Menzogne europee sulle due guerre

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 20 settembre 2025

Mentre la Commissione europea propone il 19° pacchetto di sanzioni contro la Russia, e continua a ripetere gli identici errori commessi in passato – armare ulteriormente l’Est della Nato e Kiev, in modo che Mosca si senta ancor più minacciata e prosegua la brutale offensiva in Ucraina – nulla di paragonabile accade sul fronte medio orientale, dove lo Stato d’Israele sta liquidando i palestinesi a Gaza, ed è pronto ad annettere quasi tutta la Cisgiordania oltre a Gerusalemme Est, occupate dal 1967.

Se si eccettuano Spagna e Irlanda, inflessibili con Netanyahu, alcune sanzioni europee sono suggerite, ma niente blocco dell’invio di armi. E niente esclusione da Horizon: le sovvenzioni a Israele del programma scientifico europeo ammontano a 100 milioni di euro, più 442.750 milioni per l’azienda militare Rafael. Sono contro l’esclusione Italia, Germania, Austria, Repubblica Ceca, Ungheria. Un video promozionale di Rafael mostra il drone Spike FireFly (pagato da noi europei) che colpisce un civile palestinese inerme.

La presidente della Commissione Von der Leyen ha proposto di sospendere parti del trattato commerciale (dazi su alcuni prodotti) e di sanzionare i ministri Smotrich, Ben Gvir e nove “coloni violenti” in Cisgiordania.

Lo aveva già fatto Biden nel febbraio e novembre ’24, sanzionando 33 coloni senza alcun successo. È improbabile che i coloni, Smotrich e Ben Gvir vadano in vacanza in Europa. Anche qui, come nel caso delle sanzioni contro Mosca, si adottano le stesse misure pensando che diano risultati diversi.

I provvedimenti sono proposti a Bruxelles sapendo che Germania, Italia, Ungheria opporranno alcuni veti. Si continua a dire che la Germania si capisce, per via del genocidio di Hitler, ma l’Italia no. In realtà non si capiscono né l’una né l’altra. Non si vede perché i palestinesi debbano morire perché i tedeschi possano espiare in pace. Anche perché Berlino non espia nulla. Promettendo la “difesa militare più forte d’Europa”, e ordinando agli ospedali di aumentare i posti letto per i feriti di una guerra data per prossima, i dirigenti tedeschi mostrano d’aver dimenticato i 27 milioni di morti russi nella guerra di liberazione da Hitler, e di aver dunque smesso di espiare.

Eppure parla chiaro, il rapporto della Commissione indipendente d’inchiesta su Gaza, incaricata dal Consiglio Onu dei diritti umani e presieduta da Navi Pillay, che già guidò nel 1994 il Tribunale internazionale sul genocidio dei Tutsi in Ruanda. Il rapporto è uscito in simultanea con le discussioni europee su Kiev e Mosca, la natura dei crimini israeliani che elenca non è in alcun modo comparabile al conflitto in Ucraina, ma pochi giornali («il manifesto», «Il Fatto Quotidiano») hanno messo in prima pagina l’ennesima constatazione che a Gaza è in corso un genocidio, a partire dall’eccidio del 7 ottobre 2023 commesso da Hamas. Lo stesso silenzio omertoso aveva accolto il 16 giugno il rapporto di Francesca Albanese, relatrice speciale Onu per i diritti umani sui territori occupati. Al massimo, si parlò della sanzione inflitta da Trump alla redattrice del rapporto, pubblicato dalla casa editrice del «Fatto», PaperFirst.

Il rapporto della Commissione Pillay, uscito il 16 settembre, certifica che Israele ha commesso a Gaza 4 dei 5 crimini elencati nella Convenzione Onu sul genocidio: (1) uccisione di membri del “gruppo palestinese” in quanto tale; (2) gravi danneggiamenti fisici o mentali ai membri del gruppo; (3) imposizione al gruppo di condizioni di vita volte deliberatamente a provocarne la distruzione fisica, totale o parziale; (4) imposizione di misure volte a impedire le nascite all’interno del gruppo. Per quanto riguarda l’intenzione e l’incitamento al genocidio, il rapporto accusa il presidente israeliano Isaac Herzog, il premier Benjamin Netanyahu, l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant. La Commissione non ha finito i suoi lavori. Ora si concentrerà sulla Cisgiordania in via di annessione e su Gerusalemme Est occupata.

È consigliabile la lettura completa del Rapporto, perché si potrà constatare un’evidenza. Non è una guerra classica quella scatenata da Netanyahu dopo il 7 ottobre, e non somiglia in nulla a quella in Ucraina. È indecente che i telegiornali comincino ogni trasmissione menzionando i “due fronti bellici”, in Europa e Palestina. A Gaza non ci sono due eserciti contrapposti come in Ucraina. Non è neanche una guerra asimmetrica, tra soldati e guerriglieri. Fin dall’inizio è furia bellica omicida che prende di mira i civili palestinesi, colpevoli di esistere come popolo, e li riduce deliberatamente alla fame e alla sete. Non si spiegano altrimenti le uccisioni di 20.000 bambini secondo Save the Children (dati di maggio; quasi tutti ammazzati con spari in testa e nel cuore, a conferma che bambini, neonati e madri incinte sono bersagli diretti); di circa 30.000 donne (le detenute “hanno subito violenze sessuali e stupri”); degli anziani incapaci di obbedire ai ripetuti ordini di evacuazione. Dal 7 ottobre al 21 luglio, le bombe “hanno colpito 1.844 volte gli ospedali, uccidendo malati e personale medico”. Il diritto d’Israele a difendersi non c’entra nulla.

A comprova che si tratta di uccidere un popolo e la sua discendenza – il suo futuro – vanno citate le pagine sulla distruzione dei reparti maternità in una decina di ospedali. A ciò si aggiunga l’attacco nel dicembre 2023 della clinica di fecondazione in vitro Al-Basma: circa 4.000 embrioni e 1.000 campioni di sperma e ovuli non fecondati sono stati distrutti. “Secondo quanto riportato, il centro serviva da 2.000 a 3.000 pazienti al mese, effettuando 70-100 procedure di fecondazione in vitro al mese. L’assedio di Gaza e la conseguente mancanza di rifornimenti di azoto liquido, utilizzato per mantenere freddi i serbatoi di stoccaggio, hanno rappresentato una sfida considerevole per il funzionamento della clinica e la conservazione del materiale riproduttivo. Il materiale riproduttivo conservato è andato completamente perso quando la banca genetica è stata attaccata. Durante l’attacco, il laboratorio di embriologia è stato colpito direttamente e tutto il materiale riproduttivo conservato nel laboratorio è andato distrutto”. Il rapporto afferma che non esistono informazioni credibili sull’uso della clinica a fini militari, e notifica: è comprovato che le autorità israeliane “sapevano che il centro medico era dedicato alla fertilità […] Intendevano distruggerlo. È il motivo per cui la Commissione ritiene che la distruzione fu un’azione intesa a prevenire le nascite fra i Palestinesi a Gaza”. È uno dei principali capi d’accusa per crimine di genocidio.

Gli Stati europei non sono i soli responsabili di complicità con l’inaudita furia di Israele contro i civili, accanto alle amministrazioni Usa il cui aiuto è decisivo. Il 9 settembre Netanyahu ha bombardato i negoziatori di Hamas a Doha (6 morti), violando la sovranità del Qatar e infliggendo una ferita grave, ma non finale, ai negoziati sulla tregua mediati da Qatar, Egitto e Usa. Il 15 settembre, lo stesso giorno in cui partiva la presa di Gaza City, si è riunito un vertice d’emergenza di leader arabi e musulmani a Doha, ma a parte le condanne non è stata decisa alcuna azione contro l’annientamento dei palestinesi. La conclusione inconfutabile del commentatore Jack Khouri, sul giornale israeliano «Haaretz»: “Il regime militare (israeliano) nella Striscia è cominciato il giorno in cui i leader arabi si sono radunati a Doha. I libri di storia ne prenderanno atto. Così è caduta Gaza City”.

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La Palestina non ha bisogno di parole

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 5 agosto 2025

Ogni tanto i giornali occidentali annunciano nuovi fremiti e ripensamenti nei governi europei, nuove iniziative per fermare Netanyahu a Gaza e in Cisgiordania.

L’ultimo fremito viene chiamato addirittura tsunami: un’ondata di riconoscimenti dello Stato palestinese, apparentemente iniziata da Macron in Francia e Keir Starmer in Gran Bretagna (il 75% dei Paesi Onu ha già da tempo riconosciuto). Singolarmente perfida la mossa britannica: il laburista Starmer riconoscerà lo Stato palestinese “a meno che Israele non consenta a una tregua”. Se Netanyahu consente, niente riconoscimento. Gideon Levy, commentatore di «Haaretz», chiede: “Se riconoscere la Palestina può favorire una soluzione, perché presentarla come una penalità?”.

Il fatto è che il riconoscimento non mette fine a quello che vediamo: i bambini e gli adulti ridotti a scheletri come gli scampati di Auschwitz, la Fondazione Umanitaria di Gaza gestita da contractors americani e militari israeliani, incaricata di uccidere ogni giorno decine di affamati.

Poi c’è l’idea inane di paracadutare cibo e qualche medicina. Ma i medici che lavorano a Gaza testimoniano quel che accade quando stai morendo di fame. Se dai pane alle persone che vediamo smagrite e agonizzanti le ammazzi, nemmeno servono più le flebo di acqua e sale.

Di altro hanno bisogno, spiega la pediatra americana Tanya Haj-Hassan, volontaria a Gaza: di terapie complesse, di speciali macchinari, di siringhe, flebo, di un insieme di medicine che rimettano in moto una parte almeno dei corpi: “Il primo organo che muore è l’intestino, poi cedono i polmoni, poi si fermano cellule del cervello”. Impossibile praticare terapie specialistiche in ospedali semidistrutti, “dove mancano macchinari, elettricità, acqua, praticamente tutto”.

Quanto ai medici, anche chi sopravvive è ridotto alla fame. Come sono affetti da inedia i reporter palestinesi, che ogni giorno i tg dovrebbero ricordare perché lavorano e muoiono al posto dei nostri giornalisti, distaccati in Israele. Fin dal massacro di Sabra e Shatila, nel 1982, i governanti israeliani sanno, perché lo disse Ariel Sharon, che il silenzio stampa è indispensabile. Per questo non è ammessa la stampa estera in Palestina. Per questo Al Jazeera è stata cacciata da Israele e dalla Cisgiordania occupata.

Non si sono sentiti una sola volta i tg italiani, pubblici o privati, ringraziare i colleghi in Palestina, denunciare chi li assassina e affama. Generalmente i filmati su Gaza vengono mostrati come se fossero girati dalle nostre tv. L’agenzia France Presse, il 22 luglio, denuncia le condizioni dei propri reporter palestinesi e racconta quanto scritto su Facebook da uno di loro, Bashar, il 9 luglio: “Non ho più la forza di cooperare con i media, il mio corpo è magro, non posso più lavorare”.

I governanti europei che in queste condizioni s’accingono a riconoscere lo Stato palestinese – non subito: il 9 settembre all’assemblea Onu – si pavoneggiano come eroi, perché Netanyahu li insulta e perché pensano di sfidare Trump, subito dopo essersi collettivamente inginocchiati sulla questione dei dazi. Chissà cos’hanno in testa, oltre alla paglia.

Chissà cosa immaginano di fare, quando promettono di riconoscere una Palestina che sta estinguendosi, e che da tempo non può divenire Stato perché nei territori occupati vivono ormai più di 800.000 coloni, in gran parte armati e decisi a uccidere o cacciare il maggior numero di palestinesi. Ha detto una dirigente dei coloni, Daniella Weiss, sul Canale 13 israeliano: “Apro la mia finestra e non vedo nessuno Stato palestinese”. Scrive ancora Gideon Levy, il 3 agosto: “Riconoscere lo Stato palestinese è un gesto puramente verbale e vuoto. È la falsa alternativa al boicottaggio e alle misure punitive”. Il misfatto degli europei non è il silenzio ma l’inazione.

I capi occidentali ripetono intanto aggettivi idioti: quel che accade è inaccettabile! intollerabile! Se davvero accettare fosse loro impossibile, agirebbero o crollerebbero a terra. In realtà sanno che si tratta di genocidio, perché la Convenzione internazionale è chiara: il crimine è tale se “sono commessi atti con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale”.

Ma neanche questa diatriba ha senso, se resta solo verbale. Ai cittadini e bambini straziati perché la Palestina perda il proprio futuro non importa sapere il nome che diamo alla mattanza. Quel che dicono è: fermate l’assassino, negoziate, venite in massa subito con tutte le vostre marine nazionali per portarci macchinari medici, generatori elettrici, specialisti in carestie e amputazioni, oltre al cibo. E sappiate che anche il mare è vietato da Israele e non c’è modo di alleviare la calura o raccogliere cibi che cadono lì.

Intanto uno dei massimi storici della Shoah, l’ex soldato israeliano Omer Bartov, parla di genocidio (nel novembre ’23 denunciò le “intenzioni genocide” di Israele). Lo stesso termine è adottato da due autorevoli associazioni israeliane, B’Tselem e Medici per i Diritti Umani in Israele, e anche dallo scrittore David Grossman. Tutti costoro fanno proprio il linguaggio della relatrice Onu Francesca Albanese. Ma ecco che sul termine s’aprono dibattiti, e la senatrice Liliana Segre a esempio non è d’accordo. Gelosamente tenuto in serbo per gli ebrei, il termine è perversamente banalizzato e autodistruttivo per Israele (dunque non furono genocidi la liquidazione dei popoli Herero e Nama nell’odierna Namibia, fra il 1904 e il 1908 da parte dei coloni tedeschi; degli armeni durante la Prima guerra mondiale; dei Tutsi in Ruanda; delle minoranze etniche da parte dei Khmer rossi).

Definire il crimine serve a giudicare Israele e i suoi complici, ma se è solo disputa non aiuta. È come quando i giornalisti menzionando un assassinio dicono “ed è subito giallo”, e chi si ricorda più del morto. L’unica cosa che importa, a chi muore di fame, di bombe e di fucilazioni è che l’orrore finisca, che Netanyahu sia forzato a negoziare tramite un ultimatum ravvicinato. Che cessino, se l’ultimatum è disatteso, le forniture d’armi, le relazioni diplomatiche e economiche con Israele. Che venga richiamata all’ordine, pena sanzioni, ogni azienda fornitrice di armi, componenti militari, ordigni a duplice uso civile e militare, eccetera, che Francesca Albanese elenca nel suo rapporto per l’Onu del 30 giugno (ora in edicola con il «Fatto»). Nessuno sembra averlo letto per intero, riempiendo di soddisfazione le aziende citate.

Naturalmente è Washington che conta di più, ma almeno l’Europa potrà dire di aver fatto qualcosa, se non si limita a riconoscere lo Stato palestinese e soccorre davvero. Forse un giorno sarà in grado di ammettere che poteva agire fin da quando l’ex ministro della difesa Yoav Gallant promise, due giorni dopo l’eccidio del 7 ottobre ’23: “Procederemo all’assedio completo di Gaza: niente elettricità, niente cibo, niente acqua, niente gas. Stiamo combattendo animali e agiamo di conseguenza”. Chi potrà dire ai propri discendenti: “Non sapevamo”?

 

La “diplomafia” di Trump: i dazi

di domenica, Luglio 20, 2025 0 , , , , Permalink

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 20 luglio 2025

Diplomafia: così viene chiamata dal giornale israeliano «Haaretz» l’offensiva globale che Donald Trump ha scatenato sui dazi.

A sorreggere la politica statunitense non ci sono ragionamenti commerciali, né economico-finanziari, e neanche geopolitici, contrariamente a quanto affermano alcuni esperti. La geo-politica presuppone una mente fredda, analitica, mentre quel che quotidianamente va in scena ai vertici degli Stati Uniti è uno spirito di vendetta ben conosciuto e praticato nel mondo dei gangster e dei mafiosi.

Contemporaneamente Trump è sempre più impelagato nelle losche vicende di Jeffrey Epstein, suscitando rancore in un elettorato cui aveva promesso la fine del connubio fra politica, affari, malavita e uso sessuale delle minorenni che lo Stato Profondo custodiva e copriva. Chi conosce la serie The Penguin avrà l’impressione di vedere Gotham City. Non è infranto solo il diritto internazionale e non sono esautorati solo gli organismi delle Nazioni Unite. Trump ostenta ammirazione per i Presidenti protezionisti ed espansionisti dell’Ottocento (William McKinley, James Polk, Andrew Jackson, famosi per la liquidazione dei nativi americani e per le annessioni delle Hawaii, della California, di parte del Messico). Ma essendo figlio del Novecento e delle sue guerre calde e fredde immagina che in quanto padrone della terra tutto gli sia permesso, e interferisce nei procedimenti giudiziari di Stati sovrani – amici e nemici– ergendosi a giudice supremo di un inesistente governo universale.

Gli esempi più clamorosi di questa soverchieria capricciosa e imperiale sono il Brasile e Israele. Nel primo caso si tratta di punire l’esecrato Presidente Lula; nel secondo di proteggere dai giudici Netanyahu, il servo che perversamente s’ingegna a asservire Washington, con l’aiuto inalterabile dei cristiani sionisti e delle lobby israeliane. Altri casi non meno gravi: il castigo tariffario promesso agli Stati che non rispettano le sanzioni contro Mosca e ai Paesi del gruppo Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa).

La ragione economica per cui Trump ha annunciato dazi del 50% contro Rio de Janeiro è introvabile. Da 17 anni il Brasile importa dagli Stati Uniti più di quello che esporta (il surplus americano ammonta a 7,4 miliardi di dollari nel 2024, un aumento del 33% rispetto al 2023). Unico motivo che spiega la ghigliottina del 50% è il procedimento giudiziario contro Jair Bolsonaro, detto anche Jair Messias Bolsonaro e accusato di tentato golpe militare dopo le elezioni del 2022 vinte da Lula. Il modello imitato dall’ex Presidente era l’assalto al Congresso Usa che Trump favorì il 6 gennaio 2021, molto più raffazzonato di quello brasiliano ma inteso, anch’esso, a rovesciare il risultato elettorale. Trump è chiaro, nella lettera sui dazi inviata il 9 luglio al Presidente brasiliano: il processo contro Bolsonaro è “una farsa”, e Lula “sta intraprendendo una caccia alla streghe che deve finire IMMEDIATAMENTE!”. Qualche giorno prima aveva scritto sulla sua piattaforma social che Bolsonaro “non è colpevole di nulla, tranne di aver combattuto per IL POPOLO!”. La risposta di Lula è stata immediata e drastica: “Il Brasile è una nazione sovrana con istituzioni indipendenti e non accetterà alcuna forma di tutela… Non si fa ricattare, e non prenderà mai ordini da un gringo”.

Pur non essendo legato ai dazi, il caso Israele è simile. Da cinque anni Netanyahu è sotto processo per corruzione, frode e violazione della fiducia. Lo sterminio a Gaza, la pulizia etnica in Cisgiordania e le guerre in vari Paesi del Medio Oriente (Libano, Iran, Yemen, e sempre più apertamente Siria) puntano a un Grande Israele dominante nella regione, alla “soluzione finale” della questione palestinese, e simultaneamente a rallentare il processo. Anche in questo caso Trump non ha esitato a violare la sovranità di Israele e dei suoi poteri giudiziari. Sola differenza con il Brasile: Netanyahu non reagisce con l’audacia di Lula ma si felicita per le generose intromissioni del compare alla Casa Bianca, ringraziandolo e candidandolo addirittura al premio Nobel per la pace. Intervenendo sulla piattaforma Truth, Trump ha parlato ancora una volta, come nel caso brasiliano, di “caccia alle streghe” contro il compagno annessionista Netanyahu. Le accuse sono “basate sul nulla”, ha garantito al posto dei giudici, ed è giunto fino a minacciare “la sospensione degli aiuti militari se il processo non sarà annullato” (magari fosse vero). Il culmine della spudoratezza è stato toccato il 16 luglio dall’ambasciatore Usa in Israele Mike Huckabee, che ha visitato Netanyahu durante una sessione del processo a Tel Aviv. Huckabee è un esponente degli evangelicali che appoggiano tutte le guerre e gli stermini israeliani, e anch’egli ha chiesto pubblicamente che il processo sia “annullato”, aggiungendo che le udienze mettono in pericolo i negoziati sugli ostaggi detenuti da Hamas. L’ambasciatore si è presentato davanti alle telecamere, al processo, tenendo in mano un pupazzo di Bugs Bunny vestito da Superman. Trump aveva già sbandierato il pupazzo, a giugno, quando aveva denunciato la “caccia alle streghe” contro il Premier israeliano e aveva spiegato che il suo complice-amico era perseguitato per inezie, come per l’appunto il maxi-pupazzo chiesto dalla moglie Sara al produttore cinematografico statunitense Arnon Milchan: “Il processo contro Netanyahu è una dissennatezza inscenata da procuratori fuori controllo”.

Non per ultimi vanno annoverati i dazi minacciati da Trump come rappresaglia iraconda contro i governi che si azzardano a aggirare le sanzioni che colpiscono la Russia, e contro le iniziative del gruppo Brics specie per quanto concerne la centralità del dollaro: “Ogni Paese che si allineerà con le politiche antiamericane dei Brics sarà colpito da tariffe maggiorate del 10%”, ha tuonato il 6 luglio.

In apparenza questi comportamenti sembrano indicare una supremazia globale degli Stati Uniti, simile a quella pretesa dopo la fine dell’Urss. Ma non è così, e Trump sta in realtà gestendo il disfacimento dell’egemonia statunitense. Disfacimento teatrale, volubile, e mortifero: il padrone è divenuto padrino. Per questo Pechino e la rinata potenza russa non riescono a fidarsi della sua parola. È quello che gli Stati europei, abituati a servire da quasi un secolo, faticano a capire. Si riarmano contro Mosca scimmiottando il predominio militare statunitense durante la Guerra fredda. Nemmeno si sono allarmati o adombrati, quando Trump ha paragonato il bombardamento delle centrali nucleari iraniane alle atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki, e ha ricordato come in ambedue i casi – Iran e Giappone – la guerra si fosse conclusa presto e bene. Solo Tokyo si è irritata. I principali media europei continuano a inveire ossessivamente contro sovranismi e populismi, senza accorgersi che il sovranismo di Lula da Silva è il solo linguaggio decente con cui i popoli indipendenti e gli elettori possono identificarsi e forse conciliarsi.

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L’Europa dei due pesi per Netanyahu e per Putin

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 22 giugno 2025

Gli Stati europei hanno reagito scandalizzati, al vertice del G7 il 15-17 giugno, quando Trump ha accennato a possibili mediazioni russe nel conflitto Israele-Iran, considerata la vicinanza di Putin non solo a Teheran, con cui esiste un accordo di cooperazione (senza clausola di assistenza militare), ma anche a Israele, dove vive una forte minoranza russa: 1,3 milioni, il 15% della popolazione.

Il presidente Usa ha aggiunto, non senza ragione, che se Mosca non fosse stata espulsa dal G8 nel 2014 – quando scoppiò il conflitto civile in Ucraina, seguìto dall’annessione russa della Crimea – le guerre in Ucraina e in Iran potevano forse esser evitate.

Di tutt’altro parere l’Ue. Affinché nulla cambi e in vista di un vertice Nato che benedirà il riarmo europeo avversato solo da Madrid, occorre che le figure del dramma restino ferme come statue: Putin è il criminale, l’Iran è l’aggressore terrorista, Israele è l’eterna “vittima invincibile”. I governi europei sperano probabilmente che Trump non entri in guerra e che Israele “finisca il lavoro”. Ma non si può escludere che accettino, nelle prossime ore o giorni, un attacco mirato degli Stati Uniti sul sito nucleare iraniano di Fordow.

Intanto alcuni media anche italiani cominciano ad ammettere l’evidenza: l’aggressore è Israele, non l’Iran. Per mantenere ferma la linea anti-Putin, tuttavia, l’ammissione s’accompagna al paragone con l’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022. I due conflitti sarebbero di eguale natura. Se si afferma che la guerra israeliana non è stata provocata visto che l’atomica non c’è – questo il ragionamento – allora anche l’operazione di Putin di tre anni fa era unprovoked.

Fermo restando che in ambedue i casi c’è stata violazione delle sovranità altrui, esistono almeno quattro differenze che conviene precisare prima di azzardare paragoni sbrigativi e piuttosto oziosi.

Primissima differenza: Mosca non sta attuando un eccidio di massa, in concomitanza con la guerra in Ucraina, come sta facendo Netanyahu dall’ottobre 2023. Chi si informa sui canali arabi può vedere quel che accade a Gaza: i centri israelo-americani di distribuzione del cibo dove si spara a vista su affamati e assetati (tra 50 e 80 morti al giorno), le città e gli ospedali annientati, i giornalisti palestinesi uccisi. Non viene chiamato genocidio a caso: gli Stati complici che armano Israele dovranno risponderne.

In secondo luogo va ricordato che il conflitto in Ucraina è cominciato come guerra civile nel 2014 (non fu scontro russo-ucraino come scritto su Wikipedia), e ha visto contrapposte le forze governative di Kiev finanziate dall’Occidente e le popolazioni separatiste russe nel Donbass finanziate da Mosca. A partire dal 2015 Kiev violò gli accordi di Minsk-2 (Mosca, Kiev, Berlino, Parigi) che aveva appena sottoscritto e rifiutò di varare la promessa riforma costituzionale sullo statuto speciale che doveva garantire vasta autonomia al Donbass e la non discriminazione della lingua russa, oggi proibita nelle scuole e nell’amministrazione. L’Onu ha calcolato che i morti nella guerra civile 2014-2022 furono 14.200-14.400, in maggioranza ucraini di origine russa.

Nelle elezioni vinte da Zelensky nel 2019, le regioni del Sudest lo votarono con entusiasmo perché prometteva di finire la guerra civile del predecessore Petro Porošenko. Promessa non mantenuta: Zelensky sposò il nazionalismo etnico e vietò ogni negoziato con Mosca. Nel marzo ’22 ha poi bandito gli 11 partiti di opposizione, accusati di essere putiniani anche quando non lo sono: i russi in Ucraina sono 9 milioni, il 30% della popolazione. E i dirigenti della Federazione sono molto sensibili alla questione delle minoranze russe rimaste fuori dai confini quando fu smantellata l’Urss. Il nazionalismo ucraino, irrobustito dalla guerra, è divenuto russofobia, politica e culturale. La russofobia pervade anche parecchi governi Ue: Baltici, Polonia, Gran Bretagna.

Neanche da questo punto di vista sta dunque in piedi il parallelo fra guerra israeliana e russa. È come se si dicesse che in Iran esiste una corposa minoranza, discriminata anche linguisticamente e combattuta in guerre civili interetniche, che Netanyahu si sente in dovere di proteggere in quanto israeliano. La sua “guerra preventiva” somiglia piuttosto a quella occidentale del 2003 contro Saddam Hussein, spronata da Israele sulla base di false informazioni sulle armi di distruzione di massa in Iraq (Parigi e Berlino non parteciparono). Rafael Grossi, capo dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA), ha certificato che l’Iran non sta per dotarsi dell’atomica. Se fosse sul punto di averla, Israele non avrebbe attaccato.

Il terzo elemento che invalida il parallelo Israele-Russia è lo scenario euroatlantico del dopo Guerra fredda, quando la promessa fatta a Gorbačëv di non spostare i confini della Nato fu violata, prima da Clinton poi dai presidenti successivi: la Nato è stata estesa a 16 Paesi, e nel 2008 promise a Ucraina e Georgia l’adesione. Questo nonostante Mosca avesse sciolto il Patto di Varsavia, che fino al 1991 fronteggiava l’Alleanza Atlantica. Il Cremlino digerì male i primi allargamenti, ma Putin fu chiaro su un punto: l’adesione di Ucraina e Georgia, ai propri confini, era una “minaccia esistenziale”.

Nel 1919 l’Ucraina iscrisse l’adesione alla Nato nella sua Costituzione, in piena guerra civile nel Sudest. La dichiarazione d’indipendenza del 1991 aveva sancito la “neutralità permanente” e il “non allineamento” del Paese. Per poter abolire quest’impegno fu destituito nel 2014 il presidente eletto Janukovyc, giudicato filorusso e antieuropeo, tramite un colpo di Stato diretto e finanziato da Washington assieme alle destre estreme e neonaziste che avevano infiltrato la rivolta di Piazza Maidan. Anche in questo caso, il paragone con Israele non regge. Israele non è minacciato esistenzialmente dall’Iran e dallo spostamento ai propri confini di un dispositivo stile Nato: le milizie filo-iraniane come Hamas, Hezbollah e Houthi non possiedono una forza d’urto comparabile. Teheran minaccia la distruzione di Israele, vero. Ma anche l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina si riprometteva tale distruzione, fino a quando Arafat l’eliminò dalla Carta dell’Olp: non sotto minaccia dei cannoni, ma in seguito ai negoziati sulla creazione di uno Stato palestinese nel 1993.

Quarta differenza, riassumibile in poche parole: il ministro della difesa Katz ha dichiarato pubblicamente, giovedì, che “l’Ayatollah Khamenei non può continuare a esistere”. Non si conoscono frasi simili di Putin su Zelensky.

In preda alla cecità, gli occidentali ripetono che l’Ucraina ha diritto di difendersi. Ma si guardano dal concedere lo stesso diritto all’Iran, compreso il diritto al nucleare civile. Le buone intenzioni negoziali manifestate a Ginevra da Parigi, Londra e Berlino sono avvelenate da chi, come il cancelliere tedesco Merz, continua a pensare che Israele stia facendo il “lavoro sporco per tutti noi”. Dicono che i tedeschi espiano una colpa verso gli ebrei. Non si capisce perché i Palestinesi e gli Iraniani debbano pagarne il prezzo.

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Difendi l’aggressore dall’aggredito

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 19 giugno 2025

Fin da quando nell’ottobre 2023 ha scatenato l’offensiva a Gaza – non una guerra ma lo sterminio dei Palestinesi, cui s’aggiungono le espulsioni mortifere in Cisgiordania occupata – Netanyahu ha indicato l’obiettivo desiderato: la “vittoria totale”.

Dal 13 giugno sappiamo che la vittoria totale, come la concepisce il premier in combutta da trent’anni con i neoconservatori Usa, è la sconfitta militare di quella che chiama “la testa della Piovra”: la Repubblica Islamica dell’Iran. Teheran è il fronte decisivo dell’“Asse della Maledizione” (dopo Gaza, Cisgiordania, Hezbollah in Libano e Iraq, Houthi nello Yemen, Siria).

Trascinare Washington nella guerra è la volontà di Netanyahu, che opera grazie ai soldi e ai servizi Usa, ma non può penetrare il sito nucleare di Fordow senza un diretto impegno americano. “I cieli sono sotto il nostro controllo”, ha detto martedì Trump, confermando che l’attacco è sempre più congiunto ed esigendo la resa incondizionata. In Europa il suo più acceso sostenitore è il cancelliere Merz, candidato a rappresentare il paese più armato dell’Ue: “Netanyahu fa il lavoro sporco per tutti noi. Da solo non può farlo se vogliamo eliminare del tutto il nucleare dei mullah”.

Una volta liquidati o espulsi i Palestinesi a Gaza, in Cisgiordania, a Gerusalemme Est, e se otterrà la vittoria sull’Iran che li proteggeva, Netanyahu e i suoi ministri si sentiranno più vicini che mai alla meta agognata dagli avversari di uno Stato palestinese: il progetto coloniale di un Grande Israele, esteso ai territori occupati nel 1967 e svuotati di gran parte del Palestinesi, oltre che a pezzi del Libano e della Siria. Il nuovo spazio di colonizzazione va ben oltre la Palestina governata dall’impero britannico fra il 1920 e il 1948. Gran parte della classe dirigente israeliana è convinta che solo l’espansione territoriale, accompagnata da espulsioni e stragi di Palestinesi, garantirà la sopravvivenza di uno Stato che resterà maggioritariamente ebraico. Il calcolo è suicida ma inebriante per Netanyahu: ora gli israeliani sono in gran parte con lui, anche se spaventati da contrattacchi mai sperimentati. Privi di bunker, i meno protetti sono gli arabi israeliani e i Palestinesi in Cisgiordania.

Quanto alla classe politica di destra e sinistra, ha dimenticato Gaza e sembra precipitata nella cecità. Se l’Iran cade, ragiona il governo, Israele sarà circondato da Stati non avversari, tenuti a bada dal monopolio che Tel Aviv continuerà ad avere sull’atomica (le stime oscillano fra 90 e 400 testate, la cifra è incerta perché Israele non ha mai ammesso il possesso della bomba, né accettato ispezioni internazionali). Il capo dell’intelligence Usa Tulsi Gabbard ha sostenuto a marzo che l’Iran è lontano dal possedere l’atomica (che per ora non vuole). Ma martedì Trump ha precisato che se ne infischia: la bomba di Teheran sta lì lì per produrla, come Netanyahu ripete da 33 anni.

La guerra israeliana contro Teheran è illegale e preventiva – come le guerre occidentali degli ultimi decenni, tutte fallite, produttrici di caos – e persegue due scopi contemporanei: la neutralizzazione di una potenza atomica rivale e il cambio di regime. O per meglio dire il collasso del regime, perché per un cambio occorrono alternative. Il 14 giugno Netanyahu ha chiamato il popolo iraniano a insorgere, sbandierando il motto dell’opposizione “Donna-Vita-Libertà” e bombardando i civili. La guerra contro un Iran atomico è vista come esistenziale perché Teheran vuole la “distruzione d’Israele”. Netanyahu scommette sulla perdita di memoria dei propri concittadini e degli occidentali: anche l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina si proponeva la distruzione di Israele, fino a quando cominciarono i negoziati di pace e Arafat cancellò il proposito dalla Carta dell’Olp.

Di fronte a progetti coloniali e militaristi così evidenti e non necessariamente vincenti, Trump ha tutte le carte in mano e l’Europa in quanto tale non esiste. È sostituita dalla triade composta da Francia, Regno Unito e Germania, i tre firmatari dell’accordo stretto nel 2015 da Obama con Teheran, disdetto nel 2018 da Trump su richiesta israeliana, sciaguratamente riposto in un cassetto da Biden, mai tenuto in vita dagli europei nonostante le promesse. La triade, che lo studioso Jeffrey Sachs chiama Alleanza per la Guerra, è attiva con una politica di riarmo in Ucraina come in Medio Oriente, appoggia l’offensiva di Netanyahu contro l’Iran, e abbandona i sussurri contro le carneficine a Gaza.

Tutti i governi del G7 hanno ripetuto il mantra recitato dopo l’eccidio compiuto da Hamas il 7 ottobre: “Israele ha il diritto di difendersi”. Non li sfiora il senso del tragico: dunque l’aggressore deve difendersi dall’aggredito? È autodifesa l’assenza di misure di prevenzione del genocidio a Gaza, chieste dalla Corte di giustizia internazionale? Ecco Israele, “vittima invincibile” (Amy Kaplan, Our American Israel).

Nel comunicato del G7 non si accenna all’attacco israeliano. L’Iran è descritto come “fonte principale dell’instabilità e del terrorismo regionale”. Su Gaza niente, mentre lo sterminio continua in centri di distribuzione del cibo gestiti da Israele e trasformati in centri di esecuzioni sommarie. Macron è il solo a criticare i “cambi di regime” e a ricordare i fiaschi in Iraq e Libia. Ma giudica del tutto legittima la guerra preventiva: “Il programma nucleare iraniano è una minaccia esistenziale per Israele e l’Europa”.

La distinzione sbilenca fra i due obiettivi (atomica-regime change) è una novità assoluta, perché sancisce il controllo preventivo della proliferazione nucleare tramite la guerra, e non tramite negoziati come quello concluso da Obama. L’India si è dotata dell’atomica nel 1974. La sua sovranità non è stata attaccata militarmente. Così il Pakistan, il Nord Corea. Naturalmente una futura atomica iraniana sarebbe pericolosa: Arabia Saudita e Egitto seguirebbero l’esempio. Ma non sarebbero loro a destabilizzare il Medio Oriente. Il primo destabilizzatore è lo Stato d’Israele, fin dagli anni ’60 quando laburisti come Shimon Peres e Golda Meir puntarono sull’atomica e sull’egemonia regionale. Alle guerre preventive contro il terrorismo si aggiungono le guerre contro la proliferazione. Il non detto delle crisi medio orientali è questo: non ci saranno negoziati seri fino a quando sul tavolo non saranno messe le atomiche israeliane.

Resta l’enigma di Trump a rimorchio di Israele, e peggio ancora dei coloni nei territori occupati. Molti si chiedono come mai il presidente abbandoni l’isolazionismo dell’America First in favore dell’interventismo dei neo-conservatori repubblicani e democratici. In realtà il confine fra le due dottrine è labile e poroso. Le tiene insieme la connivenza, presente in due secoli di storia americana, tra sionismo cristiano e attaccamento messianico a Israele; tra il fondamento coloniale dell’America e il fondamento coloniale della corrente ebraica del sionismo; tra neocon e destre cristiane. Il Destino Manifesto degli Stati Uniti – citato spesso da Trump – fu teorizzato nell’800 dai colonizzatori dell’Ovest, e fonda l’anelito al Grande Israele. L’Iran è uno Stato teocratico, è vero. Lo è in parte anche l’America e di sicuro lo è l’Israele di Netanyahu, dei suoi messianici ministri e dei suoi coloni.

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Ecatombe a Gaza: Ue e Italia complici

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 31 maggio 2025

Grazie ai filmati trasmessi dai giornalisti palestinesi – i soli ammessi nelle zone di morte, più di 200 sono stati ammazzati dal 7 ottobre 2023 – i cittadini europei e statunitensi sono in grado di vedere gli effetti della carneficina di Gaza, e chi conosce un po’ il passato sa anche la natura di quel che vede: un popolo disumanizzato, l’uccisione di bambini, donne e anziani, una carestia pianificata, corpi umani ridotti a scheletri appena capaci di muoversi (i bambini che muoiono di fame non piangono).
Vari organismi Onu denunciano un genocidio: dal luglio 2024 la Corte di giustizia delle Nazioni Unite lo ritiene “plausibile”. Invano ha chiesto a Israele azioni di prevenzione e rimedio. Anche se arriverà una tregua, questi sono i fatti.
In lingua araba lo sterminio porta il nome di Nakba, già avvenuta nel 1947-49, quando 750.000 palestinesi furono cacciati e 15.000 uccisi. In ebraico la distruzione nazista degli ebrei si chiama Shoah, e ha lo stesso significato: catastrofe, annientamento. Le televisioni italiane hanno schiuso gli occhi, da quando la fame a Gaza ha raggiunto l’acme, ma ancora si guardano dal dare un nome finale e terribile all’esecuzione d’un popolo, e a pratiche neo-coloniali riabilitate dall’offensiva delle destre statunitensi ed europee contro il cosiddetto pensiero “woke”. I conduttori Tv schivano stizziti quelle che chiamano inutili dispute terminologiche: perché inutili?

Non solo: riprendendo il linguaggio israeliano continuano a parlare di “guerra”. Ma questa non è guerra, in nessun modo è paragonabile allo scontro militare – simmetrico o asimmetrico che sia – fra russi e ucraini armati dalla Nato, o al conflitto Pakistan-India. È un assassinio di massa senza più rapporto con l’atto terrorista del 7 ottobre (1.200 uccisi, 251 ostaggi). Hamas non schiera eserciti, lancia un certo numero di razzi. È un eccidio che mira ad ammazzare ed eliminare un popolo.
Dicono in Palestina che l’alternativa offerta ai suoi abitanti è chiara: “O te ne vai dai territori o muori”. È il piano Trump – Gaza come resort – definito da Netanyahu “brillante e rivoluzionario” (conferenza stampa del 21 maggio) L’alternativa è falsa: dall’inizio dell’ecatombe coloniale non sono consentite fughe e la prospettiva è una: la morte. La maggioranza dei gazawi vuol restare: d’altronde non può far altro. Così come vogliono restare i palestinesi in Cisgiordania, cacciati dai propri villaggi o uccisi dai coloni seguaci del sionismo messianico e armati da Israele. Aveva ragione lo studioso Lucio Caracciolo quando sin dall’inizio della rappresaglia israeliana disse che essendo chiusi i valichi e in particolare quello verso l’Egitto, la scelta di Netanyahu era chiara: buttare a mare i palestinesi. Per questo si parla di “soluzione finale”, e il termine non è antisemita ma pertinente. David Grossman ha scritto: “Davanti a tanta sofferenza, il fatto che questa crisi sia stata iniziata da Hamas il 7 ottobre è irrilevante”.

Da qualche giorno si parla di un risveglio europeo e addirittura di una presa di coscienza da parte di governi e commentatori che fino a ieri si bendavano gli occhi e sussultavano sprezzanti ogni volta che rappresentanti dell’Onu denunciavano il genocidio, e l’assassinio sistematico di medici, operatori umanitari, giornalisti, maestri, scolari, impiegati dell’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi Unrwa, come se questo significasse qualcosa di diverso da: i palestinesi non devono essere tenuti in vita, sfamati, dissetati, informati, forniti d’un tetto.
D’un tratto i convertiti dell’ultima ora si sentono a posto con la coscienza, si dicono ottimisti, contenti di qualsiasi tregua, come se emettere una o due parole di sorpresa o sdegno significasse qualcosa di pratico e concreto. Come se dire equivalesse a fare, e pronunciare aggettivi come inammissibile, inaccettabile o ingiustificabile significasse qualcosa di più che fumo. Chi si limita a proclamare che una cosa è inaccettabile e non fa nulla l’ha già accettata.
Proprio questo fa gran parte dell’Unione. Sforna aggettivi. È stato annunciato il 20 maggio che l’Ue potrebbe “rivedere” o sospendere il Trattato di associazione con Israele (per violazione dell’articolo sui diritti umani): cosa che prenderà mesi o anni, e comunque richiederà l’unanimità. Nove Stati sono contrari, tra cui Italia e Germania. Intanto i palestinesi muoiono. Sono più coraggiosi i governi che hanno riconosciuto lo Stato di Palestina (tra cui Spagna, Irlanda, Norvegia, forse in futuro Francia), ma questa mossa è ormai inadeguata: il riconoscimento è molto importante ma non vuol dire che nascerà lo Stato, che carestia e disidratazione finiranno, che le forniture militari a Israele cesseranno.

C’è poi l’immane ipocrisia di Germania e Italia, gli Stati più restii a fermare l’annientamento, i due primi fornitori di armi a Israele dopo Washington. Il cancelliere Friedrich Merz è stato elogiato quando ha detto, dopo 600 giorni e più di 54.000 morti, e disvelando la propria abissale insipienza: “Francamente non capisco più l’obiettivo con cui Israele sta procedendo”. Povero Merz, lui che per quattro anni è stato un dirigente tedesco di BlackRock, la compagnia d’investimenti Usa finanziatrice dell’export di armi a Israele (Lockheed Martin, Leonardo, Fincantieri, General Dynamics, ecc.).
Il pallido comprendonio di Merz migliora, ma non al punto d’interrompere gli aiuti militari a Israele. Il ministro degli Esteri Wadephul dice che “valuterà”. Si ripete che i tedeschi hanno complessi di colpa verso Israele, a causa del genocidio nazista. Senso di colpa del tutto assente verso la Russia (che con 27.000 morti ha salvato l’Europa dal nazismo), e contro cui la Germania sta riarmando se stessa, l’Ucraina, la Polonia e l’Europa.
Il governo italiano non ha opinioni diverse: invia tuttora armi a Netanyahu, nello stesso attimo in cui definisce inaccettabile la sua condotta a Gaza. Si è astenuto quando l’Assemblea Onu ha chiesto il cessate il fuoco, nel dicembre 2023. Idem nell’Assemblea Onu sul riconoscimento dello Stato palestinese, nel maggio 2024. È contro la sospensione del Trattato di associazione Ue. I Tg, anche quelli privati, stabiliscono oscene graduatorie: è più audace Tajani che dice “inaccettabile” o Meloni che dice “ingiustificabile”?

Silenzio totale, infine, sulla pianificazione distruttiva che ha prodotto prima la carestia, poi il finto rimedio affidato da Netanyahu e Trump all’agenzia Gaza Humanitarian Foundation (contractor privati ed ex agenti Cia). Finto rimedio non solo perché enormemente insufficiente. Ma per la strategia che la Fondazione persegue: escludere l’Onu, e concentrare il massimo dei rifornimenti a Rafah e nel centro-sud della Striscia. In tal modo gli affamati vengono ammassati a sud, presso il valico con l’Egitto.
L’architetto e militante Eyal Weizmann denuncia l’“architettura dell’occupazione”. I territori diventano così laboratori spaziali per nuove tecniche di attacco, occupazione, controllo e assassinio collettivo: spostare milioni di palestinesi da Nord a Sud “è anche uno spaziocidio”.

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Perché oggi l’atomica è di nuovo possibile

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 26 settembre 2024

Si sente spesso dire, da politici e commentatori, che gli europei non sono quelli d’un tempo: hanno paura della guerra, non sanno più farla. Anche quando combattono per procura, lasciando che siano gli ucraini a morire per i cosiddetti Valori Occidentali, son pronti a vendere le armi ma non la pelle.

Degli Stati Uniti si dicono cose analoghe, anche se Washington ha uno scopo specifico: fingere un’egemonia planetaria peraltro già perduta. All’Europa apatica e invertebrata mancherebbe il coraggio: quello che ti spinge entusiasticamente al fronte e all’economia di guerra per difendere una Causa.

Queste lamentazioni apparentemente vorrebbero risvegliare, smuovere, ma sono in realtà prive di senso. Il motivo per cui la guerra e gli stermini sono visti più volentieri in Tv che guerreggiati in prima persona – ma comunque visti volentieri e caldeggiati – nasce non dalla paura di essere coinvolti e sacrificare soldati, ma da una mancanza spettacolare di paura.

Le guerre del 900 sono ricordate, non senza timori, ma stranamente c’è una guerra che non sembra suscitare autentica e durevole paura nei politici: il conflitto nucleare, scatenato magari dall’uso russo di atomiche tattiche nel teatro di guerra ucraino e seguito non improbabilmente da uno scontro nucleare tra Russia-Occidente. Per quanto riguarda le guerre dello Stato israeliano (Gaza, Libano, Cisgiordania, Siria, Yemen, in prospettiva Iran) quel che viene occultato, più che dimenticato, è il potenziale atomico di cui Israele dispone dagli anni 60: oggi tra 100 e 200 testate.

C’è da domandarsi se questo grande lamento dei politici nasca da una memoria sepolta ad arte di quel che fu il bombardamento del Giappone nel 1945, prima a Hiroshima poi a Nagasaki, nonostante Tokyo fosse già pronta alla resa. A deciderlo fu il presidente Harry Truman. Poi durante la Guerra di Corea (1950-53) l’uso dell’atomica fu nuovamente contemplato dal generale Douglas MacArthur. Il comandante delle truppe nella zona di guerra supplicò Truman di colpire Corea del Nord e Cina con 34 bombe nucleari. Per fortuna fu licenziato.

Già in Corea dunque l’atomica era banalizzata. In Europa si moltiplicavano i movimenti anti-nucleari ma l’esperienza di Hiroshima e Nagasaki finì nel dimenticatoio. Fu certamente un crimine contro l’umanità se non un genocidio, ma molti esperti e politici continuano a dire che la guerra con il suo strascico di morte sarebbe durata per anni, se non fosse stata provvidenzialmente interrotta da “Little Boy” e “Fat Man”, i due nomi scherzosi dati alle ogive. Negli anni successivi il governo giapponese preferì nascondere il fatto che Tokyo prima di agosto era disposta alla resa, e che le atomiche furono sganciate per mandare un segnale all’Unione Sovietica, in vista delle imminenti spartizioni d’Europa.

Uno dei motivi per cui la banalizzazione e gli occultamenti sono stati possibili e accettati dai vincitori del ’45, secondo lo storico di diritto internazionale Richard Falk, è la “sbalorditiva coincidenza”, nel dopoguerra, di due eventi cruciali: la decisione dei vincitori di convocare il tribunale di Norimberga contro i crimini nazisti, l’8 agosto 1945, e i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki due giorni prima e uno dopo, il 6 e 9 agosto dello stesso anno.

Non solo il Tribunale adottò una giustizia dei vincitori, mettendo appropriatamente sotto accusa la Germania di Hitler, ma sorvolando sui crimini di guerra degli alleati (distruzione totale e indiscriminata di Dresda e di molte città tedesche, lucidamente descritta da Winfried Sebald in “Storia naturale della distruzione”). Ancor più gravemente, il Tribunale fu muto sulle atomiche impiegate in Giappone.

Il misfatto dei vincitori occidentali – responsabile Usa in testa – perdura nonostante le ripetute commemorazioni, e le due bombe non ricevono la denominazione che meritano: un delitto condannabile accanto a quelli nazisti. A tutt’oggi gli Stati Uniti non sono chiamati a rendere conto, e come minimo a scusarsi, di quello che fu un inequivocabile crimine contro l’umanità: né militarmente giustificato, né legale, né legittimo. Gli uccisi dalle due esplosioni a Hiroshima e Nagasaki furono 214.000, i feriti 150.000. Negli anni successivi migliaia di sopravvissuti morirono o s’ammalarono di cancro, leucemia e altri effetti delle radiazioni.

Scrive ancora Richard Falk, a proposito dell’impunità di cui godettero, e godono ancora, le amministrazioni Usa: “Non si tratta solo di insensibilità. Si tratta di intorpidimento morale, che predispone gli attori politici – siano essi Stati, imperi o leader – ad abbracciare crimini passati e a commettere futuri crimini” («Counterpunch», 12.8.2022). Rivelatore il titolo del film di Stanley Kubrick, nel 1964: Il dottor Stranamore – Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba. La bomba atomica si abbraccia, si ama. Così si trasforma in impiegabile mezzo di guerra.

La guerra di Israele in Medio Oriente e tra Nato e Russia in Ucraina, più quella che si prospetta con Pechino su Taiwan e sul Mar cinese meridionale, può sfociare in conflagrazione nucleare. Alla luce di questa possibilità, è dissennato svilire e denunciare la paura che pervade parte delle popolazioni. Dopo Hiroshima e Nagasaki, e da quando Israele e altri Stati si sono dotati dell’atomica, la natura della guerra è inevitabilmente cambiata. Anche il pianeta, barcollante com’è, non sopporterebbe simili disastri. Ripetere che in Ucraina l’Occidente “non sa più fare le guerre” è da scriteriati. Washington ne pare più consapevole dell’Unione europea.

Nel 1979 il filosofo Hans Jonas disse, nel libro Il principio responsabilità, che esiste un’euristica della paura, che impone di cercare e conoscere meglio noi stessi grazie alle energie racchiuse nei nostri spaventi, se si ha a cuore il futuro della terra. Esiste la possibilità di correggere politiche e comportamenti, scrisse, se non ci si affida a visioni salvifiche (esportazioni del comunismo, della democrazia) ma a visioni di possibili catastrofi.

Fa parte di questa euristica (ricerca, scoperta), la consapevolezza che le guerre in corso non solo si potevano evitare ma possono essere fermate, e che a questo scopo le parole di condanna non bastano, specie se provenienti dall’Onu e dai suoi veti. Può invece bastare l’interruzione totale dell’invio di armi sia a Israele, sia a un’Ucraina che non può vincere e per salvarsi dovrà trattare subito. La condizione è smettere la complicità dei governi con le industrie di produzione e commercio di armi, interessatissime a proseguire le guerre. Secondo il SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) i primi tre fornitori di armi a Israele sono Usa, Germania e Italia. Quando se ne comincerà a parlare in Italia?

Ecco perché è davvero una controverità continuare a ignorare o insultare le paure dei cittadini, e a immaginare un’Europa bellicosa come nei “bei tempi passati”. È il coraggio della pace che ci vuole, ma unito alla volontà di prender sul serio la paura dell’atomica.

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Regressione europea targata Draghi

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 20 aprile 2024

Già alcuni salutano festosi Mario Draghi, autore di uno dei tanti rapporti che l’esecutivo europeo affida a tecnici esterni, e cadendo subitamente in estasi lo incoronano re, per grazia ricevuta non da Dio o dall’Ue o magari dal popolo, ma dalla grande stampa italiana sempre bramosa di recitare in coro gli stessi copioni.

C’è chi canta fuori dal coro, come l’economista Fabrizio Barca su questo giornale, ma il boato degli osanna ne sommerge la voce. Ha fatto bene Giorgia Meloni a dire quello che dovrebbe essere ovvio: non è questo il momento di nominare il presidente della Commissione o del Consiglio europeo. Le elezioni europee devono ancora cominciare e il popolo elettore non conta niente nelle nomine, ma un pochettino magari sì, se il futuro Parlamento europeo oserà ascoltarlo.

Quanto a Draghi, non dice né sì né no: lui scende dalle stelle, non sa cosa sia il suffragio universale, già una volta disse – quando guidava la Banca centrale europea e in Italia irrompevano in Parlamento i 5 Stelle – che le votazioni vanno e vengono ma non importa, per fortuna c’è il “pilota automatico” che impone quel che s’ha da fare: austerità, privatizzazioni, compressione dei redditi, pareggio dei bilanci iscritto nella Costituzione come in Germania (la Germania già sembra pentita). Era il 2013 e un anno prima Draghi si era detto “pronto a fare qualsiasi cosa per preservare l’euro”. Il whatever it takes fu accolto come salvifico dagli incensatori, specialmente a Berlino. Il prezzo, tristissimo, lo pagò la Grecia che venne tartassata e umiliata. Anni dopo, nel 2018, il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker riconobbe l’errore: “La dignità del popolo greco è stata calpestata” dall’Unione. Sono patemi estranei a chi si affida ai piloti automatici.

Forse per questo ora Draghi preconizza “cambiamenti radicali” e trasformazioni che “attraversino tutta l’economia europea”, e mette sotto accusa le strategie che fin qui hanno frammentato l’Unione, inducendo gli Stati membri a “ridurre i costi salariali l’uno rispetto all’altro”. Fa un po’ specie una denuncia simile (l’Europa ha sbagliato quasi tutto), come se negli ultimi decenni lui fosse vissuto sulla Luna, mentre è stato direttore generale del Tesoro responsabile delle privatizzazioni, managing director in Goldman Sachs, governatore della Banca d’Italia, presidente della Bce, capo del governo italiano. Forse vuol abbassare Ursula von der Leyen, cui potrebbe eventualmente succedere. Ma il discorso tenuto a Bruxelles non è diverso da quello di Von der Leyen. La concorrenza fra le due persone è finta.

Chi legga il discorso dell’ex Presidente del consiglio, a tutto penserà tranne che a un pensatore e protagonista politico. Draghi è un tecnico, impermeabile per via del pilota automatico alle sorprese di un voto nazionale o europeo. Nelle parole che dice e nel rapporto sulla competitività che presenterà a giugno, si mette al servizio di un’Europa-fortezza ineluttabilmente in guerra, e che lo sarà a lungo visto che le parole “pace” e “diplomazia” sono spettacolarmente assenti. Abbonda invece, sino a divenire filo conduttore, la parola “difesa”, che appare ben nove volte.

Prima di credere nel “cambiamento radicale” che Draghi promette, varrebbe la pena capire quel che intende quando suggerisce di competere più efficacemente con Stati Uniti e Cina, indossando gli abiti e le abitudini di un’Europa più compatta, economicamente, industrialmente e tecnologicamente. Se i Paesi rivali sono più forti, dice, è anche perché sono “soggetti a minori oneri normativi e ricevono pesanti sovvenzioni”. L’Europa soffre di troppe norme (immagino parli di clima, welfare, commercio) e le converrà adattarsi.

Passando alla crisi demografica, non è in vista alcun “cambio radicale”, ma l’accettazione condiscendente, passiva, dell’esistente: l’avanzata di una destra al tempo stesso sia neoliberista sia neoconservatrice. Ragion per cui è accettata per buona un’Europa che diventi fortezza non solo armandosi, ma anche chiudendosi a migranti e rifugiati. Draghi volonterosamente prende atto senza batter ciglio che la fortezza è ormai una realtà: “Con l’invecchiamento della società e un atteggiamento meno favorevole nei confronti dell’immigrazione, dovremo trovare queste competenze (lavoratori qualificati mancanti) al nostro interno”.

Dicono gli osannanti che Draghi è il glorioso erede dei padri fondatori dell’Europa, e infatti l’ex presidente del Consiglio promette una “ridefinizione dell’Unione europea non meno ambiziosa di quella operata dai Padri Fondatori”. Ma il suo non è un ritorno all’Europa della pianificazione industriale e dello Stato sociale, tanto è vero che l’Europa da “trasformare” viene da lui definita come “nuovo partenariato tra gli Stati membri” o come “sottoinsieme di Stati membri”, da cui sono esclusi coloro che non ci stanno: una Coalizione di Volonterosi insomma, formula usata nelle tante guerre di esportazione della democrazia.

Dopo la scomparsa della Comunità, scompare anche il termine che l’aveva sostituita: Unione. Un partenariato siffatto, una Difesa Comune senza politica estera europea e senza Stato europeo, è di fatto – e inevitabilmente – al servizio della Nato e della potenza politica Usa che la guida. L’Europa ai tempi della fondazione era innanzitutto un progetto di pace. Fingere di tornare a quei tempi è pura prestidigitazione. Si alleano fra loro i tecnici, le élite che mai si misurano alle urne. Sono loro ad aderire al cosiddetto ordine internazionale basato sulle regole (rules-based international order) propagandato da Washington da quando Unione europea e Nato son diventate sinonimi e hanno ufficialmente adottato l’economia di guerra contro la minaccia russa e cinese.

Secondo Draghi, tale ordine globale è stato corroso da forze esterne al campo euro-atlantico. “Credevamo nella parità di condizioni a livello globale e in un ordine internazionale basato sulle regole, aspettandoci che gli altri facessero lo stesso. Ma ora il mondo sta cambiando velocemente, e siamo stati colti di sorpresa”. Neanche un minuto il sorpresissimo Draghi è sfiorato dal sospetto che i primi a violare le regole internazionali, i patti sulla non espansione della Nato, le convenzioni sulla guerra, la tortura, il genocidio, sono stati gli occidentali, a partire dagli anni 90, e con loro lo Stato di Israele. Ci limitiamo agli ultimi casi: l’Amministrazione Usa che giudica “non vincolante” una risoluzione Onu sulla guerra di Gaza che è a tutti gli effetti un vincolo; le violazioni del diritto internazionale nelle ripetute guerre di regime change, la mancata condanna dell’assassinio di alti dirigenti militari iraniani nell’annesso consolare dell’ambasciata di Teheran in Siria, cioè in territorio iraniano (attentato terroristico a cui Teheran ha reagito con l’invio di droni e missili).

Da bravo tecnico, Draghi ignora volutamente queste quisquilie e resta convinto che le regole – non quelle Usa, ma le uniche globalmente legittime: quelle dell’Onu – non siamo mai stati noi a infrangerle.

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Gaza, chi vuole tabula rasa

di mercoledì, Gennaio 31, 2024 0 , , , , Permalink

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 31 gennaio 2024

Prima ancora di sapere quel che veramente hanno fatto i dodici impiegati Unrwa, accusati da un rapporto dei servizi segreti israeliani di aver partecipato ai pogrom del 7 ottobre, Washington e una serie di governi europei – Italia in testa, seguita da Germania, Francia, Olanda, Finlandia – hanno deciso di sospendere ogni aiuto all’Agenzia Onu che dal 1950 assiste i rifugiati palestinesi.

Lungo gli anni l’Unrwa ha fornito ai profughi cibo, scuole, ospedali. Oggi allevia con mezzi esigui le sofferenze e la fame dei civili, costretti dai bombardamenti a lasciare il Nord, bersagliati coscientemente anche quando arrivano a Sud. In sostanza, Washington e i principali Stati europei azzerano gli aiuti ai civili nel preciso istante in cui chiedono ipocritamente a Netanyahu di risparmiarli.

Punire l’Agenzia Onu è del tutto demenziale e pretestuoso. Anche qualora fosse vero che i dodici hanno fiancheggiato azioni di Hamas, è sciagurato colpire l’intera struttura Onu, conoscendo gli ulteriori immensi danni che i palestinesi subiranno anche se sarà raggiunto un accordo di tregua: metà popolazione di Gaza in fuga, 27.000 uccisi di cui 10.000 bambini, 65.000 feriti. Più di 1.000 bambini hanno subìto amputazioni senza anestesia. Non una deportazione in massa di palestinesi ma una decimazione, visto che per deportarli bisognerebbe aprire il valico di Rafah, bloccato invece dall’Egitto su spinta israeliana. Nello stesso momento in cui ha licenziato gli impiegati sospetti (due dei quali morti), il segretario generale dell’Onu Antonio Gutérres ha implorato i Paesi donatori a non interrompere gli aiuti all’Agenzia, proprio mentre la guerra infuria. Il 27 gennaio il ministro degli Esteri israeliano Israel Katz è giunto sino a chiedere le dimissioni di Lazzarini, commissario generale dell’Unrwa.

C’è poi la coincidenza delle date, torbida. I servizi israeliani hanno pubblicato il rapporto sulle devianze Unrwa sabato 27 gennaio, un giorno dopo la sentenza preliminare emessa dalla Corte di giustizia dell’Onu a seguito dei sospetti di genocidio o di intento genocidario formulati dal Sudafrica. Sospetti ritenuti “plausibili” dalla Corte, che invita Israele a presentare entro un mese una documentazione sulle azioni denunciate. Nel mirino ci sono sia la Corte sia l’Unrwa. L’Onu per intera è sotto accusa.

Non è una novità, perché non da oggi l’Onu è intollerabile pietra d’inciampo per i governi d’Israele, e per i neocon statunitensi. Già nel 2018, Trump presidente interruppe i finanziamenti Usa all’Unrwa. Biden revocò la decisione, che ora fa propria. Quanto all’Europa, non esiste come Unione. Solo una parte si è piegata al diktat di Usa e Israele, fidandosi ciecamente dei servizi segreti di una potenza nucleare che sta decimando Gaza e fa di tutto per screditare l’Onu. Vista la facilità con cui l’Occidente abbocca, Israele ha deciso di spararla grossa: il 10 per cento dell’Unwra colluderebbe a Gaza con “gruppi militanti islamici”.

Quasi metà dei contributi all’Unrwa proviene dall’Europa (Germania e Svezia sono i principali contributori, l’Italia è quattordicesima). La Commissione Von der Leyen è in favore della sospensione. Ma alcuni Paesi non ci stanno. Dissentono per il momento i governi di Spagna, Irlanda, Belgio, Danimarca, e fuori dall’Ue Norvegia (quinto contributore subito dopo la Svezia). I quali hanno fatto sapere che dodici eventuali sospetti non rappresentano i 30.000 impiegati dell’Agenzia Onu (di cui 13.000 a Gaza). Diciamoci che è una gran fortuna, per la popolazione palestinese ammazzata o in fuga, che l’Europa si spacchi sulla questione. Basterebbe questa vicenda per temere future votazioni a maggioranza nell’Ue.

Colpire l’Onu screditando due suoi organi come l’Agenzia per i rifugiati palestinesi e la Corte sembra essere parte di una strategia bellica che sempre più punta a estendere il conflitto oltre Gaza: verso Libano, Giordania, Yemen e soprattutto, in extremis, Iran. Non da oggi i neoconservatori Usa spingono in questa direzione, e non hanno mai digerito l’accordo sul nucleare negoziato nel 2015 da Obama. A questo servono i ripetuti attacchi contro gli Houthi, lanciati da Usa e prospettati da una coalizione di europei, per proteggere la navigabilità nel Mar Rosso e intimidire l’Iran. La parola d’ordine Houthi – fine della strage di palestinesi – è considerata inaudita dunque non è ascoltata.

“Corriamo senza curarcene nel precipizio dopo aver messo qualcosa davanti a noi per impedirci di vederlo”, così Blaise Pascal, ed è questa la strategia di un Occidente che resta micidiale per le armi che possiede ed è tuttavia sempre più striminzito, frantumato e isolato: in Europa, Medio Oriente, Africa, Asia. Ha già perso la Turchia, l’Ungheria, e ora perde la Spagna di Sánchez e l’Irlanda. A suo tempo perse la Russia. Si è gettato in un conflitto che ha volutamente prolungato in Ucraina, e non sta vincendo. In una guerra contro gli Houthi, che però resistono. E in un appoggio a Netanyahu che replica al terribile 7 ottobre sforando enormemente la legge biblica dell’occhio per occhio.

Inutili sono i Giorni della memoria, se continuiamo a credere che gli scempi in Ucraina sono iniziati nel febbraio 2022, e non nel 2014 nel Donbass. Se facciamo finta che la guerra Usa contro gli Houthi sia cominciata il giorno in cui sono apparsi sui nostri teleschermi, simili a nere figure di un videogioco, mentre invece la guerra che ha seminato morte e fame in Yemen è cominciata nel 2015, quando Obama e la Francia di Hollande e poi Macron fiancheggiarono l’Arabia Saudita illudendosi di mettere in allarme l’Iran. Inutile infine fingersi memori e vigili quando puniamo l’Unrwa e screditiamo l’Onu, senza sapere – o fingendo di non sapere – che se i palestinesi smettono di poter contare sull’Agenzia per proteggere 871.000 rifugiati in Cisgiordania e se nella guerra di Gaza i palestinesi che dipendono dall’Unrwa per nutrirsi sono un milione, sarà Hamas a doverli sfamare, e a dover dispensare fondi e stipendi perché Gaza non sia completamente distrutta.

A quel punto Hamas vedrà ancor più crescere la propria popolarità nella popolazione palestinese che resta. Ma non era proprio questo, fin dall’inizio, lo scopo delle strategie israeliane nelle terre palestinesi, occupate e non? Hamas fu infiammato e rifocillato da Israele, Stati Uniti ed Europa alla vigilia delle elezioni del 2006 a Gaza, come a suo tempo furono sobillati mujaheddin e talebani in Afghanistan, russofobi e neonazisti nel Donbass ucraino negli otto anni di guerra civile che hanno preceduto l’invasione russa.

L’esito lo conosciamo. È il “Destino Manifesto” dell’Impero del Bene: non una gloriosa leadership, ma un’espansione di disastri ancora più letali del suicidio politico dell’ex superpotenza Usa. Un’abitudine alla tabula rasa che sta riducendo a zero, non nei popoli d’Occidente ma nelle sue élite, la benefica paura delle guerre e dell’atomica che nel ’45 diede vita all’Onu, alle sue Agenzie e alla sua Corte di giustizia.

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Ue, Meloni e il favore delle tenebre

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 20 dicembre 2023

Non c’è da stupirsi se Giorgia Meloni si mostri soprattutto intimorita dagli attacchi di Giuseppe Conte, e si nasconda dietro polemiche frivole per dissimulare questo timore.

Il leader del Movimento 5 Stelle è l’unico esponente forte, nell’opposizione, a mettere sotto accusa la politica estera del governo, e a chiedere un cambio di rotta sulle due questioni fondamentali: la guerra in Ucraina e quella d’Israele a Gaza. L’unico a intuire, fin dal governo Draghi, che l’acritica subordinazione agli Usa – e dunque alla Nato – produce disastri per l’Italia e l’Ue, screditando ambedue sul piano strategico, economico e morale.

Di qui la domanda di Conte: che lo Stato italiano si faccia sentire, in Ucraina con iniziative diplomatiche, a Gaza minacciando di sanzionare Israele per l’uccisione e espulsione dei palestinesi – in massa – dalla terra di Gaza. Più di 7.000 bambini sono stati ammazzati dall’esercito israeliano, senza alcun rapporto causale con il pogrom sanguinario del 7 ottobre. Si dice che l’Italia non conta nulla, e in gran parte è vero. Ma conta parecchio come Stato esportatore di armi: è tra i primi nel mondo (3,8% delle vendite globali), e alla testa del ministero della Difesa come nel Pd c’è chi cura questo commercio da anni.

Sostiene Giorgia Meloni che Conte approvò la riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes) senza consultare il Parlamento e “con il favore delle tenebre”. Ha mentito ben sapendo come andarono le cose, e roteare irosamente gli occhi non trasforma le bugie in verità. Vero è invece che il suo governo sta muovendosi con il favore delle tenebre nella guerra medio orientale. Lunedì scorso Lloyd Austin, ministro della Difesa Usa, ha delineato quella che è una prima estensione della guerra di Gaza: una coalizione militare di dieci Stati decisi a fronteggiare l’offensiva crescente di guerrieri Houthi nel Mar Rosso contro navi mercantili che servono anche porti israeliani. L’Italia è indicata fra i paesi europei della coalizione, con Francia, Regno Unito, Spagna, Olanda, Norvegia. Di questo non si fa parola, né in dichiarazioni né in Parlamento. Forse manderemo soldati, forse solo armi. Comunque si procede senza spiegare alcunché.

Quanto all’Ucraina, le parole di Palazzo Chigi sfiorano l’oscenità. L’Italia “prova stanchezza” per il protrarsi della guerra e il fallimento della controffensiva ucraina di giugno (telefonata di Meloni con i due comici russi scambiati per dirigenti africani), e non è certo l’unico Stato europeo a dirsi spossato. Niente da eccepire, a prima vista: la “via d’uscita” auspicata da Meloni nella telefonata è urgente e necessaria, se si è consapevoli che via d’uscita significa, oggi, concessioni territoriali a Mosca.

Ma Meloni non completa il ragionamento accennando all’inevitabile compromesso Kiev-Mosca: esponendo prima dell’ultimo Consiglio europeo quel che intendeva nella telefonata rubata, si è permessa una frase grottesca e senza senso: “stanchezza […] non vuol dire non credere nella vittoria dell’Ucraina. Noi ci abbiamo creduto dall’inizio e continuiamo a crederci”.

Fin qui le insensatezze, le incoerenze, la paura di mettere in questione l’allineamento atlantico dell’attuale governo e di quello precedente. Se aggiungiamo l’aggettivo “osceno”, è perché sentirsi “stanchi” di fronte al cumulo di morti ucraini che continua a crescere e crescere senza che i notiziari Tv dicano più nulla (solo su YouTube si vedono brandelli della battaglia: uomini che si rotolano già semi morti nel fango che sta ghiacciandosi) vuol dire nascondere il fatto che è stato l’Occidente collettivo, su ordine statunitense e britannico, a volere il protrarsi di un conflitto che poteva finire poche settimane dopo l’invasione russa, quando Washington e Boris Johnson in persona proibirono a Zelensky di smettere la guerra e gli ordinarono di cestinare l’accordo sulla neutralità militare ucraina, approvato da Kiev e Mosca fra il marzo e l’aprile del 2022.

Stanchi di cosa, allora? Ecco governanti europei che contemplano tutto quel sangue e quel fango che loro stessi hanno voluto si perpetuasse e che lo vogliono ancora. Ecco il Presidente del Consiglio Meloni (ma anche il Presidente Usa, e quasi tutti i capi di Stato e di governo dell’Ue) che sragiona e agisce come Lady Macbeth, complice e aizzatrice del marito che opera alla Casa Bianca: “Le mie mani sono del tuo stesso colore, ma mi vergogno di avere un cuore così bianco”. Il cuore così bianco e tuttavia insanguinato è quello degli Europei e dell’Italia. Stanchezza vuol dire noia, sazietà. Questa è l’oscenità, davanti a tanti morti. Avviene anch’essa col favore delle tenebre.

Altra indecenza: quel che succede a Gaza. Gli europei possono poco, perché solo Washington possiede strumenti di pressione efficaci perché cessino gli eccidi e lo svuotamento di Gaza perpetrati da Netanyahu. Ma potrebbero esercitare a loro volta pressioni sull’alleato statunitense, perché non si limiti a parlare ma agisca. Biden mette in guardia contro la pulizia etnica non solo a Gaza ma anche in Cisgiordania, per opera dei coloni armati dal governo israeliano. Ma s’indigna a parole. Nei fatti continua a aiutare militarmente Israele, e moltiplica addirittura le forniture di missili e munizioni, secondo l’agenzia Bloomberg.

Gli alleati di Israele esprimono sdegno e sbandierano parole d’ordine ormai desuete (“Due popoli in due Stati” è inconcepibile, alla luce degli eccidi e delle deportazioni) e pensano che la soluzione consista nello spodestamento di Netanyahu. Sono menzogne, come quelle proferite sull’Ucraina. Con o senza Netanyahu, lo Stato di Israele è incapace per ora di escogitare un accordo con i Palestinesi. E se oggi i due Stati sono dichiarati a Tel Aviv impossibili, resta in piedi solo l’opzione Grande Israele, cioè l’annessione più o meno esplicita di Cisgiordania e Gaza. A quel punto i numeri di ebrei e palestinesi si pareggeranno (7,3 milioni gli ebrei; 7,3 i palestinesi). Israele potrà sopravvivere come Stato ebraico solo con l’apartheid. Disfarsi di Netanyahu è opportuno ma insufficiente: gran parte della classe dirigente israeliana si è assuefatta alla colonizzazione dei territori e non sa più farne a meno.

Intanto sta accadendo quel che Biden e gli Europei temevano di più: non solo le sistematiche violenze in Cisgiordania, e il definitivo seppellimento dell’Autorità palestinese operato dai coloni (in accordo con le volontà di Hamas), ma l’estensione graduale del conflitto, in Libano e oltre. Gli Houthi che vengono dallo Yemen e l’inattesa forza che possiedono (missili balistici lanciati contro le navi mercantili nel Mar Rosso) sono stati sottovalutati per settimane, e ora nasce l’idea di una coalizione per fronteggiarli. La coalizione in realtà esiste già (la Combined Maritime Force, a difesa del cosiddetto ”ordine internazionale basato sulle regole” che gli Usa tentano invano di imporre), ma nuove coalizioni armate vedono la luce: col consenso degli Europei e dell’Italia, e ancora una volta col favore delle tenebre.

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