influenza, in nome della sovranità e dell’autodeterminazione dei popoli. Biden cita spesso quel che disse, da vicepresidente, alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco del 2007: “Non riconosciamo a nessuna nazione il diritto di avere una propria sfera di influenza. Continuiamo a credere nel diritto degli Stati sovrani di prendere proprie decisioni e di scegliere le proprie alleanze”. È dai tempi di Wilson che le amministrazioni Usa ripetono questa menzogna. La verità è che Washington condanna tutte le sfere d’influenza altrui tranne la propria, che difende con le unghie, i denti e guerre ripetute. Inizialmente, ai tempi della dottrina Monroe due secoli fa, tale sfera comprendeva America centrale, America Latina e forse Canada. Oggi copre il pianeta, e in Europa si estende fino ai suoi confini orientali, dove l’Occidente non esita ad abbaiare – son parole di Papa Francesco – alle porte della Russia. Lo stesso dicasi di Taiwan, che permette di abbaiare alle porte cinesi. Chiunque minacci le sfere d’influenza Usa è equiparato, ogni volta, a Hitler.

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Questo continuo riferimento a Hitler, al trattato di Monaco, a Churchill, dovrebbe farci riflettere. Generalmente chi ricorre a simili paragoni invita a grandi battaglie contro il male assoluto, identificato di volta in volta con questo o quello Stato nemico dei valori occidentali. L’invito alle battaglie sui valori è falso, perché nasconde l’aspirazione al brutale predominio di un unico sistema, rivestito dai valori come da un mantello. Ma c’è qualcosa di ancora più insidioso nel richiamo alla seconda guerra mondiale: c’è, a mio parere, una volontà di potenza che esalta in blocco la seconda guerra mondiale, e la guerra in sé. Esalta una vittoria ottenuta a seguito di una distruzione del tutto sproporzionata delle città tedesche, e delle atomiche lanciate su Hiroshima e Nagasaki quando il Giappone già era palesemente disposto alla resa.

Lo storico Stephen Wertheim ha scritto un articolo illuminante su questo slittamento delle memorie belliche, in Europa e soprattutto negli Stati Uniti. Con l’esaurirsi della generazione che aveva vissuto la seconda guerra mondiale, le memorie sono passate dalla paura della guerra e dagli sforzi di prevenirla alla sua glorificazione. Il modo in cui si è combattuto non è mai messo in questione, se si escludono i movimenti anti-nucleari e i libri illuminanti di Winfried Sebald sulle città tedesche rase al suolo per volontà di Churchill. La mancata condanna delle atomiche sganciate sul Giappone, infine, contribuisce a banalizzarne sempre più l’uso. È significativa e inquietante la discussione in Russia attorno a un articolo di Sergej Karaganov, già consigliere di Putin, che ipotizza l’uso dell’atomica per resuscitare, visto che altri modi non ci sono, le paure del dopoguerra e far rinascere, col forcipe, il dialogo Russia-Occidente (“La paura dell’escalation nucleare deve essere ripristinata”).

Le popolazioni occidentali sono addestrate per fronteggiare sempre nuovi mali assoluti coi quali poi si finisce per negoziare, come in Afghanistan. Non sono addestrate per tenere in vita la paura, menzionata da Karaganov, del conflitto nucleare. In era atomica tale paura è benefica, così come indispensabile in qualsiasi futura trattativa è esaminare gli effetti delle proprie azioni, a cominciare dagli allargamenti della Nato. I pacifisti oggi non negano il diritto ucraino a difendersi. Si battono perché si metta fine a una guerra per procura che inavvertitamente, su iniziativa di qualche Dottor Stranamore, può slittare in conflagrazione atomica. Il fatto che se critichiamo Biden e la Nato siamo definiti putiniani significa che lo slittamento è vicino.

Sono decenni che la Nato e i suoi Stati membri si esercitano in simulazioni dette war games, giochi di guerra (i campi di calcio descritti da Kuleba). Sarebbe ora che l’Europa – il primo continente a essere devastato in caso di conflitto nucleare – concentrasse tutti gli sforzi sui giochi di pace. Sui modi per attenuare i pericoli, come seppe attenuarli Kennedy durante la crisi di Cuba, quando diede inizio alla distensione smantellando i missili Jupiter installati in Turchia. Questa è l’arte che urge riapprendere, e che neanche durante la guerra fredda fu dimenticata com’è dimenticata oggi: l’arte con cui si negoziano prima le tregue, poi la coesistenza pacifica, poi i sistemi di sicurezza collettiva, poi se possibile la pace tra nazioni e valori diversi.

Intervento al dibattito “Pace e politica”,
4 novembre 2022

 

Prima di esporre alcuni pensieri sulla guerra in Ucraina vorrei fare due premesse. La prima concerne la decisione del governo russo di invadere l’Ucraina, il 24 febbraio. Penso che l’operazione speciale sia stata lungamente ponderata da Putin, che sia stata chiamata così non solo per dissimularla ma anche per diminuirne la portata (i falchi in Russia chiedevano la mobilitazione generale e ora ne hanno ottenuta una parziale), ma che si sia trasformata in una trappola per Mosca. L’operazione viola il diritto internazionale, e danneggia a lungo termine la postura della Russia anche se, come vedremo, non la isola. L’occidente ha violato per decenni le leggi internazionali (in Jugoslavia e soprattutto in Kosovo, poi in Iraq, Afghanistan, Somalia, Libia) e perlomeno non ha le carte in regola quando denuncia, anche giustamente, l’aggressione di Mosca.

Seconda premessa: nell’era atomica tutti i ragionamenti sulla guerra che continua la politica con altri mezzi sono incendiari. In simili circostanze non ci si può permettere due guerre contemporaneamente contro potenze nucleari, come avviene oggi: una guerra calda tra occidente e Russia in Ucraina, e una fredda con la Cina su Taiwan. Una potenza in declino come gli Stati Uniti non può gestirle senza fallire (le guerre americane sono tutte fallite dopo il 1945, a cominciare dalla guerra di Corea) e questa incapacità accresce il rischio dello scontro atomico, che assicura morte e malattie mortali in Ucraina e ben oltre l’Ucraina.

Quel che mi colpisce nei dibattiti attuali è la mancanza di una conoscenza vera della Russia: della sua storia, del suo sistema di potere, della sua gestione del consenso. Sul tema intervengono in genere persone con scarsissima conoscenza, e ancor peggio: con zero curiosità. Persone che usano l’Ucraina e il popolo ucraino per fini di politica interna. La russofobia e le accuse di putinismo sono frutto di questa ignoranza esibita senza pudore: un’ignoranza militante già palese in altre guerre recenti, in Afghanistan o Iraq o Siria. All’ignoranza si aggiunge poi un’abissale ipocrisia. Lo Stato d’Israele occupa dal 1967 territori che appartengono ai palestinesi, da anni vi applicano una politica di apartheid, e la violazione del diritto internazionale è palese, ed è violata col consenso degli Stati occidentali.

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Non ricordo simile tempesta perfetta accompagnata da ignoranza così militante: clima, guerra mondiale a pezzi come la chiama Papa Francesco, e pandemie, inflazione, disuguaglianze sociali, rischio deliberatamente calcolato di un conflitto atomico. Più rapporti scientifici – uno dell’Onu – ci hanno detto nelle ultime settimane che la finestra di opportunità per fermare il disastro climatico si sta chiudendo, che siamo vicinissimi all’irreversibile punto di non ritorno. Per limitare i danni occorre concordare misure drastiche su scala planetaria, e in primo luogo fra i paesi più inquinatori, cioè Stati Uniti, Russia, Cina, India, Unione Europea. Impossibile procedere in presenza di guerre, sanzioni punitive quasi permanenti e una crisi sociale acutizzata da guerre e sanzioni che ovviamente rende più difficile il contrasto del disastro climatico.

Finire la guerra in Ucraina e ricominciare la cooperazione con Russia e Cina è dunque l’imperativo categorico (secondo Kant, l’imperativo comporta un «devi» assoluto, universale e necessario: “Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona che nella persona di ogni altro uomo, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”). Per poter agire in tal modo, è urgente capire la vera natura di questa guerra, e individuare in maniera corretta – come vedremo in seguito – la sua genealogia.

La vera natura: è evidente che in Ucraina è in corso una guerra per procura fra due potenze atomiche. Se non fosse così, sarebbe forse già finita. Questo semplicissimo fatto continua a essere negato, come se fosse refutabile che Stati Uniti e Nato hanno armato l’Ucraina fin dal 2014 e la stanno più che mai armando. Come fosse refutabile che una serie di recenti provocazioni belliche sono state con ogni probabilità orchestrate dai servizi inglesi, statunitensi e in parte polacchi: dal sabotaggio dei due gasdotti Nord Stream alla distruzione del ponte di Kerch che collega Ucraina e Crimea sino a giungere all’offensiva contro la flotta russa a Sebastopoli in Crimea.

È una guerra raccontata del tutto scorrettamente dai governi occidentali, dai media mainstream, dall’UE (Parlamento europeo compreso): non solo si sorvola sui battaglioni neonazisti ucraini impegnati nella battaglia (in primis il battaglione Azov), ma fin dall’inizio viene confusa con la seconda guerra mondiale quando invece somiglia alla prima, essendo un conflitto attorno a ambizioni geopolitiche e a sfere di influenza e interessi. Invece viene presentata, da Washington, dalla Nato, dai media mainstream, come guerra di civiltà contro Putin “peggio di un animale”, “macellaio”, Hitler reincarnato. Davanti a cumuli di cadaveri e a milioni di profughi ci si pavoneggia con osceno orgoglio, ci si guarda allo specchio fieri di vedere non se stessi ma Churchill (tra parentesi, diciamoci che anche Churchill peccò di hybris bellica, di dismisura): aveva già vinto, e radere al suolo Amburgo, Dresda e altre centoventinove città tedesche fu osceno. I morti civili che subirono i bombardamenti a tappeto in Germania furono seicentomila e sette milioni i senzatetto. Lo racconta lo scrittore Sebald, nel bellissimo libro Storia Naturale della Distruzione). Quante volte abbiamo sentito, non solo in questa guerra ma in quella contro Milosevic, i Talebani, Saddam Hussein, Gheddafi: è Hitler, bisogna scongiurare l’appeasement, l’acquiescenza che caratterizzò il trattato di Monaco del ‘38.

La manifestazione sulla pace del 5 novembre – promossa da una rete di associazioni e subito appoggiata da Giuseppe Conte – è per dire che non se ne può più di queste incitazioni alla riscossa, del fossato che si è aperto fra la guerra come viene presentata e la guerra effettiva, sul terreno. Stiamo usando il popolo ucraino come mezzo e dimostrazione, non come fine. Non c’è elettricità né acqua in tante città ucraine e ancora i prìncipi che pretendono di governarci aspirano alla vittoria totale di Kiev, alla punizione definitiva di Putin, dunque a una guerra prolungata. E forse tra le cose più oscene c’è questo: dopo le elezioni di midterm, martedì prossimo, Biden potrebbe cambiare la narrativa bellica, non disponendo più di una maggioranza parlamentare. Quanti morti e feriti è costata questa lunga sua campagna elettorale contro i più prudenti repubblicani? Quanto vicini siamo a un conflitto nucleare?

A dire il vero, continuiamo ad andarci molto vicino. Sia Mosca che Washington fanno sapere che son disposte a usare l’atomica per primi, se minacciati esistenzialmente. Si combatte Putin come fosse Milosevic o un capo talebano, dimenticando che la Russia è una superpotenza nucleare, dotata di più di 6200 testate atomiche.

In linea di principio, la dottrina della deterrenza è concepita per precludere il ricorso all’atomica: chi volesse usarla per primo viene dissuaso perché sa che sarà a sua volta annientato da eguale e quasi simultanea potenza. C’è tuttavia un paradosso della deterrenza (un catch-22), e consiste nel fatto che la tua capacità di attacco deve essere “credibile”: cioè l’avversario deve credere nella tua capacità di usarla qui e ora; la bomba è al tempo stesso inutilizzabile e utilizzabile. Ecco perché Putin dice che la sua minaccia non è un bluff. Ecco perché la dottrina nucleare americana presentata lo scorso ottobre non esclude il ricorso all’atomica contro aggressioni convenzionali, contrariamente a quanto promesso da Biden nella campagna elettorale del 2020.

L’atomica è oggi banalizzata soprattutto come arma tattica, da impiegare nel teatro di battaglia, lo è un po’ meno come arma strategica che colpisce a lunghe distanze, ad esempio in un conflitto Usa-Russia. Solo in questo caso vien definita con la parola Armageddon, il luogo nell’Apocalisse dove vengono radunati tutti i Re.

L’atomica nel teatro di battaglia può sfociare nell’Armageddon, ha detto Biden, ma l’esito non è così sicuro. Può darsi che venga usata nel teatro di battaglia senza preludere a scambi di missili tra Usa e Russia. Magra consolazione: nel conflitto ucraino il teatro di battaglia è l’Europa, non gli Stati Uniti. Il generale Fabio Mini ha spiegato come le moderne armi tattiche possano distruggere un’area di 10 città (sono ben più micidiali delle bombe di Hiroshima e Nagasaki, dotate rispettivamente di una potenza di 15 e 21 kilotoni. Oggi possono arrivare a 170 kilotoni). Quel che si sta testando, sulla pelle degli ucraìni e in prospettiva dei russi e degli europei, è la possibilità di un attacco nucleare su scala ridotta. Chi dice ancora che i nostri interessi sono identici a quelli statunitensi o è sonnambulo o mente sapendo di mentire.

Come in altri casi, la disinformazione è impressionante. Fra il 17 e il 30 ottobre, la Nato ha svolto un’esercitazione nucleare in Inghilterra e Belgio, con la partecipazione anche dell’Italia (il nome in codice: Steadfast Noon 2022). Se ne è parlato poco, ma in cambio si è parlato moltissimo di un’analoga esercitazione russa, non meno inquietante ma iniziata dopo, il 27 ottobre. La Nato ha inoltre preceduto Mosca, con le minacce nucleari: il 23 agosto Liz Truss, allora ministro degli Esteri, si disse “pronta a impiegare l’atomica”. “Anche se questa scelta comporta l’annientamento globale?”, le chiesero. Truss rispose affermativamente. I giornali mainstream ripetono che non è guerra per procura, ma se sei così pronto a sganciare l’atomica vuol dire che è una proxy war. Idem se affermi – come ha fatto il ministro inglese delle forze armate – che un attacco ucraino in territorio russo è “perfettamente legittimo. Ed è proxy war se è vero quel che ha scritto a maggio il giornale Ukrayinska Pravda, citando fonti vicine a Zelensky: tra marzo e aprile Kiev era disposta a negoziare, offrendo come primo gesto la neutralità, ma a partire dal 9 aprile Londra e Washington opposero il veto. Il governo Draghi come sempre tacque.

Altra bugia sempre ripetuta: la Russia è isolata nel mondo, quando isolati sono gli Occidentali. Contro la politica statunitense ed europea ci sono i paesi del Brics (Russia, Cina, India, Brasile, Sud Africa), e il cosiddetto Sud Globale. È la stragrande maggioranza degli abitanti terrestri.

E veniamo alla genealogia del conflitto: sistematicamente accantonata, quasi fosse un argomento pro-Putin. La responsabilità della guerra è di Mosca, ma il conflitto ha avuto inizio a partire dal momento in cui il governo ucraino ha calpestato i desideri prima di autonomia (soprattutto linguistica) poi di indipendenza delle popolazioni russofone nel Donbass, scatenando contro di esse – per sei anni – milizie neonaziste ben integrate nell’esercito regolare. Il culmine della repressione antirussa è avvenuto nell’ottobre 2018, quando il predecessore di Zelensky, Petro Poroshenko, ha fatto approvare dal Parlamento una legge piromane che toglie alle lingue minoritarie, russo compreso, lo statuto speciale di lingue regionali e limita drasticamente il loro utilizzo nella sfera pubblica e nelle scuole. Nelle università sono ammessi l’inglese e altre lingue dell’Unione europea, non il russo. Qualche giorno prima del conflitto, poi, Zelensky disse di voler rivedere il memorandum di Budapest del 1994, che sancisce lo status non nucleare dell’Ucraina.

Ma non è tutto. Risalendo indietro negli anni, non possiamo dimenticare le umiliazioni inflitte alla Russia nel dopo guerra fredda, l’estensione della Nato a Est (in pochi anni il territorio Nato è raddoppiato, e almeno dal 2007 Putin dice che il prospettato allargamento a Georgia e Ucraina è una linea rossa per la Russia). Tutto questo nonostante le esplicite promesse, fatte nel 1990 a Gorbachev quando fu unificata la Germania, di non estendere la Nato a est: “neanche di un pollice”, disse il segretario di Stato James Baker. Il 17 maggio 1990 l’allora Segretario Generale della NATO Manfred Wörner dichiarava: “Il fatto stesso che non siamo disposti a installare truppe Nato al di là della Germania dà all’Unione Sovietica solide garanzie di sicurezza”.

Da quando la Nato decise di violare la promessa, è Mosca a essere accusata di mire imperiali. Può darsi che una tentazione imperiale ci sia in Putin, anche se ne dubito: l’interesse russo a non avere la Nato che abbaia alle porte – come dice il Papa – non è diverso dal rifiuto statunitense di missili sovietici a Cuba nel ’62. E poi Putin è stato chiaro: “Chiunque non senta la mancanza dell’Unione sovietica non ha cuore, ma chiunque voglia il suo ritorno non ha cervello”.

Zelensky sembrò rinunciare all’ingresso nella Nato, in primavera, ma dopo l’annessione alla Russia di quattro province ucraine l’ha chiesta di nuovo, alla fine di settembre. L’ha presentata con queste parole: “In sostanza siamo già alleati. De facto, abbiamo già dimostrato la compatibilità con gli standard dell’Alleanza. L’Ucraina sta chiedendo di confermarla de jure, con una procedura accelerata”.

C’è un sottotesto nella richiesta di Zelensky: quando afferma che “in sostanza l’Ucraina è già membro della Nato”, manda a dire che di fatto, anche se non de jure, l’Alleanza è mobilitata come se per Kiev valesse fin da ora l’articolo 5 del Trattato Nord-Atlantico sulla reciproca assistenza militare. E infatti sono molti, sia tra i politici sia tra i commentatori, che prendono sul serio tale ipotesi e annunciano che siamo già entrati nella terza guerra mondiale. L’annuncio è insensato e sobillatore. Nessun Parlamento in occidente ha discusso e approvato l’entrata in guerra e la maggioranza dei popoli nel mondo è contraria. Partecipiamo arricchendo chi vende armi ma il compito di rappresentare i cittadini sulle questioni di pace e guerra l’abbiamo affidato al Parlamento (articoli 78 e 87 della Costituzione, le condizioni sono fissate nell’art 11), non all’azienda Leonardo.

Altra notizia falsa: la molto vantata coesione del fronte occidentale. Per la verità non sono mancate voci dubbiose in Europa, se si escludono fedelissimi come Polonia, i Nordici, i Baltici, l’Italia. Sono reticenti il governo tedesco e anche francese (Macron ha detto che non bisogna umiliare e mettere nell’angolo il Cremlino). Ma soprattutto sono reticenti i popoli. Un sondaggio pubblicato in aprile dall’associazione EuropeforPeace conferma che la grande maggioranza degli europei avversa l’invio continuativo di armi, spera in negoziati di pace (o di tregua) con Mosca, è contrario all’aumento delle spese militari raccomandato dalla Nato. Il sondaggio di Eurobarometro dà risultati opposti ma ho sempre ritenuto inaffidabile l’istituto, essendo finanziato, gestito e molto spesso manipolato dalla Commissione Europea.

Vorrei tornare al pericolo nucleare, per ricordare una coincidenza di date che è parte dell’odierna genealogia bellica. I primi a sganciare ordigni atomici contro un paese non nucleare furono gli Stati Uniti, nell’agosto 1945. Un attacco che militarmente del tutto insensato: il Giappone era già sconfitto. Tendiamo a dimenticare che fra il lancio della prima bomba a Hiroshima e della seconda a Nagasaki, il 6 e il 9 agosto, ci fu – l’8 agosto – un accordo fra i quattro vincitori della guerra (Usa, Urss, Francia, Inghilterra) che istituiva il Tribunale di Norimberga contro i crimini nazisti. Lo studioso di diritto internazionale Richard Falk definisce i due bombardamenti atomici “crimini geopolitici di massimo terrore”: commessi all’unico scopo di ammonire il Cremlino in vista dell’imminente diplomazia del dopoguerra. Ma per quei crimini terristi non c’è stato processo.

Anche questo contribuisce alla banalizzazione dell’atomica e al risentimento russo. Un risentimento riacceso quando Stati Uniti e Occidente si proclamarono vincitori della guerra fredda e che oggi si estremizza per volontà degli Stati Uniti, che una cosa l’hanno già ottenuta: la separazione duratura dell’Europa dalla Russia, paese europeo per eccellenza. La grande illusione statunitense è impermeabile alle sconfitte e può esser riassunta così: l’ordine sulla terra non è più bipolare ma unipolare. Il nuovo ordine mondiale annunciato da Bush senior ha creato caos. Non si rifà più all’Onu ma si chiama “ordine basato sulle regole” – rules-based international order (le regole sono quelle occidentali e la guida è statunitense). Tuttavia è oggi del tutto minoritario, e l’aspirazione al multipolarismo cresce e si diffonde, specie in Russia, Cina, India, Brasile. E sempre più contestata, inoltre, l’egemonia geopolitica del dollaro. Gli alleati degli Stati Uniti sono sparsi sulla terra (le basi militari Usa sono 800 e forse di più, la Russia ne ha una in Siria) ma sono, per l’appunto, una piccola minoranza.

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Vorrei concludere con un’osservazione personale, alla vigilia della manifestazione di domani. In questi otto mesi non sono mancati momenti difficili, il discorso sulla pace non passava, piovevano le accuse di putinismo. Recentemente, il 25 ottobre, ho trovato particolarmente sconfortante il ritiro di un appello favorevole a negoziati di 30 Democratici Progressisti americani. L’appello, lanciato appena un giorno prima, era talmente blando da sembrare governativo. Nei momenti di sconforto penso a quanto tempo ci volle per influire sulla guerra in Vietnam, ai rarissimi che denunciarono la devastante guerra di Corea (si sfiorò un secondo lancio di atomiche Usa in quell’occasione). Le guerre dopo l’11 settembre sono diventate infinite, eppure vale la pena sforzarsi, “non per stare in pace ma per costruire la pace”, dice il Papa. E sempre mi guidano le parole di Samuel Beckett: “Ho provato sempre. Ho sempre fallito. Non importa. Prova di nuovo. Fallisci di nuovo. Fallisci meglio”.

Guerra in Libia: chiudere il Mediterraneo è un crimine contro l’umanità

Strasburgo, 16 aprile 2019. Intervento di Barbara Spinelli nel corso della sessione plenaria del Parlamento europeo. 

Punto in agenda:

Situazione in Libia

  • Dichiarazione del Vicepresidente della Commissione/Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza

Presenti al dibattito:

  • Federica Mogherini – Vicepresidente della Commissione/Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza

 

Visto che la terza guerra in Libia non si risolverà pacificamente, chiedo all’Alto Rappresentante di parlar chiaro sui migranti, intrappolati nei Lager libici affinché non vengano da noi.

L’evacuazione dei Lager è limitatissima, conferma l’Onu, dunque Le chiedo quanto segue:

  • che l’operazione Sophia torni subito a dotarsi di navi europee, per impedire naufragi. Il Mediterraneo è l’unica via di fuga: continuare a bloccarla è un crimine contro l’umanità.
  • che la Commissione e il Servizio azione esterna raccomandino agli Stati membri l’immediata cessazione dei rimpatri in un Paese più che mai insicuro.
  • che l’evacuazione sia facilitata da corridoi umanitari, nelle zone di guerra, e che i migranti detenuti ricevano l’acqua e il cibo che manca da giorni.

Vincent Cochetel (inviato speciale dell’UNHCR) ha detto il 9 aprile scorso che nel Mediterraneo non si fa più Search and Rescue, ma Search and Return, e che l’Unione – fornendo alla Libia navi e tecnologie – si rende complice di torture, stupri e schiavitù. Come risponde a queste accuse, Signora Mogherini?

Ue – Operazione Sophia al servizio delle guardie costiere libiche

di giovedì, Aprile 11, 2019 0 , , , , Permalink

Bruxelles, 8 aprile 2019. Intervento di Barbara Spinelli nel corso della riunione della Commissione Libertà civili, giustizia e affari interni del Parlamento europeo

Punto in agenda:

Proroga del mandato dell’Operazione Sophia di EUNAVFOR MED fino al 30 settembre 2019. Scambio di opinioni con il Servizio europeo per l’Azione esterna

Presente al dibattito:

Pedro Serrano, Segretario generale aggiunto del SEAE

Vorrei esprimere la mia profonda inquietudine per il cambiamento delle modalità di azione dell’operazione Sophia di Eunavfor Med. Il ritiro delle navi, in questo momento, dopo la criminalizzazione delle organizzazioni non governative che facevano ricerca e salvataggio, è un segnale molto chiaro. Il Mediterraneo viene lasciato completamente sguarnito di operazioni di search and rescue, se non quelle affidate a una Libia che non esiste come Stato e per di più  è oggi in preda a un’imprevedibile guerra interna. È una finzione, quella di lasciare la vita di tanti naufraghi in mano alla Libia – uno Stato completamente decomposto già molto prima dell’attuale confronto bellico tra al-Sarrāj e il generale Haftar. Ed è uno scandalo che l’operazione Sophia si occuperà ormai solo di addestrare le guardie costiere libiche e di assisterle con voli di ricognizione.

Si tratta di una scelta che andrebbe rivista, perché dà l’impressione di uno strano equilibrio del terrore nel Mediterraneo, dove la funzione del deterrente è rappresentata dalla morte dei migranti. Se i migranti muoiono, la soluzione finale è raggiunta.

Ricordo che il Papa ha detto esattamente questo: non andare in aiuto dei naufraghi vuol dire decidere di lasciar morire le persone. Questa è la scelta dell’Europa, secondo il Pontefice.

Una seconda cosa che vorrei dire è che la premessa per l’addestramento delle guardie costiere libiche è che la Libia sia considerata un paese sicuro per lo sbarco. Ora, anche se voi ripetete a parole che non è un paese sicuro, addestrando le guardie libiche lo considerate di fatto tale. È dal 2016 che l’Onu afferma che non lo è. Nei giorni scorsi, in piena guerra tra Haftar e al-Sarrāj,  il segretario generale dell’Onu António Guterrez, dopo aver visitato un campo di detenzione di migranti a Tripoli si è detto “deeply shocked” e ha aggiunto espressamente: “Nessuno in questo momento può sostenere che la Libia sia un porto sicuro di sbarco. Questi migranti e rifugiati non sono solo responsabilità della Libia. Sono responsabilità dell’intera comunità internazionale”.

Questa volta è il segretario generale dell’Onu a dire che il disegno dell’Unione non funziona, che qualcosa di diverso  bisogna inventare, che sia compatibile con la legalità internazionale.

Infine, dobbiamo dedicare la massima attenzione a quello che che sta succedendo in questi giorni nei campi di detenzione, e trarne le conseguenze   Nel campo di detenzione di Tripoli i detenuti sono tirati fuori dalle celle, e le guardie gettano loro in mano le armi e li mandano a fare al guerra contro Haftar. I detenuti gridano a questo punto che vogliono tornare nelle celle: una cosa veramente atroce, se si pensa che pur di fuggirne rischiano sistematicamente  la morte in mare. Mi riferisco a un reportage molto documentato di Sally Hayden sull’«Irish Times», uscito il 5 aprile scorso. (1) È a causa di questi messaggi sull’uso dei detenuti per la guerra, che Guterres ha reagito con le parole che ho citato poco prima.

Si veda anche:

Migrants : « Nous appelons à une résolution à la crise juridique et humanitaire du sauvetage en mer », «Le Monde», 10-04-2019.

 

La criminalizzazione delle ong è un dato di fatto

COMUNICATO STAMPA

Bruxelles, 4 aprile 2019

Barbara Spinelli (GUE/NGL) è intervenuta nel corso della riunione della Commissione Libertà civili, giustizia e affari interni del Parlamento europeo del 2 aprile 2019 sul punto in agenda: “Il seguito dato alla risoluzione del Parlamento europeo del luglio 2018 sugli orientamenti destinati agli Stati membri per prevenire la configurazione come reato dell’assistenza umanitaria”.

Presenti al dibattito: Michael Shotter per la Commissione europea; Milena Zajović , presidente dell’ong Are you Syrious? (AYS – Assistenza ai rifugiati e ai richiedenti asilo, Croazia); Ana Cristina Jorge, direttrice della Divisione di risposta operativa dell’Agenzia europea della Guardia di frontiera e costiera (Frontex). 

 Di seguito l’intervento:

«Vorrei rivolgere agli oratori tre domande. Al rappresentante della Commissione ricordo in primo luogo che il problema non è l’ansia del Parlamento europeo, che voi dite di capire: è l’ansia delle persone che sono intrappolate nei centri di detenzione e nei Lager libici, di cui ci stiamo occupando da tempo in questa Commissione. Ce ne stiamo occupando perché il Mediterraneo è stato svuotato di navi di soccorso, dal momento che l’operazione Sophia avviata a suo tempo dall’Unione non ha più navi ma soltanto aerei di ricognizione e personale per l’addestramento delle guardie costiere libiche, e che le ong sono state estromesse dal Mediterraneo. Lei dice inoltre che mancano prove sufficienti – “evidences” – di una criminalizzazione delle ong. Queste prove le abbiamo tutte quante, e le avete anche voi. Cosa stiamo ancora aspettando, per definirle “evidences” ?

In questo quadro, ringrazio in particolar modo Milena Zajović per l’attività che svolge e per le prove che sta fornendo sulle politiche di push-back dalla Croazia verso la Bosnia e la Serbia. Mi piacerebbe sapere come stia procedendo l’indagine sulla morte di Madina Hussiny, la bambina afgana respinta con la famiglia in Serbia e abbattuta da un treno sulla linea di confine, e  a che punto siamo con il ricorso della famiglia presso la Corte europea dei diritti dell’uomo.

Vorrei infine rivolgermi ad Ana Cristina Jorge di Frontex e a tutti gli oratori, per parlare delle accuse che si stanno moltiplicando nei confronti delle ong, grazie al proliferare di nuove fattispecie di reati. C’è lo smuggling naturalmente, che è un crimine discusso da anni, ma ci sono fattispecie  affatto nuove. Tra queste cito la pirateria marittima, menzionata negli ultimi giorni dal governo italiano. La nave mercantile turca El Hiblu 1, arrivata recentemente a Malta con un carico di migranti salvati da naufragio, è stata accusata di aver facilitato forme di pirateria marittima perché i migranti hanno minacciato di buttarsi a mare, pur di non essere riportati in Libia. É stato scritto che hanno dirottato la nave. Non è vero: hanno solo minacciato di gettarsi in mare, come confermato dai giornali maltesi.

Un’altra fattispecie di reato veramente singolare  – citata nelle indagini in corso in Italia – è la « minaccia all’ambiente marittimo» , di cui si renderebbero responsabili azioni di Search and Rescue svolte da navi di soccorso come Sea-Watch 3, definita nelle indagini preliminari come uno yacht inadatto a operazioni di salvataggio. É impressionante la quantità di reati che viene inventata per allontanare dal Mediterraneo tutte le ong, dopo avere eliminato le navi dell’operazione europea Sophia. Il risultato di tutto questo è che il Mediterraneo è ormai completamente affidato alle guardie costiere libiche.

Infine una domanda alla signora Ana Cristina Jorge di Frontex. Lei sa che c’è stata una lettera, nei giorni scorsi, della responsabile della Direzione politica interna e migrazione della Commissione, Paraskevi Michou, in cui si legittimano e si elogiano le guardie costiere libiche: una lettera che il governo italiano ha incorporato in una direttiva sulla chiusura dei porti italiani. La lettera è stata inviata a Fabrice Leggeri, direttore dell’agenzia Frontex. Quello che le chiedo, Signora, è di farci avere la lettera che Leggeri ha scritto alla Commissione, perché evidentemente ha espresso dubbi o formulato domande cui la Commissione ha risposto con questa lettera che sembra scritta dal ministro Salvini.»

Si veda anche:

Riace, dopo il fango un po’ di luce, articolo di Roberto Saviano pubblicato su «L’Espresso» del 7 aprile 2019 in cui si cita intervento di Barbara Spinelli.

Contraddizioni della Commissione sulle guardie costiere libiche

Bruxelles, 2 aprile 2019. Barbara Spinelli (GUE/NGL) è intervenuta nella riunione della Commissione Libertà civili, giustizia e affari interni (LIBE) del Parlamento europeo nel corso del dialogo strutturato con Dimitris Avramopoulos, Commissario responsabile per la migrazione, gli affari interni e la cittadinanza.

«Ringrazio il Commissario Avramopoulos per questo nostro ultimo incontro in  Commissione Libe. Per me, è l’occasione per esprimere dubbi che  in questi anni non sono mai stati fugati, sulla coerenza e la sincerità della Commissione in materia di migrazione. Oggi faccio in particolare riferimento alla lettera di cui si è già parlato stamattina in questa sede, inviata dalla responsabile della Direzione migrazione e politica interna della Commissione, Signora Paraskevi Michou, a Fabrice Leggeri, direttore dell’Agenzia europea della Guardia costiera e di frontiera. Lettera in cui si legittimano il funzionamento  della zona SAR (search and rescue) libica, l’”ottima performance” delle guardie costiere libiche, i salvataggi fatti da queste ultime, l’uso “appropriato” del personale libico, l’aumento della sua “capacità e professionalità”. In contemporanea con questa lettera, la portavoce della Commissione Natasha Bertaud ha dichiarato tuttavia che la Libia non può esser considerato un «paese sicuro» per gli sbarchi di migranti. Tra questa lettera e la dichiarazione di Natasha Bertaud c’è una contraddizione evidente.

Capisco che non è la stessa cosa parlare di paese sicuro e di zona SAR, ma il fatto è che il governo italiano (il ministero dell’Interno) ha aggiornato la sua nuova direttiva sui porti chiusi basandosi precisamente su questa lettera della signora Paraskevi Michou, incorporandola nel testo della direttiva e citandola come conferma che rimpatriare i migranti salvati in Libia è legittimo e opportuno.

Vorrei domandare come mai nella lettera della Commissione, che ho letto e riletto, non c’è una sola parola sulle condizioni dei migranti nei campi di detenzione e nei Lager libici. Lei sa benissimo a cosa mi riferisco: l’Onu denuncia una situazione insostenibile dal punto di vista dei diritti umani fin dal 2016, e ha ripetuto la sua messa in guardia per l’ennesima volta nel marzo di quest’anno.

La seconda cosa che vorrei chiederle è come può una zona SAR essere considerata “struttura legittima e appropriata”, se la Libia non è secondo voi un “safe place of disembarkation”?

Ultima domanda: le chiedo di rendere pubblica la lettera di Fabrice Leggeri inviata alla Commissione; lettera che forse esprime dubbi e a cui la signora Paraskevi Michou ha deciso di rispondere con la lunga lettera dettagliata cui ho fatto allusione.»

Aiuto allo sviluppo: omaggio del vizio alla virtù

Strasburgo, 26 marzo 2019. Intervento di Barbara Spinelli nel corso della sessione plenaria del Parlamento europeo. 

Punto in agenda:

Istituzione dello strumento di vicinato, cooperazione allo sviluppo e cooperazione internazionale

Presenti al dibattito:

  • Neven Mimica – Commissario europeo per la cooperazione internazionale e lo sviluppo

Barbara Spinelli è intervenuta in qualità di relatore, per il Gruppo GUE/NGL, del parere della commissione LIBE sulla proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che istituisce lo strumento di vicinato, cooperazione allo sviluppo e cooperazione internazionale.

Lo strumento europeo di vicinato, sviluppo e cooperazione internazionale è un dispositivo geostrategico più che di sviluppo. Il mantra è: “Aiutiamo i migranti a casa loro”, e aiutiamo in primis le regioni che meglio rispondono ai nostri immediati interessi di politica estera.

Tutto deve essere messo in opera – dice la risoluzione – perché i flussi migratori cessino di essere irregolari e diventino “regolari, ordinati, sicuri, e responsabili. Nasce lo spauracchio del migrante non solo illegale, ma addirittura irresponsabile.

La politica classica di sviluppo si fonde con quella estera e la stabilità nei Paesi terzi viene legata a strette intese militari: contro pareri precedenti del Parlamento – per quando concerne la separazione dei fondi dedicati dello sviluppo – e fuori da ogni vero controllo parlamentare.

Infine, passano completamente sotto silenzio le guerre americane ed europee di regime change, generatrici di miseria e sfollamenti di massa.

Non manca, è vero, l’accenno alla povertà da sradicare, al ruolo delle Ong e ai diritti umani: temo sia l’omaggio che il vizio rende alla virtù.

Rule of law e democrazia: i rischi del monitoraggio Ue

Strasburgo, 25 marzo 2019. Intervento di Barbara Spinelli nel corso della sessione plenaria del Parlamento europeo. 

Punto in agenda:

Situazione dello Stato di diritto e la lotta contro la corruzione nell’Unione, in particolare a Malta e in Slovacchia

Presenti al dibattito:

  • Věra Jourová – Commissario europeo per la giustizia, la tutela dei consumatori e l’uguaglianza di genere

Barbara Spinelli è intervenuta in qualità di membro, per il Gruppo GUE/NGL, del Gruppo di monitoraggio dello Stato di diritto (ROLMG) – istituito nell’ambito di competenza della commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni (LIBE) – e relatore ombra della Risoluzione sulla Situazione dello Stato di diritto e la lotta contro la corruzione nell’Unione, in particolare a Malta e in Slovacchia.

Questa legislatura ha evidenziato che il rispetto della rule of law e dei diritti umani nell’Unione è pericolante, e la risoluzione che voteremo in aprile è uno dei tanti contributi del Parlamento in materia.

Il monitoraggio, tuttavia, presuppone che il nostro ruolo sia neutrale, mai elettoralistico, attento a evitare doppi standard e atteggiamenti punitivi. Che l’obiettivo sia quello di tutelare e rafforzare gli anticorpi nazionali, senza pretendere di sostituirci totalmente a essi. Presupposti che, purtroppo, non ritengo del tutto soddisfatti nella risoluzione.

Non chiedo di abdicare al nostro ruolo o di arginarlo, ma di renderlo incensurabile. Il rischio, altrimenti, è che le istituzioni europee vengano sempre più considerate come un potere orwelliano e che la rule of law sia percepita come imposizione esterna, da osteggiare.

Bruxelles, 20 marzo 2019. Intervento di Barbara Spinelli nel corso della riunione del Gruppo GUE/NGL. 

Punto in agenda:

  • The situation of the rule of law and the fight against corruption in the EU, specifically in Malta and Slovakia

Ho chiesto questo dibattito alla luce della centralità che la questione rule of law sta assumendo in questi anni, per la nostra attività di parlamentari. Alcuni di noi si occupano del tema da anni.

La Risoluzione che discutiamo oggi presenta criticità non rilevabili in testi analoghi del Parlamento, per quanto riguarda sia il metodo che il contenuto. Uno scambio di opinioni mi sembra dunque utile, prima che il testo sia votato in plenaria, anche considerando che nel precedente voto in commissione LIBE si è manifestata una divisione tra i deputati GUE/NGL (come relatore ombra nel gruppo di lavoro sulla rule of law avevo suggerito l’astensione. Una parte dei deputati LIBE del nostro gruppo ha preferito votare in favore).

La risoluzione rappresenta il risultato del lavoro svolto nell’ambito del Gruppo di monitoraggio sulla rule of law, istituito nel giugno scorso in seno alla commissione LIBE a seguito degli omicidi dei giornalisti Daphne Caruana Galizia e Ján Kuciak, a Malta e in Slovacchia, e della volontà del Parlamento di indagare sulle cause e le conseguenze di tali accadimenti, in termini di rispetto della rule of law. Tale volontà proseguiva il lavoro già intrapreso su Ungheria, Polonia e Romania.

In una prima fase, l’idea di creare questo gruppo ha trovato consenso quasi unanime tra i vari Gruppi politici, ma le sue caratteristiche sono state oggetto di divergenze sin dalla definizione del mandato. Il mandato infine adottato – “monitorare la situazione per quanto riguarda la rule of law e la lotta alla corruzione nell’Unione, con specifico riferimento a Malta e Slovacchia” – rappresenta un compromesso tra chi voleva un’analisi particolareggiata della situazione nei due paesi e soprattutto a Malta (il PPE) e chi, come noi e S&D, puntava a un monitoraggio più generale dello stato di diritto in Europa, non essendo questi due paesi omologabili a Ungheria e Polonia.

Nonostante il compromesso, è stata privilegiata la linea del PPE. Questo a causa dell’appoggio al PPE offerto dalla Presidente del Gruppo, Sophie in ‘t Veld, e anche dell’apatia mostrata dai socialisti nel sollevare obiezioni ben motivate a ciò che sempre più somigliava a un manifesto politico contro i due governi socialisti di Malta e Slovacchia.

Di fatto, il gruppo di lavoro si è tramutato fin da subito in una sorta di commissione parlamentare d’inchiesta – priva tuttavia dei relativi poteri – focalizzata sulla verifica delle indagini penali nazionali sugli omicidi dei due giornalisti. Il Leitmotiv era denunciare a più riprese e quasi pregiudizialmente tali indagini, ed esigere la condivisione di tutti i relativi documenti. Europol e le autorità nazionali di contrasto hanno rappresentato il punto di riferimento quasi esclusivo dei lavori.

A ciò si è aggiunta la gestione dei lavori, centralizzata nella figura della Presidente e caratterizzata da un’opacità massima e da un coinvolgimento minimo degli altri membri del working group. Cito in questo ambito l’ultimo episodio di questo procedimento affrettato e politicizzato: poche settimane fa abbiamo ricevuto da Sophie in‘t Veld due lettere trasmesse ai Premier di Malta e Slovacchia, in cui si chiedeva di dare seguito alle richieste contenute in una risoluzione approvata in Commissione ma non ancora in plenaria, e inviate senza consultare gli altri membri del gruppo.

Questo ha rafforzato in me l’impressione di trovarmi davanti a un’operazione essenzialmente elettorale. Il working group aveva perso per strada il mandato, era utilizzato soprattutto dallo shadow rapporteur del PPE (Roberta Metsola) e non a caso la risoluzione è sproporzionatamente e quasi ossessivamente focalizzata su Malta.

Più importanti ancora le criticità concernenti il contenuto. Questo è dovuto anche al fatto che i negoziati sulla risoluzione sono stati condotti con estrema velocità, senza una discussione approfondita sui punti più controversi. È così accaduto che le riserve da noi espresse sui questi punti e i nostri contributi siano stati presto e sbrigativamente scartati: la campagna elettorale stava aprendosi.

Potete trovare maggiori dettagli nel briefing trasmessovi da Lide Iruin Ibarzabal, che vorrei qui ringraziare per l’ottimo testo – riassuntivo del mio lavoro nel gruppo – scritto con Fabian Iorio. A proposito delle nostre obiezioni ignorate o scartate, mi limito a un esempio, significativo. Uno dei contributi fondamentali alla redazione del testo è rappresentato dal Parere della Commissione di Venezia del dicembre 2018 su “constitutional arrangements and separation of powers and the independence of the judiciary and law enforcement in Malta”. Nel chiedere a Malta di implementare le raccomandazioni della Commissione di Venezia, la risoluzione esorta espressamente Governo e Parlamento a intraprendere una serie di specifiche riforme costituzionali, da adottarsi inoltre in maniera retroattiva.

Si tratta di una richiesta accettabile se avanzata da un organo indipendente e consultivo quale la Commissione di Venezia, ma del tutto scorretta se presentata da un organo politico come il Parlamento europeo, per di più già immerso nella campagna elettorale. La costituzione rappresenta il pilastro dell’ordinamento giuridico interno di ogni Stato, ogni suo rimaneggiamento è di un’estrema delicatezza e non può essere soggetto a contese politico/elettorali e ingerenze esterne. A ciò si aggiunge la più che inappropriata richiesta di applicazione retroattiva di tali riforme, in contrasto con la stessa rule of law e i criteri delineati in materia dalla Commissione di Venezia (The rule of law check list, Venice Commission of the Council of Europe, adottata a Venezia l’11-12 marzo 2016). [1]

Concludo con un’osservazione più generale sulla questione della rule of law nell’ambito dell’Unione. Anche in questo caso troverete maggiori elementi nel briefing che vi abbiamo inviato prima di questa nostra riunione.

Personalmente sono favorevole a un monitoraggio sistematico dello stato di diritto nell’Unione. È una posizione che ho sempre sostenuto nei miei voti e nelle indicazioni che ho dato come shadow rapporteur di una serie di risoluzioni concernenti questo tema.

Tale monitoraggio ha per me un significato chiaro: garantire il rispetto di precisi obblighi derivanti da norme di diritto internazionale, alla cui base si collocano i diritti umani e le libertà fondamentali. Non si tratta quindi della semplice osservanza di astratti valori considerati comuni. Veramente comuni sono le norme che sottendono i valori indicati nell’articolo 2 dei Trattati, non i valori in sé.

Tuttavia, il monitoraggio presuppone che il “controllore” europeo sia neutrale, non motivato da mire elettorali, attento a evitare doppi standard, non percepito come punitivo, e deciso a criticare sia gli Stati Membri sia le istituzioni europee.

Temo che la risoluzione non rispetti appieno queste condizioni. Al tempo stesso, sono convinta che nei due Paesi esistano problemi reali e che il nostro gruppo non possa e non debba in alcun modo sconfessare le analisi della Commissione di Venezia, votando contro la risoluzione. Per questo suggerisco l’astensione in plenaria.

In aggiunta, presenterò alcuni emendamenti e proposte di split e separate vote sui punti più controversi.

[1] The Rule of Law Checklist

Uso sproporzionato della forza nelle manifestazioni

Strasburgo, 14 febbraio 2019. Dichiarazione di Barbara Spinelli a seguito del voto sulla proposta di Risoluzione di PPE, ALDE e ECR sul diritto di manifestazione pacifica e sull’uso proporzionato della forza. 

La Risoluzione è stata adottata con 438 voti a favore, 78 voti contrari e 87 astensioni.

Ho accolto con favore la decisione del Parlamento Europeo di sostenere la proposta, avanzata dal nostro gruppo, di avere un dibattito in plenaria, e relativa risoluzione, sul diritto di manifestazione pacifica e sull’uso proporzionato della forza. Deploro tuttavia l’atteggiamento eccessivamente timido adottato nella risoluzione congiunta presentata da PPE, ALDE e ECR.

Ho condiviso appieno e sostenuto con forza la condanna, presente nella risoluzione, del ricorso a interventi violenti e sproporzionati da parte delle autorità pubbliche in occasione di proteste e manifestazioni pacifiche. Tuttavia, simile condanna rimane lettera morta se non accompagnata da obblighi corrispondenti e incontrovertibili in capo agli Stati membri, come il chiaro impegno a proibire l’uso di alcuni tipi di armi “meno letali” (flashball LBD40, granate GLI F4) da parte delle autorità di contrasto, da cui possano derivare gravi lesioni dalle conseguenze permanenti. Tale richiesta era espressamente inclusa nella nostra proposta di risoluzione e negli emendamenti presentati sia dal Gruppo GUE/NGL sia dal gruppo Verdi/Ale. È per queste ragioni che ho votato, insieme ai deputati Verdi/Ale, contro il testo proposto.

*** 

Strasburgo, 11 febbraio 2019. Intervento di Barbara Spinelli nel corso della sessione plenaria del Parlamento europeo.  

Punto in agenda:

  • Diritto di manifestare pacificamente e uso proporzionato della forza
    Dichiarazione della Commissione

 Presenti al dibattito:

  • Karmenu Vella – Commissario europeo per l’Ambiente, gli affari marittimi e la pesca

L’uso sproporzionato della forza contro le manifestazioni e leggi di natura liberticida concernenti il diritto alla protesta si diffondono nei Paesi membri dell’Unione e dobbiamo occuparcene, anche se la competenza è degli Stati nazionali. Ce ne occupammo in una risoluzione parlamentare del 2002, che deplorò la sospensione di diritti dei dimostranti contro il G8 a Genova, sospensione di cui il governo italiano si era reso responsabile nel 2001.

Quando vengono usate armi con effetto mutilante o anche letale contro i manifestanti (flashball LBD40, granate GLI F4) è chiaro che sono violati diritti europei. Penso agli articoli della Carta europea sul diritto all’integrità fisica e mentale, alla libertà di assemblea e di espressione. La rule of law non è solo osservanza delle leggi. È anche tutela di questi precisi diritti, non meno inviolabili nel mantenimento dell’ordine. Tali armi vanno bandite nello spazio dell’Unione.

Le parole usate dal governo francese per descrivere l’insieme dei manifestanti Gilets Jaunes – “casseurs”, “factieux”, “brutes” – echeggiano le accuse di sedizione violenta contro i prigionieri politici catalani e stridono con il nostro ordine giuridico.

 

Allegati:

Testo finale della Risoluzione adottata dal parlamento

Testo della proposta di risoluzione comune presentata da S&D, Verdi/ALE e GUE/NGL

Testo della proposta di risoluzione presentata dal GUE/NGL

Gli emendamenti 6-14 e 15-21 alla risoluzione presentati dal GUE/NGL

Comunicato stampa del GUE/NGL diramato dopo il voto

Risoluzione sulla Carta dei diritti fondamentali UE

Strasburgo, 11 febbraio 2019. Intervento di Barbara Spinelli nel corso della sessione plenaria del Parlamento europeo.  

Punto in agenda:

  • Discussione congiunta – Attuazione di disposizioni del trattato

Presenti al dibattito:

  • Frans Timmermans – Primo vicepresidente della Commissione europea e Commissario europeo per la migliore legislazione, le relazioni interistituzionali, lo stato di diritto e la carta dei diritti fondamentali

Barbara Spinelli è intervenuta in qualità di Relatore, per il Parlamento europeo, della Relazione sull’attuazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea nel quadro istituzionale dell’UE.

Intervento di Apertura – Presentazione del Relatore

Signor Presidente, onorevoli colleghi, vorrei spiegare quali sono stati gli obiettivi di fondo che ho perseguito, nel lungo lavoro sulla relazione riguardante l’attuazione della Carta dei diritti fondamentali.

C’è un punto sul quale ho insistito in modo particolare ed è che l’Unione non deve avere un atteggiamento passivo verso i diritti sanciti dalla Carta: non deve limitarsi a scongiurare eventuali violazioni di tali diritti, ma deve adoperarsi attivamente per la loro promozione e il loro sistematico e preliminare accorpamento in tutti i provvedimenti e le decisioni adottati dall’Unione. Non si tratta solo di un obbligo discendente dal diritto internazionale dei diritti umani, ma di un dovere espressamente sancito nella Carta stessa.

La Carta ha certamente rappresentato un punto di svolta nell’integrazione europea, ma la sua adozione non può e non deve essere considerata come traguardo finale: la natura della Carta è evolutiva, influenzata dalle leggi internazionali e dalla giurisprudenza delle Corti europee. È la piena concretizzazione dei diritti in essa sanciti l’obiettivo cui bisogna ambire costantemente.

Non dico questo a caso. Lo dico partendo dalla convinzione che la crisi dell’Unione è troppo vasta, e il divario creatosi fra cittadini e istituzioni europee troppo profondo, perché non si faccia il punto della situazione partendo proprio dai cittadini, dal loro malcontento, dalla loro sensazione di essere ignorati nei loro diritti. In molte politiche europee, i diritti elencati nella Carta non hanno lo spazio che viene formalmente garantito loro dalla legge europea oltre che dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. Spesso sono addirittura ignorati, soprattutto quando sono in gioco i diritti sociali e il rapporto fra questi ultimi e le esigenze legate alla competitività nel mercato unico. Sono ignorati anche i diritti di chi, non importa se irregolarmente o regolarmente, entra e risiede nel territorio dell’Unione e dunque è parte del nostro sistema giuridico. Di qui il mio appello a porre in essere sistematiche valutazioni di impatto sui diritti, preliminari ed ex post, ogni volta che vengono adottate politiche in aree cruciali come le politiche di stabilità economica – specie nell’eurozona – le politiche commerciali e gli accordi con Paesi terzi firmati dall’Unione, la politica migratoria. Questioni in parte già presenti nella relazione ma che ripropongo in alcuni emendamenti per la plenaria, tanto sulla cosiddetta governance economica quanto sui rifugiati e migranti, il cui diritto al non-refoulement siamo chiamati a rispettare per legge.

L’obiettivo di questo testo è di chiarire il ruolo della Carta, mettendo in luce le difficoltà che continuano a sorgere nella sua attuazione piena. Lo stress test è uno strumento usato per sondare la tenuta delle banche. Dovremmo cominciare a usare test analoghi anche per la tenuta dei diritti fondamentali. Il mio intento è fornire spunti e proposte che non dovrebbero essere controversi, e che possano consolidare la promessa solenne fatta ai nostri cittadini con l’adozione della Carta quale fondamento normativo dell’Unione e indispensabile complemento dei trattati: la promessa di costruire una comunità fondata sul rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e dei diritti umani.

***

Intervento di chiusura a conclusione del dibattito – Replica del Relatore

Signor Presidente, onorevoli colleghi, vorrei concludere insistendo sulla crisi dell’ultimo decennio. Essa ha accentuato poteri di indirizzo e controllo della Commissione che in molti Stati membri non sono sempre ritenuti legittimi e democratici. Si tratta di restituirle questa legittimità, molto fragile senza un più sistematico riferimento alla Carta.

Il Commissario Malmström ha detto una volta che, nel negoziare il TTIP, l’esecutivo europeo non poteva tener conto delle obiezioni provenienti dalla società civile. Disse: “Non ho ricevuto un mandato dal popolo europeo”. Ovvio che in questo modo le istituzioni UE appaiano lontane, ostili ai movimenti dal basso.

Alla sfida del sovranismo occorre rispondere con una sovranità che sia condivisa, sì, ma fondata sulle esigenze dei vari popoli di veder rispettati i propri diritti sociali e civili. Se non ne teniamo conto, se creiamo a uso elettorale una contrapposizione fra sovranisti ed europeisti, per forza cadremo nel linguaggio non più politico ma teologico in cui è caduto Donald Tusk, secondo cui ci sarebbe uno speciale posto all’inferno per chi in Gran Bretagna negozia male l’uscita dall’Unione. Dimenticheremo che al centro della questione Brexit ci sono i diritti e la legge primaria europea, come spiegato molto bene dalla collega Julie Ward (gruppo S&D), non una specie di giudizio universale realizzato nella storia, e prima del tempo.

***

In data 12 febbraio 2019 il Parlamento europeo ha approvato la Risoluzione sull’attuazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea nel quadro istituzionale dell’UE, Relatore Barbara Spinelli (GUE/NGL).  

La Relazione è stata adottata con 349 voti a favore, 157 voti contrari e 170 astensioni.

A seguito del voto Barbara Spinelli ha dichiarato:

«Con l’adozione di questa Relazione il Parlamento europeo ha formalmente riconosciuto la necessità di attribuire maggiore centralità alla Carta dei diritti fondamentali nel processo politico e decisionale dell’Unione e di permettere ai diritti sociali in essa iscritti di uscire dall’ombra, conferendo loro una legittimazione rafforzata.  Mi rammarico tuttavia del fatto che la maggioranza dei gruppi politici, compreso purtroppo il gruppo socialista, non abbia colto appieno questa opportunità per trasmettere un messaggio ancora più forte e incontrovertibile, e abbia deciso di bocciare la maggior parte degli emendamenti presentati congiuntamente dal mio Gruppo politico e dai Verdi/ALE: emendamenti volti tanto a riaffermare gli obblighi positivi discendenti dalla Carta di promozione attiva dei diritti e dei principi in essa contenuti, quanto a estendere il suo ambito di operatività, a sottolineare con maggiore incisività il ruolo che la Carta dovrebbe avere nella governance economica e nella politica migratoria, così come il ruolo dei diritti umani nella politica commerciale, e a rafforzare gli strumenti intesi a garantirne l’osservanza».

Allegati:

Risoluzione del Parlamento europeo del 12 febbraio 2019 sull’attuazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea nel quadro istituzionale dell’UE (2017/2089(INI))

Emendamenti 003-007

Emendamenti 008-017