L’Ue vuole la tregua ma non la pace

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 23 ottobre 2025

Se si vuol capire almeno un poco come gli Stati e le istituzioni d’Europa siano arrivati dopo anni di guerra in Ucraina a questo punto – un’incapacità totale di far politica; una ripugnanza diffusa verso chiunque imbocchi la via diplomatica; un’incaponita postura bellica che sfalda già ora lo Stato sociale; un senso storico completamente smarrito – occorre esaminare due eventi rivelatori delle ultime settimane.

Il primo ha per protagonista Trump, che dopo aver discusso al telefono con Putin il 16 ottobre, ha bocciato l’idea di mandare in Ucraina i micidiali missili Tomahawk, che possono colpire la Russia fino agli Urali, sono in grado di trasportare testate nucleari, e vanno manovrati solo con l’assistenza del Paese egemone nella Nato. Arrivato alla Casa Bianca per ottenere i missili, il 17 ottobre, Zelensky s’è sentito dire, anzi urlare: “Se Putin vuole, ti distrugge”. Trump ha escluso ogni escalation, in vista dell’imminente suo incontro con Putin. Ma Zelensky si è inalberato e ha chiesto aiuto agli Stati europei detti “volonterosi”. I quali sono accorsi e hanno subito silurato il vertice Trump-Putin, per ora rinviato. Obiettivo dei Volenterosi è un cessate il fuoco lungo la linea del fronte, e solo in seguito una trattativa sul futuro ucraino e sulle garanzie di sicurezza per Kiev.

Fin dal vertice con Trump in Alaska, tuttavia, Putin chiede che prima del cessate il fuoco si accettino le garanzie di sicurezza russe oltre che ucraine e cioè: neutralità e non adesione di Kiev alla Nato, riduzione degli armamenti sproporzionati in Ucraina, impegno scritto del Patto Atlantico a non espandersi mai più verso l’Est. Mosca lo chiede da decenni, non da oggi.

Non è da escludere che Trump si stufi di tentare accordi con Putin e lasci che Zelensky e Volenterosi europei se la cavino da soli, e siano loro e non gli Stati Uniti ad apparire i perdenti in questa storia (anche se ora Zelensky, terrorizzato dal possibile tracollo delle ultime difese in Donetsk, pare virare verso un tardivo e disperato congelamento del conflitto). Già da tempo il presidente giudica non vincolante per Washington l’articolo 5 del Patto atlantico. Lettura niente affatto scorretta: l’articolo proclama in effetti che se un Paese è attaccato tutti lo sosterranno, ma precisa che ogni Stato, “individualmente e di concerto con le altre parti, intraprenderà l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’uso della forza armata”.

Sia Zelensky che i Volonterosi Ue hanno inoltre mal digerito il fatto che il vertice Trump-Putin sarebbe avvenuto in Ungheria, lo Stato che nell’Unione e nei principali giornali occidentali è trattato come un paria, da non toccare nemmeno con la punta delle dita.

Il secondo evento rivelatore, ancora più significativo perché inatteso, sono le parole che Angela Merkel ha pronunciato il 3 ottobre sul mortifero garbuglio ucraino. Anche qui, come nel caso di Trump, colpisce l’interlocutore prescelto dall’ex Cancelliera: il canale youtube Partizàn, ungherese, e l’influente giornalista Márton Gulyás, anch’egli ungherese. Budapest denuncia da tempo l’assenza di una seria diplomazia europea, critica i pacchetti di sanzioni (è in discussione il diciannovesimo), e si oppone all’uso degli averi russi sequestrati nelle banche occidentali. Si oppongono anche Banca centrale europea e Fondo monetario.

La cosa cruciale che l’ex Cancelliera ha detto, sull’Ucraina, è che la guerra avrebbe potuto essere scongiurata, se l’Europa avesse accettato quello che lei propose nel giugno 2021, otto mesi prima dell’ingresso dell’esercito russo in Ucraina. Si trattava di prender atto del fallimento degli accordi di Minsk (Kiev non ha mai concesso l’autonomia promessa ai russofoni del Donbass, neanche linguistica) e di costruire con Mosca un “nuovo format”: una struttura che permettesse ai governi europei di “parlare direttamente con Putin in nome dell’Unione”, per negoziare la fine della guerra iniziata nel 2014 da Kiev contro i separatisti russofoni e russofili del Donbass. Solo così poteva esser scongiurata l’escalation più temuta: l’entrata in guerra di Mosca, avvenuta nel febbraio 2022, e l’annessione del Donbass e di altre province.

Il meccanismo concepito dalla Cancelliera (e da Macron, non ancora convertito al militarismo) somigliava molto al “telefono rosso” introdotto da Kennedy e Krusciov il 30 agosto 1963, dopo la crisi missilistica di Cuba. Lo scopo era sventare, grazie al filo diretto con Mosca, l’esplosione di un accidentale conflitto atomico. La proposta era ragionevole oltre che promettente, era stata già collaudata da Kennedy e avrebbe probabilmente evitato centinaia di migliaia di morti negli anni successivi. Ma nel Consiglio europeo del giugno 2021 fu respinta come l’avesse proposta il diavolo. Merkel è nota per l’estrema parsimonia verbale, ma nell’intervista è uscita allo scoperto: gli Stati che si opposero al format negoziale russo-europeo “furono soprattutto i tre Baltici e anche la Polonia, timorosa che mancasse all’Europa una politica verso la Russia”, politica che evidentemente Varsavia desiderava, e ancora desidera, meno cooperativa.

A differenza di molti colleghi nell’Unione, Merkel voleva che il meccanismo diplomatico fosse indipendente dalla Nato. Inoltre era convinta che l’assenza di colloqui diretti durante la pandemia Covid aveva danneggiato molto gravemente i rapporti con Mosca.

Merkel racconta infine come continuò a difendere i gasdotti NordStream, nonostante l’opposizione strenua di Zelensky e di Biden. Nel settembre 2022 i gasdotti che rifornivano Germania ed Europa di metano russo a buon prezzo furono distrutti da sabotatori ucraini col consenso di Washington, che può ora venderci gas liquefatto molto più costoso.

Accade così l’impensabile. Gli unici a prender atto che questa guerra poteva essere evitata, che non fu unprovoked ma provocata, che rischia di sfociare in scontro atomico se non finisce presto, sono Orbán il Reprobo, una Cancelliera in pensione, e un presidente Usa tutt’altro che pacifico, visto che medita guerre di regime change in Venezuela proprio mentre scommette su accordi con Mosca. Trump fa pensare al buffone di Kierkegaard che irrompe alla fine dei tempi in un teatro. Il buffone appare da dietro le quinte e urla per avvertire il pubblico che sta per dilagare un incendio: “Tutti pensano che è una farsa, dunque applaudono e ridono a crepapelle. È così, penso, che il mondo perirà”. (Sören Kierkegaard, Aut-Aut).

Uno dei più intelligenti e colti parlamentari europei, Michael von der Schulenburg (gruppo Sahra Wagenknecht, non iscritto) ha spiegato di recente in un saggio che la responsabilità maggiore ricade sulla Germania di Scholz e soprattutto di Merz. Ambedue accampano una memoria acuta delle colpe tedesche, e hanno fatto pagare ai palestinesi la propria espiazione per il genocidio degli ebrei. Ma la memoria svanisce del tutto quando ci si arma fino ai denti contro la Russia (27 milioni di morti per abbattere Hitler). Infatti Berlino sta preparando il Paese a una guerra con Mosca considerata imminente, si doterà dell’“esercito più potente d’Europa” (parola di Merz), e fa dire a Martin Jäger, direttore dei Servizi, che Mosca attaccherà gli europei della Nato “ben prima del 2029”, come ci si illudeva fino a ieri.

Né Merz né gli Stati europei né Zelensky temono di ridicolizzarsi: se di mattina dicono che la Russia ha fallito l’offensiva di primavera ed è prossima al collasso, ragion per cui conviene assestare il colpo finale coi Tomahawk, la sera diranno che Mosca è a tal punto minacciosa, efficace e agguerrita da poter invadere l’Europa intera, Italia compresa.


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La nuova Cina, l’Europa e il deserto dei tartari

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 7 settembre 2025

Nel giro di quattro giorni Xi Jinping ha inaugurato un ordine multipolare non più centrato sul predominio statunitense e occidentale. Assieme a Russia, India, Iran e altri 22 capi di stato o governo riuniti per un vertice dell’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione (Sco) ha dato vita all’Iniziativa di Governance Globale. Obiettivo: la cooperazione pacifica fra Stati e un “futuro condiviso dell’umanità”. Assieme al gruppo Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) gli Stati congiunti dallo “spirito di Shanghai” si proteggono così dalla brama di predominio e sanzioni che anima l’Occidente. Non sono tutti democratici, ma il pianeta non è tutto democratico.

È il primo argine costruito per far fronte ai disastri del dopo Guerra fredda: trentacinque anni contrassegnati da fallimentari guerre occidentali di regime change, dall’estensione della Nato per debilitare la Russia, dalle minacce contro Pechino, dall’erosione dell’Onu cui l’Organizzazione di Shangai e i Brics vogliono restituire peso. La micidiale e illusoria pretesa degli Stati Uniti di dominare da soli il pianeta, iniziata negli anni 90, s’inceppa. La parata del 3 settembre a Pechino è stata organizzata da Xi per mostrare spettacolarmente che anche la Cina celebra la fine della Seconda guerra mondiale, avendo partecipato al conflitto con due parallele resistenze all’invasore giapponese (soldati nazionalisti di Chiang Kai-shek e guerriglieri di Mao). Parlando di “Resistenza Mondiale Antifascista”, il Presidente cinese entra nella nostra storia come attore paritario, chiamato a correggere la sciagurata, caotica gestione del dopo Guerra fredda.

Discusso a Tianjin prima della parata, il multipolarismo è l’ambizione dei Ventisei. L’idea centrale è che un ordine internazionale sarà possibile solo se si rispetta la diversità di culture e civiltà, se tutti gli Stati sono uguali, se il metodo è multilaterale, se la pace è la stella polare. La cooperazione pacifica avverrà nei settori in cui Pechino è all’avanguardia: industrie indipendenti dai combustibili fossili, intelligenza artificiale, tecnologia, infrastrutture (linee ferroviarie, gasdotti, strade, ponti). Il multipolarismo è stato accelerato prima dalle guerre di esportazione della democrazia, poi dalla guerra russa in Ucraina provocata dagli allargamenti a Est della Nato, infine dall’offensiva dei dazi che Trump ha scatenato credendosi re del mondo.

Nel frattempo Stati Uniti ed Europa sono in altre sconclusionate faccende affaccendati. Martedì Trump ha affondato con navi di guerra una piccola imbarcazione venezuelana accusata di narcotraffico (impossibile verificare, l’imbarcazione è in fondo al mare con le 11 persone dell’equipaggio). Il Venezuela è un attore del tutto marginale nel narcotraffico internazionale, come spiegato da Pino Arlacchi su questo giornale (30 agosto). Il governo Maduro è sotto attacco per via delle immense riserve petrolifere di cui Trump è avido. Non meno sconclusionate le mosse dei principali Stati europei, dentro e fuori un’Unione definitivamente soppiantata da altri gruppi decisionali: volonterosi e cosiddetto gruppo E-3 (Germania, Gran Bretagna, Germania), tutti lì ad affilare coltelli contro invasioni dei Tartari che non verranno. Gli ospedali francesi si preparano già ad aumentare i posti letto per curare feriti di guerra, rivela il «Canard enchainé». Gli E-3 intendono anche riattivare le sanzioni contro l’Iran, facilitando i nuovi attacchi a Teheran cui aspira Netanyahu.

Uno dei quattro accordi fra Russia e Cina concerne l’energia: ogni anno Gazprom fornirà a Pechino 106 miliardi di metri cubi di gas naturale. Prima dell’invasione dell’Ucraina e del sabotaggio degli oleodotti Nord Stream, Mosca esportava in Europa più di 150 miliardi di metri cubi l’anno. Il centro di gravità economico si sposta verso Cina-India, e l’Europa s’impoverisce comprando gas liquido Usa, ben più costoso. Ma il culmine dell’insipienza europea l’ha raggiunto giovedì scorso Kaja Kallas, rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza, commentando la parata cinese e ostentando un’ignoranza abissale. In una conferenza ha chiesto, con frasi masticate e intercalate da sogghigni beffardi, cosa mai si siano messi in testa Pechino e Mosca, con la “falsa narrativa secondo cui Cina e Russia sarebbero vincitori della Seconda guerra mondiale… è una novità!” (link). Pechino entrò in guerra contro Tokyo nel 1937. A partire dal 1941 partecipò con Usa e Russia alla Resistenza antifascista mondiale (30 milioni di morti cinesi). Kallas evidentemente ignora che Pechino è fra i cinque membri permanenti nel Consiglio di Sicurezza Onu proprio perché vincitore della guerra. Le istituzioni Ue dovrebbero sfiduciarla per maleducazione storica aggravata. Forse Kallas finge l’ignoranza. Ma se non fingesse?

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L’irrealtà europea tra Kiev e Mosca

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 21 agosto 2025

In attesa del vertice trilaterale fra Trump, Putin e Zelensky, o di precedenti incontri bilaterali Mosca-Kiev come preferirebbe Putin, occorrerà distinguere con precisione quel che separa l’apparenza dalla realtà.

L’accordo di cui Trump ha discusso lunedì a Washington – con Zelensky, i capi di Stato o di governo di cinque paesi europei, la Nato, la presidente della Commissione Ue – sembrerebbe chiaro: cessione alla Russia di gran parte dei territori perduti da Kiev (Donbass soprattutto), compresa la Crimea annessa nel 2014 quando Washington organizzò lo spodestamento del presidente Yanukovich, giudicato troppo filo-russo; solide garanzie di sicurezza, con una presenza di soldati francesi e inglesi in quel che resta dell’Ucraina, con eventuale copertura aerea e satellitare Usa; “riarmo forte” dell’Ucraina; fine degli aiuti militari Usa ma acquisto di armi statunitensi destinate a Kiev da parte degli Stati europei, per un totale di ben 100 miliardi di dollari (le spese sociali saranno ancora più tagliate); impegno a difendere l’Ucraina in caso di attacchi, “sul modello articolo 5” della Nato (l’attacco a un Paese è un attacco contro tutti) ma senza adesione alla Nato.

Tema preminente è stato la garanzia di sicurezza per l’Ucraina, com’è naturale. Ma neanche un cenno è stato fatto alle garanzie di sicurezza chieste da Mosca: garanzie non solo militari, ma concernenti i cittadini russi e russofoni, la cui lingua deve tornare a essere lingua ufficiale accanto a quella ucraina, secondo Putin. Mosca chiede anche la riabilitazione della Chiesa ortodossa canonica, illegalmente messa al bando da Zelensky nel 2024.

È su tutti questi punti che occorre distinguere fra apparenze, frasi pompose e realtà. In effetti Putin non sembra essere affatto favorevole allo spiegamento di soldati di paesi Nato e al simil-articolo 5. Lo ha ribadito martedì il ministro degli Esteri Lavrov, che accusa i leader europei di arroganza e di baby talk, “chiacchiere infantili”. In Alaska, Putin ha ammesso che “la sicurezza ucraina deve assolutamente essere garantita” (l’avverbio ‘assolutamente’ scompare nella traduzione inglese del discorso) ma non è andato oltre. Una posizione ufficiale russa sulla questione ancora non esiste. Intanto si parla della Cina come co-garante.

Alla fine dell’incontro di lunedì, Macron è apparso trionfante: l’Ucraina deve avere un esercito forte e gli europei dovranno addestrarlo e assistere Kiev “schierando propri soldati in Ucraina” per opporre alla Russia un “deterrente robusto”. Ma solo Londra si associa. Merz vorrebbe ma non può: Berlino ha già schierato soldati in Lituania, e per i socialdemocratici al governo l’invio di truppe in Ucraina è ancora una linea rossa. Troppo presto Trump ha aggiunto Berlino a Parigi e Londra. La stampa russa sottolinea il rifiuto italiano e cita compiaciuta la domanda di Meloni a Macron, prima dei colloqui a Washington: “Quante truppe occidentali dovrebbero essere schierate, visto che Mosca ha 1,3 milioni di soldati?”.

Gran parte dell’Europa – compreso il governo polacco, molto antirusso – non vuole schierare soldati, tanto più che secondo Macron non si tratterebbe solo di mantenimento della pace (peacekeeping), ma anche di combattere se i russi attaccano. A tutt’oggi, Mosca non accetta la presenza militare di Paesi Nato prospettata da Parigi: 200.000 soldati, aveva detto Zelensky a gennaio, cioè una guerra potenzialmente infinita. Né accetta il cessate il fuoco perché vuole “un accordo che affronti le radici del conflitto”. Nulla deve somigliare, per Putin, all’armistizio lungo il 38º parallelo che concluse la Guerra di Corea nel 1953 ma che ancor oggi non ha prodotto la pace. È uno dei tanti esempi storici che dovrebbero far riflettere gli europei: basti ricordare Cipro, paese membro Ue, che 51 anni dopo il cessate il fuoco resta in parte occupato dalla Turchia, paese membro Nato.

Merz e Macron sono stati gli unici, nell’incontro a Washington, a sostenere che l’accordo di pace è impossibile senza preventivo cessate il fuoco: cosa per l’appunto respinta da Putin e negli ultimi giorni anche da Trump. Significativa la defezione di Starmer, che dopo Anchorage ha subitamente cambiato idea, e capito che il cessate il fuoco rischia di congelare il fronte come in Corea. Questo significa che non esiste unità europea sul cessate il fuoco, nemmeno tra i cosiddetti Volonterosi.

Altra inconsistenza europea: subito dopo il vertice di Alaska, il 16 agosto, i Volonterosi (Italia compresa) avevano dichiarato che “Mosca non può opporre un veto al cammino ucraino verso l’Ue e la Nato”. Due giorni dopo, a Washington hanno completamente dimenticato la pomposa sfida lanciata a Putin e Trump. Di adesione alla Nato non hanno detto più nulla. Si sono genuflessi come sui dazi: ingoiando il 15% imposto da Trump, Ursula von der Leyen promise acquisti di gas naturale americano (il GNL costa il doppio del gas acquistato dalla Russia) e massicci investimenti e acquisti di armi dagli Stati Uniti. La presidente della Commissione Ue è giunta sino a suggerire, pochi mesi fa, di sostituire completamente il GNL russo con quello statunitense.

Per quanto riguarda la Nato, Putin non si accontenterà né di assicurazioni verbali né di protocolli confutabili. Non ha dimenticato come Mosca fu gabbata, quando l’Occidente promise a Gorbačëv, verbalmente e per iscritto, di non estendere la Nato “nemmeno di un pollice”, nel 1990 dopo la riunificazione tedesca. Il Cremlino vorrà una dichiarazione ufficiale della Nato, e se necessario la cancellazione di tutti gli emendamenti introdotti nel 2019 nella Costituzione ucraina, nei quali l’adesione della Nato è un impegno vincolante.

Infine i territori. Gli europei continuano a parlare di integrità territoriale, illudendosi che la Russia restituisca quel che ha annesso nel 2014 pacificamente (Crimea) e nel 2022 in guerra (le province di Donetsk e Lugansk che formano il Donbass. Secondo fonti inglesi potrebbero esserci concessioni su parti di Zaporižžja e Kherson). La situazione è impervia per Kiev, visto che la Costituzione le impedisce di cedere territori. È tecnicamente problematica anche per la Russia, che ha annesso quattro province, oltre alla Crimea, e le ha inserite nella propria Costituzione.

Singolare è l’impressione che si è avuta seguendo la conferenza del presidente Usa con Zelensky, alcuni europei, la Nato rappresentata da Rutte, la Commissione Ue. Trump è apparso questa volta più preparato del solito, più al corrente dei punti salienti della questione da risolvere e anche dei bisogni strategici di Mosca. Non era sempre sicuro di sé, tanto che ha telefonato a Putin nel mezzo dei colloqui.

Invece gli europei sono apparsi sicuri di sé e del tutto impreparati. Non solo perché non rappresentano una potenza globale e perché sono divisi. Ma perché in questa guerra non si sono mai preoccupati di capire qualcosa della Russia avviando colloqui diplomatici con Putin. Hanno solo pensato a insultarlo e sanzionarlo. Quando l’arroganza s’accoppia a ignoranza abissale i danni sono certi, e per forza si diventa vassalli di Washington.

Dal vassallaggio potranno uscire solo se ricominceranno a pensare la sicurezza europea come la Casa Comune che Gorbačëv propose fin dal 1988, prima che cadesse il Muro di Berlino, e di cui torna a parlare Putin quando chiede di “ristabilire un giusto equilibrio di sicurezza in Europa”. Della Casa Comune la Russia dovrà un giorno o l’altro far parte, visto che sarà nostro paese limitrofo per centinaia di generazioni a venire.

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Difendi l’aggressore dall’aggredito

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 19 giugno 2025

Fin da quando nell’ottobre 2023 ha scatenato l’offensiva a Gaza – non una guerra ma lo sterminio dei Palestinesi, cui s’aggiungono le espulsioni mortifere in Cisgiordania occupata – Netanyahu ha indicato l’obiettivo desiderato: la “vittoria totale”.

Dal 13 giugno sappiamo che la vittoria totale, come la concepisce il premier in combutta da trent’anni con i neoconservatori Usa, è la sconfitta militare di quella che chiama “la testa della Piovra”: la Repubblica Islamica dell’Iran. Teheran è il fronte decisivo dell’“Asse della Maledizione” (dopo Gaza, Cisgiordania, Hezbollah in Libano e Iraq, Houthi nello Yemen, Siria).

Trascinare Washington nella guerra è la volontà di Netanyahu, che opera grazie ai soldi e ai servizi Usa, ma non può penetrare il sito nucleare di Fordow senza un diretto impegno americano. “I cieli sono sotto il nostro controllo”, ha detto martedì Trump, confermando che l’attacco è sempre più congiunto ed esigendo la resa incondizionata. In Europa il suo più acceso sostenitore è il cancelliere Merz, candidato a rappresentare il paese più armato dell’Ue: “Netanyahu fa il lavoro sporco per tutti noi. Da solo non può farlo se vogliamo eliminare del tutto il nucleare dei mullah”.

Una volta liquidati o espulsi i Palestinesi a Gaza, in Cisgiordania, a Gerusalemme Est, e se otterrà la vittoria sull’Iran che li proteggeva, Netanyahu e i suoi ministri si sentiranno più vicini che mai alla meta agognata dagli avversari di uno Stato palestinese: il progetto coloniale di un Grande Israele, esteso ai territori occupati nel 1967 e svuotati di gran parte del Palestinesi, oltre che a pezzi del Libano e della Siria. Il nuovo spazio di colonizzazione va ben oltre la Palestina governata dall’impero britannico fra il 1920 e il 1948. Gran parte della classe dirigente israeliana è convinta che solo l’espansione territoriale, accompagnata da espulsioni e stragi di Palestinesi, garantirà la sopravvivenza di uno Stato che resterà maggioritariamente ebraico. Il calcolo è suicida ma inebriante per Netanyahu: ora gli israeliani sono in gran parte con lui, anche se spaventati da contrattacchi mai sperimentati. Privi di bunker, i meno protetti sono gli arabi israeliani e i Palestinesi in Cisgiordania.

Quanto alla classe politica di destra e sinistra, ha dimenticato Gaza e sembra precipitata nella cecità. Se l’Iran cade, ragiona il governo, Israele sarà circondato da Stati non avversari, tenuti a bada dal monopolio che Tel Aviv continuerà ad avere sull’atomica (le stime oscillano fra 90 e 400 testate, la cifra è incerta perché Israele non ha mai ammesso il possesso della bomba, né accettato ispezioni internazionali). Il capo dell’intelligence Usa Tulsi Gabbard ha sostenuto a marzo che l’Iran è lontano dal possedere l’atomica (che per ora non vuole). Ma martedì Trump ha precisato che se ne infischia: la bomba di Teheran sta lì lì per produrla, come Netanyahu ripete da 33 anni.

La guerra israeliana contro Teheran è illegale e preventiva – come le guerre occidentali degli ultimi decenni, tutte fallite, produttrici di caos – e persegue due scopi contemporanei: la neutralizzazione di una potenza atomica rivale e il cambio di regime. O per meglio dire il collasso del regime, perché per un cambio occorrono alternative. Il 14 giugno Netanyahu ha chiamato il popolo iraniano a insorgere, sbandierando il motto dell’opposizione “Donna-Vita-Libertà” e bombardando i civili. La guerra contro un Iran atomico è vista come esistenziale perché Teheran vuole la “distruzione d’Israele”. Netanyahu scommette sulla perdita di memoria dei propri concittadini e degli occidentali: anche l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina si proponeva la distruzione di Israele, fino a quando cominciarono i negoziati di pace e Arafat cancellò il proposito dalla Carta dell’Olp.

Di fronte a progetti coloniali e militaristi così evidenti e non necessariamente vincenti, Trump ha tutte le carte in mano e l’Europa in quanto tale non esiste. È sostituita dalla triade composta da Francia, Regno Unito e Germania, i tre firmatari dell’accordo stretto nel 2015 da Obama con Teheran, disdetto nel 2018 da Trump su richiesta israeliana, sciaguratamente riposto in un cassetto da Biden, mai tenuto in vita dagli europei nonostante le promesse. La triade, che lo studioso Jeffrey Sachs chiama Alleanza per la Guerra, è attiva con una politica di riarmo in Ucraina come in Medio Oriente, appoggia l’offensiva di Netanyahu contro l’Iran, e abbandona i sussurri contro le carneficine a Gaza.

Tutti i governi del G7 hanno ripetuto il mantra recitato dopo l’eccidio compiuto da Hamas il 7 ottobre: “Israele ha il diritto di difendersi”. Non li sfiora il senso del tragico: dunque l’aggressore deve difendersi dall’aggredito? È autodifesa l’assenza di misure di prevenzione del genocidio a Gaza, chieste dalla Corte di giustizia internazionale? Ecco Israele, “vittima invincibile” (Amy Kaplan, Our American Israel).

Nel comunicato del G7 non si accenna all’attacco israeliano. L’Iran è descritto come “fonte principale dell’instabilità e del terrorismo regionale”. Su Gaza niente, mentre lo sterminio continua in centri di distribuzione del cibo gestiti da Israele e trasformati in centri di esecuzioni sommarie. Macron è il solo a criticare i “cambi di regime” e a ricordare i fiaschi in Iraq e Libia. Ma giudica del tutto legittima la guerra preventiva: “Il programma nucleare iraniano è una minaccia esistenziale per Israele e l’Europa”.

La distinzione sbilenca fra i due obiettivi (atomica-regime change) è una novità assoluta, perché sancisce il controllo preventivo della proliferazione nucleare tramite la guerra, e non tramite negoziati come quello concluso da Obama. L’India si è dotata dell’atomica nel 1974. La sua sovranità non è stata attaccata militarmente. Così il Pakistan, il Nord Corea. Naturalmente una futura atomica iraniana sarebbe pericolosa: Arabia Saudita e Egitto seguirebbero l’esempio. Ma non sarebbero loro a destabilizzare il Medio Oriente. Il primo destabilizzatore è lo Stato d’Israele, fin dagli anni ’60 quando laburisti come Shimon Peres e Golda Meir puntarono sull’atomica e sull’egemonia regionale. Alle guerre preventive contro il terrorismo si aggiungono le guerre contro la proliferazione. Il non detto delle crisi medio orientali è questo: non ci saranno negoziati seri fino a quando sul tavolo non saranno messe le atomiche israeliane.

Resta l’enigma di Trump a rimorchio di Israele, e peggio ancora dei coloni nei territori occupati. Molti si chiedono come mai il presidente abbandoni l’isolazionismo dell’America First in favore dell’interventismo dei neo-conservatori repubblicani e democratici. In realtà il confine fra le due dottrine è labile e poroso. Le tiene insieme la connivenza, presente in due secoli di storia americana, tra sionismo cristiano e attaccamento messianico a Israele; tra il fondamento coloniale dell’America e il fondamento coloniale della corrente ebraica del sionismo; tra neocon e destre cristiane. Il Destino Manifesto degli Stati Uniti – citato spesso da Trump – fu teorizzato nell’800 dai colonizzatori dell’Ovest, e fonda l’anelito al Grande Israele. L’Iran è uno Stato teocratico, è vero. Lo è in parte anche l’America e di sicuro lo è l’Israele di Netanyahu, dei suoi messianici ministri e dei suoi coloni.

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La follia bellica Ue e l’arma di Čechov

di mercoledì, Aprile 9, 2025 0 , , , , Permalink

«Il Fatto Quotidiano» ha chiesto a Barbara Spinelli di ampliare il suo intervento alla manifestazione dei 5Stelle contro il riarmo, tenutasi il 5 aprile a Roma. Il testo è stato pubblicato il 9 aprile 2025.

Vorrei parlare del nuovo bellicismo europeo e dei suoi fondamenti: l’ignoranza, la menzogna, l’avidità del complesso militare-industriale. L’ignoranza per prima, abissale e volontaria, di quel che vuole ed è la Russia, di quel che sono gli Stati dell’Est europeo usciti dall’Urss con un pensiero dominante: vendicarsi della Russia.

E se possibile smembrarla, come sostenuto da Kaja Kallas, Alto rappresentante della politica estera dell’Ue, ex premier nota per l’oppressione in Estonia delle minoranze russe.

E ancora: ignoranza della guerra degli ucraini, di come l’hanno persa nonostante fosse stata preparata fin dal 2014, e poi condotta, dai servizi e dai militari Usa. La verità è che Trump sta gestendo la prima grande sconfitta occidentale contro una potenza nucleare (anche la guerra dei dazi è gestione di una sconfitta). L’Occidente intero è alle prese con una disfatta, anche se l’Europa occidentale si benda gli occhi e fa finta di niente.

Certo, all’inizio fu legittima resistenza all’invasore, ma le cose sono cambiate. Si moltiplicano i reportage, anche ucraini, sulle diserzioni dei giovani, su una generazione perduta, sugli arruolamenti forzati: ti acchiappano per strada con un bus e ti sbattono al fronte o ti riempiono di botte (si chiama bussificazione). Nella Resistenza non succedeva. Infine la bugia sull’Ucraina compatta: è invece divisa, col Donbass che parla russo (lingua proibita dal 2019) e anche se non approva Putin resta etnicamente russo.

La guerra in Ucraina, come quella in Georgia del 2008, è un assalto inizialmente difensivo, dovuto a due fattori: l’allargamento provocatorio della Nato fino alle porte della Russia, voluto da Clinton, e la questione irrisolta delle minoranze russe nei Paesi staccatisi dall’Urss (25 milioni, di cui circa 8 in Ucraina).

Chi fustiga la piazza per la pace organizzata sabato a Roma dal Movimento 5 Stelle la chiama in blocco putiniana, o trumpiana, e oppone l’assurdo proverbio: se vuoi la pace prepara la guerra. Intende ben altro: se vuoi la guerra, prepara la guerra. Questa è la verità di tante risoluzioni del Parlamento europeo e del piano di Riarmo della Commissione Von der Leyen.

C’è chi garantisce che riarmarsi fa salire crescita e occupati (parola dell’ex segretario di Stato Blinken, di Draghi nel Rapporto sulla competitività). Noi Europei che ne abbiamo fatte a bizzeffe, di guerre, sappiamo che se dal ’45 abbiamo costruito welfare e diritti sociali è perché abbiamo scelto la pace. L’abbiamo scelta grazie all’ombrello statunitense, dicono. Da quale terribile aggressore ci protegge?

Visto che si parla tanto di Churchill e di Hitler (quanti sosia di Hitler s’è inventato l’Occidente negli ultimi ventiquattro anni!) vorrei ricordare che Churchill, finita l’ultima guerra contro Hitler, nel 1945, voleva ricominciarne subito un’altra, contro l’Unione sovietica. La chiamò Operazione Impensabile. Per fortuna i laburisti vinsero le elezioni e Eisenhower s’oppose alla pazzia. Ma ecco che ricominciamo: Riarmo Europa è un’altra Operazione Impensabile.

Per rassicurarci dicono che non è bellicosità: “è solo deterrenza”. La deterrenza fu Equilibrio del Terrore e parità degli armamenti Est-Ovest. Dobbiamo “pareggiare” seimila testate nucleari russe? Durante l’Equilibrio del Terrore furono avviati negoziati per il disarmo. Oggi no. Né è chiaro se Trump voglia simili negoziati – quando tenta l’accordo con Putin – dato che chiede agli Stati europei di accrescere il riarmo fino al 5% del Pil.

Contrariamente a quanto si afferma nelle piazze Pd (Roma, Bologna), non c’è differenza alcuna fra il riarmo dei singoli Stati e la difesa europea, per il semplice fatto che per una difesa europea ci vorrebbero uno Stato europeo con un esercito europeo. Né l’uno né l’altro esistono. È un’altra grande menzogna. Non solo: il piano Riarmo-Europa è realizzabile in un solo Paese: la Germania. Gli altri Stati sono troppo indebitati. Stramazzerebbero. Se questo è l’obiettivo (la supremazia tedesca sia economica sia militare) il pericolo è vicino. Possiamo immaginare quel che ne pensa la Russia, dopo 27 milioni di morti nella Seconda guerra mondiale.

La marcia della follia smantellerà lo Stato sociale su cui si fondava l’Unione. Solo le spese militari saranno esentate dai vincoli dell’austerità. Non le spese per scuola, sanità, lavoro. Il capo dell’industria militare Leonardo, Roberto Cingolani, afferma senza vergognarsene: “Se ti crolla il tetto della casa, devi ripararlo e magari mangiare meno”. Merz in Germania propone la revisione del sussidio cittadino – il nostro perduto reddito di cittadinanza. Starmer taglia i benefit per i poveri: non si sa perché lo chiamano laburista. Oppure è laburista come Blair, che promosse la Coalizione dei Volenterosi contro l’Iraq. Non so con che faccia tosta quest’indecente denominazione – Coalizione dei Volenterosi – venga resuscitata da Macron e Starmer.

C’è chi ha detto, qualche giorno fa: “L’unico modo per trattare il M5S è cancellarli”. È la Neolingua mediatica e politica: cancelliamo chi chiede la pace, cancelliamo tv e cultura russe così non sappiamo cosa si pensa in un grande Paese europeo accanto a cui vivremo migliaia di anni e con cui potremmo cooperare come nella Conferenza di Helsinki nel 1975.

Ma siccome non siamo qui per cancellare, è uno scrittore russo che vorrei citare, Anton Čechov: “Se in un romanzo compare una pistola, bisogna che spari”. La pistola di Čechov è il riarmo deciso da chi vuole una pace giusta (cioè ancora guerra): non una pace possibile. Il Pd nel Parlamento europeo approva (contro il parere di Elly Schlein) e tanti lamentano l’opposizione divisa. A me pare che su pace e guerra sia difficile il compromesso. È la socialdemocrazia tedesca che ha detto: dobbiamo ridivenire “pronti alla guerra” (kriegstüchtig). Che ha reintrodotto la pistola del romanzo europeo.

I governi europei non hanno fatto nulla per capire le radici della guerra. Per distinguere l’allargamento dell’Unione da quello della Nato. Non hanno mai osato ammettere che la pace in Europa è possibile solo se Ucraina, Georgia, Moldavia sono neutrali come l’Austria nel secondo dopoguerra. Continuano ad armare Israele come Donald Trump (Germania in testa), dicendo che il 7 ottobre riecheggia l’annientamento degli ebrei, ma quel che è venuto dopo a Gaza no, niente a che vedere con lo sterminio.

Alle piazze che favoleggiano di difesa europea andrebbe chiesto: quando mai l’Europa ha lavorato per la pace, tranne negli anni della distensione di Willy Brandt o quando Francia e Germania s’opposero alla guerra in Iraq?

L’Europa di oggi elenca i nemici esistenziali: Russia, Cina, Iran, Corea del Nord. È un po’ tanto, per un continente in declino. È una marcia della follia, simile in tutto e per tutto a quella che precedette la guerra del 1914-’18, che lascerà morire al posto nostro altre migliaia di ucraini con l’idea che chissà, magari stavolta rischiamo la Terza guerra mondiale, ma avremo tenuto a bada Trump.

Il sonno ipnotico della sinistra

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 3 dicembre 2024

Invece di brancolare costantemente nella nebbia, e negare che nel Parlamento europeo si esprimono e votano assieme alle destre di Meloni su questioni cruciali come la nuova Commissione, e anche la pace e la guerra, il Partito democratico ed Elly Schlein potrebbero sospendere almeno per un po’ l’abitudine di proclamare una cosa per farne un’altra e provare a dire quel che pensano dell’Europa e se magari hanno qualche idea su come cambiarla.

Se sono d’accordo oppure no con i piani di pace o di tregua che prevedono la neutralità dell’Ucraina e la cessione di territori russofoni a Mosca. Se sono favorevoli o contrari a iniziative europee autonome nei rapporti con Mosca (gli abboccamenti tentati dall’ungherese Orbán e dal tedesco Scholz sono stati bocciati dagli eurodeputati Pd, non si sa perché).

Deve anche dire, il Pd, se ha capito oppure no che l’ambizione di entrare nell’Unione europea è drasticamente diminuita nei paesi che confinano con la Russia (Georgia e in buona parte Moldavia), e che l’esito di un’elezione non diventa automaticamente illegittimo se la maggioranza degli elettori non vota come vorrebbero l’Ue, la Nato e Washington. L’adesione all’Unione europea suscita ben più sospetti di vent’anni fa, e una parte consistente di elettori georgiani e anche moldavi guardano spaventati il cumulo di morti in Ucraina e sentono che chi entra oggi in Europa aderisce per forza alle strategie belliche della Nato e di Washington. Aderisce alla nuova guerra fredda e alla corsa al riarmo che Usa, Nato e Ue vogliono, incoraggiano e pagano. Non stupisce che nelle risoluzioni dell’Europarlamento compaiano sempre più spesso termini come Comunità euro-atlantica e Ordine internazionale basato sulle regole (le regole sono statunitensi).

Per la verità i Democratici hanno già fornito una risposta a questi interrogativi, anche se regolarmente la dissimulano. Da quando è iniziata l’aggressione di Putin – dopo otto anni di guerra civile nel Donbass russofono e in parte russofilo – i deputati europei hanno votato più di 30 risoluzioni intese a finanziare una guerra inasprita ed estesa alla Russia e sempre il Pd si è allineato, con Letta e Schlein. Si può dunque presumere che la scelta decisiva sia stata fatta: in favore di una guerra sempre meno fredda con Mosca e di un’Unione che finge di integrarsi più efficacemente divenendo avamposto armato della Nato.

Torna perfino in auge Draghi, incensato dagli europarlamentari Pd con lo stesso vuoto entusiasmo esibito da Enrico Letta nelle ultime elezioni politiche. Stavolta l’Agenda Draghi n. 2 prescrive un comune indebitamento europeo come quello ottenuto da Conte dopo il Covid: non per salvare lo Stato sociale, non per far fronte al collasso climatico del pianeta, ma per finanziare l’Europa della Difesa – nuovo gioiello – e prepararsi a guerre ritenute incombenti oltre che ineluttabili.

Sarebbe un passo avanti se il Pd ammettesse queste verità, invece di ingarbugliarsi e assicurare che non cederà mai alle destre meloniane che sono ormai parte della maggioranza europarlamentare. “Nessun cedimento”, assicura Nicola Zingaretti, eurodeputato che il 28 agosto aveva annunciato: “La destra in Europa non conta perché non esiste!”. E Schlein, non meno sconclusionata: “Non cediamo di un millimetro”.

Sembrano le frasi fatte che vengono inculcate durante il sonno nello Splendido Mondo Nuovo di Huxley, con tecniche ipnotiche che fin dall’embrione bloccano ogni sorta di risveglio mentale durante il giorno, e allenano al pensiero positivo in qualunque circostanza. Frasi che non dicono nulla di fattuale, ripetute più volte a pappagallo.

La frase fatta che ricorre con più frequenza è “Siamo Responsabili”, e sempre vuol dire: ci va bene il perenne status quo, e ci comprometteremo sull’essenziale (pace/guerra, economia dell’austerità, ecc.). C’è voluto Conte e la sua denuncia del “grave errore politico” commesso mercoledì scorso dai Democratici (“Votare la Commissione Von der Leyen non è stato un infortunio”) perché i dirigenti Pd si svegliassero un attimo dall’ecolalia e capissero che come minimo dovevano spiegare il voto in favore della Commissione allargata a destra, avendo inveito per settimane contro tale prospettiva.

L’ecolalia è la ripetizione inebetita di frasi pronunciate e imposte da altri, ed è questa l’abitudine contratta dalla sinistra in Italia e in gran parte d’Europa da circa trent’anni. Oggi Schlein ricomincia a parlare di diseguaglianze sociali, di Stato sociale, di battaglie sindacali, di transizione ecologica, ma da Bruxelles gli eurodeputati Pd l’impallinano (tranne gli indipendenti Tarquinio e Strada) e comunque la segretaria non può garantire alcunché visto che con il suo consenso le principali spese andranno a difesa e armi. Si parla di transizione verde, ma come salvare la Terra se le guerre in corso e quelle pronosticate impediscono ogni negoziato e accordo tra i primi paesi inquinatori (Usa, Russia, Cina, India, Ue). E difesa da chi? Dalla Russia? Dalla Cina? Perché? Per sempre?

La sinistra naufraga in realtà da quando crollò il comunismo, e prima ancora da quando, nel 1979 e 1981, fu travolta dalla possente onda neo-liberista e antistatalista di Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Si pensò che il socialismo non sarebbe precipitato assieme al comunismo, dopo l’89, invece è accaduto proprio questo, dato che tante loro idee erano comuni. La sinistra venuta dopo fu una finzione, per non dire una frode. Si presentò come molto “responsabile”, pronta a riarmare l’Europa e a trasformarla in “comunità euro-atlantica”, contro le volontà di gran parte dei cittadini e gli interessi del continente. La lista dei trasformatori è lunga: Blair, Hollande, Macron, Veltroni, Renzi, Gentiloni+Minniti, Letta, e Starmer dopo la decapitazione politica di Jeremy Corbyn, oggi deputato indipendente).

Molti sostengono, specie in Francia, che la sinistra dovrebbe diventare socialdemocratica per essere del tutto accettabile (accettabile da chi?). Ma la socialdemocrazia del dopoguerra è stata ben altro, almeno in Germania. Essere socialdemocratici voleva dire, negli anni 50 e durante la Distensione negli anni 60, costruire una sicurezza europea assieme all’Urss, come propose poi Gorbaciov nell’89. Queste le convinzioni di Willy Brandt ed Egon Bahr, contrari alla guerra fredda e ai riarmi Nato.

La socialdemocrazia di allora considerò “serie”, “da valutare”, le Note di Stalin del marzo 1952, che offrivano la riunificazione delle due Germanie in cambio della neutralità tedesca e della non adesione alla Nato. Oggi si potrebbero cercare soluzioni analoghe per l’Ucraina, tanto più che Putin non è Stalin e la Russia non è l’Urss. Ma a differenza di allora, la vera socialdemocrazia non c’è. Ci sono frammenti di partiti progressisti, che potrebbero aiutare il Pd a svegliarsi dalle sonnolente frasi fatte in cui è immerso. Un po’ di pensiero woke non ci sta male, e per questo forse i neoconservatori hanno in odio tutto quel che dipingono come woke, e è solo “risveglio”.

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Gaza, chi vuole tabula rasa

di mercoledì, Gennaio 31, 2024 0 , , , , Permalink

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 31 gennaio 2024

Prima ancora di sapere quel che veramente hanno fatto i dodici impiegati Unrwa, accusati da un rapporto dei servizi segreti israeliani di aver partecipato ai pogrom del 7 ottobre, Washington e una serie di governi europei – Italia in testa, seguita da Germania, Francia, Olanda, Finlandia – hanno deciso di sospendere ogni aiuto all’Agenzia Onu che dal 1950 assiste i rifugiati palestinesi.

Lungo gli anni l’Unrwa ha fornito ai profughi cibo, scuole, ospedali. Oggi allevia con mezzi esigui le sofferenze e la fame dei civili, costretti dai bombardamenti a lasciare il Nord, bersagliati coscientemente anche quando arrivano a Sud. In sostanza, Washington e i principali Stati europei azzerano gli aiuti ai civili nel preciso istante in cui chiedono ipocritamente a Netanyahu di risparmiarli.

Punire l’Agenzia Onu è del tutto demenziale e pretestuoso. Anche qualora fosse vero che i dodici hanno fiancheggiato azioni di Hamas, è sciagurato colpire l’intera struttura Onu, conoscendo gli ulteriori immensi danni che i palestinesi subiranno anche se sarà raggiunto un accordo di tregua: metà popolazione di Gaza in fuga, 27.000 uccisi di cui 10.000 bambini, 65.000 feriti. Più di 1.000 bambini hanno subìto amputazioni senza anestesia. Non una deportazione in massa di palestinesi ma una decimazione, visto che per deportarli bisognerebbe aprire il valico di Rafah, bloccato invece dall’Egitto su spinta israeliana. Nello stesso momento in cui ha licenziato gli impiegati sospetti (due dei quali morti), il segretario generale dell’Onu Antonio Gutérres ha implorato i Paesi donatori a non interrompere gli aiuti all’Agenzia, proprio mentre la guerra infuria. Il 27 gennaio il ministro degli Esteri israeliano Israel Katz è giunto sino a chiedere le dimissioni di Lazzarini, commissario generale dell’Unrwa.

C’è poi la coincidenza delle date, torbida. I servizi israeliani hanno pubblicato il rapporto sulle devianze Unrwa sabato 27 gennaio, un giorno dopo la sentenza preliminare emessa dalla Corte di giustizia dell’Onu a seguito dei sospetti di genocidio o di intento genocidario formulati dal Sudafrica. Sospetti ritenuti “plausibili” dalla Corte, che invita Israele a presentare entro un mese una documentazione sulle azioni denunciate. Nel mirino ci sono sia la Corte sia l’Unrwa. L’Onu per intera è sotto accusa.

Non è una novità, perché non da oggi l’Onu è intollerabile pietra d’inciampo per i governi d’Israele, e per i neocon statunitensi. Già nel 2018, Trump presidente interruppe i finanziamenti Usa all’Unrwa. Biden revocò la decisione, che ora fa propria. Quanto all’Europa, non esiste come Unione. Solo una parte si è piegata al diktat di Usa e Israele, fidandosi ciecamente dei servizi segreti di una potenza nucleare che sta decimando Gaza e fa di tutto per screditare l’Onu. Vista la facilità con cui l’Occidente abbocca, Israele ha deciso di spararla grossa: il 10 per cento dell’Unwra colluderebbe a Gaza con “gruppi militanti islamici”.

Quasi metà dei contributi all’Unrwa proviene dall’Europa (Germania e Svezia sono i principali contributori, l’Italia è quattordicesima). La Commissione Von der Leyen è in favore della sospensione. Ma alcuni Paesi non ci stanno. Dissentono per il momento i governi di Spagna, Irlanda, Belgio, Danimarca, e fuori dall’Ue Norvegia (quinto contributore subito dopo la Svezia). I quali hanno fatto sapere che dodici eventuali sospetti non rappresentano i 30.000 impiegati dell’Agenzia Onu (di cui 13.000 a Gaza). Diciamoci che è una gran fortuna, per la popolazione palestinese ammazzata o in fuga, che l’Europa si spacchi sulla questione. Basterebbe questa vicenda per temere future votazioni a maggioranza nell’Ue.

Colpire l’Onu screditando due suoi organi come l’Agenzia per i rifugiati palestinesi e la Corte sembra essere parte di una strategia bellica che sempre più punta a estendere il conflitto oltre Gaza: verso Libano, Giordania, Yemen e soprattutto, in extremis, Iran. Non da oggi i neoconservatori Usa spingono in questa direzione, e non hanno mai digerito l’accordo sul nucleare negoziato nel 2015 da Obama. A questo servono i ripetuti attacchi contro gli Houthi, lanciati da Usa e prospettati da una coalizione di europei, per proteggere la navigabilità nel Mar Rosso e intimidire l’Iran. La parola d’ordine Houthi – fine della strage di palestinesi – è considerata inaudita dunque non è ascoltata.

“Corriamo senza curarcene nel precipizio dopo aver messo qualcosa davanti a noi per impedirci di vederlo”, così Blaise Pascal, ed è questa la strategia di un Occidente che resta micidiale per le armi che possiede ed è tuttavia sempre più striminzito, frantumato e isolato: in Europa, Medio Oriente, Africa, Asia. Ha già perso la Turchia, l’Ungheria, e ora perde la Spagna di Sánchez e l’Irlanda. A suo tempo perse la Russia. Si è gettato in un conflitto che ha volutamente prolungato in Ucraina, e non sta vincendo. In una guerra contro gli Houthi, che però resistono. E in un appoggio a Netanyahu che replica al terribile 7 ottobre sforando enormemente la legge biblica dell’occhio per occhio.

Inutili sono i Giorni della memoria, se continuiamo a credere che gli scempi in Ucraina sono iniziati nel febbraio 2022, e non nel 2014 nel Donbass. Se facciamo finta che la guerra Usa contro gli Houthi sia cominciata il giorno in cui sono apparsi sui nostri teleschermi, simili a nere figure di un videogioco, mentre invece la guerra che ha seminato morte e fame in Yemen è cominciata nel 2015, quando Obama e la Francia di Hollande e poi Macron fiancheggiarono l’Arabia Saudita illudendosi di mettere in allarme l’Iran. Inutile infine fingersi memori e vigili quando puniamo l’Unrwa e screditiamo l’Onu, senza sapere – o fingendo di non sapere – che se i palestinesi smettono di poter contare sull’Agenzia per proteggere 871.000 rifugiati in Cisgiordania e se nella guerra di Gaza i palestinesi che dipendono dall’Unrwa per nutrirsi sono un milione, sarà Hamas a doverli sfamare, e a dover dispensare fondi e stipendi perché Gaza non sia completamente distrutta.

A quel punto Hamas vedrà ancor più crescere la propria popolarità nella popolazione palestinese che resta. Ma non era proprio questo, fin dall’inizio, lo scopo delle strategie israeliane nelle terre palestinesi, occupate e non? Hamas fu infiammato e rifocillato da Israele, Stati Uniti ed Europa alla vigilia delle elezioni del 2006 a Gaza, come a suo tempo furono sobillati mujaheddin e talebani in Afghanistan, russofobi e neonazisti nel Donbass ucraino negli otto anni di guerra civile che hanno preceduto l’invasione russa.

L’esito lo conosciamo. È il “Destino Manifesto” dell’Impero del Bene: non una gloriosa leadership, ma un’espansione di disastri ancora più letali del suicidio politico dell’ex superpotenza Usa. Un’abitudine alla tabula rasa che sta riducendo a zero, non nei popoli d’Occidente ma nelle sue élite, la benefica paura delle guerre e dell’atomica che nel ’45 diede vita all’Onu, alle sue Agenzie e alla sua Corte di giustizia.

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L’invenzione di Borrell

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 5 ottobre 2023

Più chiaro e apodittico di così non poteva essere, L’Alto Rappresentante per la Politica estera e di sicurezza europea Josep Borrell: “L’Unione europea resta unita nel suo sostegno all’Ucraina”, si è felicitato il 2 ottobre al Consiglio dei ministri degli Esteri Ue riuniti sfrontatamente a Kiev, aggiungendo il memorabile detto: “Non vedo alcuno Stato membro vacillare”.

La realtà smentisce simili farneticazioni, in particolare dopo la vittoria alle urne dello slovacco Robert Fico, contrario all’invio di armi all’Ucraina e favorevole a tempestive trattative di tregua o di pace.

L’opposizione di Fico si aggiunge a quella dell’ungherese Orbán, e alle titubanze di Stati neutrali come Malta, Irlanda, Austria, che nel marzo 2021 hanno dato il proprio consenso alla creazione di un fondo europeo degli armamenti (detto incongruamente “Strumento di Pace”: European Peace Facility) ma a condizione che i loro contributi non servano all’acquisto e invio di armi letali, vietati dalle rispettive Costituzioni.

Infine sta titubando il governo polacco, il più strenuo difensore – per oltre un anno – di una prolungata guerra per procura in Ucraina. Il 20 settembre il premier Morawiecki ha annunciato: “Abbiamo deciso di sospendere le forniture militari all’Ucraina per concentrarci sull’ammodernamento delle nostre forze armate”. La decisione, se attuata, fa seguito all’embargo sulle importazioni di grano ucraino, deliberato per proteggere gli agricoltori polacchi: “Abbiamo fatto molto per l’Ucraina [circa un milione di profughi accolti in Polonia, ndr] e ci aspettiamo che comprendano i nostri interessi. Siamo consapevoli delle difficoltà di Kiev, ma gli interessi dei nostri agricoltori sono la cosa più importante”, così Morawiecki a Polsat News. Anche le imminenti elezioni in Polonia (15 ottobre) sono la cosa più importante, e il Partito di governo non intende perderle.

Sullo sfondo, poi, si moltiplicano i dubbi della potenza che egemonizza la politica estera degli Stati europei: “Se le forniture americane all’Ucraina continueranno alla velocità attuale, il Pentagono ha sei mesi prima di esaurire le scorte”, ha scritto il Wall Street Journal. Biden ha riconfortato Kiev nonostante i tentennamenti del Congresso. La vita di milioni di soldati ucraini dipende dalla sua campagna elettorale.

Dunque non si sa bene in quale pianeta viva Borrell e che cosa percepisca il suo sguardo perennemente appannato, quando assicura di non vedere “alcuno Stato membro vacillare” sulla guerra. Le ipotesi sono tre. O l’Alto rappresentante ha le traveggole, e quel che vede è un filmato che scambia per realtà. Sulla falsariga del romanzo di Bioy Casares (L’Invenzione di Morel), saremmo al cospetto, nel caso dell’Alto Rappresentante, dell’“Invenzione di Borrell”. Il quale vede quel che s’accampa sul suo schermo ma non in natura, e s’inventa un mondo alternativo in cui tutti sono “buoni”, cioè atlantisti. Grosso modo è quanto scrive Marco Travaglio nell’editoriale di martedì: “I Buoni non sbagliano mai, e se il resto del mondo li odia è perché è cattivo, dunque non esiste”.

Oppure – seconda ipotesi – c’è del metodo nella follia di Borrell. Quel che decidono gli elettori non ha peso, e siccome lo scrutinio universale è un impedimento per le decisioni dei Buoni, meglio ignorarne i verdetti, sganciare i governi (opportunamente ribattezzati governance) dalle preferenze elettorali e fare il possibile perché Fico non trovi una maggioranza. Il fenomeno non è nuovo. Nel 2012 il presidente del Consiglio Mario Monti disse: “Se i governi si facessero vincolare dalle decisioni dei loro Parlamenti, senza mantenere un proprio spazio di manovra, allora una disintegrazione dell’Europa sarebbe più probabile di un’integrazione”. E di recente, durante il Covid: “Bisogna trovare modalità meno democratiche nella somministrazione (sic) dell’informazione. (…) In una situazione di guerra si devono accettare delle limitazioni alle libertà”. Oppure, terza ipotesi, l’Ue si esercita a divenire un’Unione ristretta, propaggine degli Stati Uniti.

Borrell è un socialista neo-con, legato al Gruppo degli eurodeputati socialisti e democratici. Al pari di Borrell, il gruppo è in buona parte fedele alla Terza Via di Tony Blair e mal digerisce i voti popolari, se propensi a smettere gli aiuti militari all’Ucraina e le guerre di regime change. La decisione di espellere Fico, auspicata specialmente dai socialisti francesi e dall’italiana Pina Picierno, è per ora solo rinviata.

Fico non è un modello di democrazia né è socialista, sempre che si sappia cosa sia un socialista oggi. È pronto ad allearsi con l’estrema destra, pur di ottenere una maggioranza. E nel 2018 il suo governo cadde non solo perché accusato di corruzione, ma anche perché il suo partito apparve coinvolto nell’assassinio del giornalista Ján Kuciak e della sua fidanzata Martina Kušnírová, nel febbraio 2018. Kuciak indagava sui legami corruttivi tra pezzi dello Stato, mafie locali e ’ndrangheta. In quei mesi feci parte di una commissione del Parlamento europeo sull’assassinio di Kuciak, e il comportamento del partito di Fico destò parecchi sospetti.

Nessuna di queste vicende tuttavia – né il caso Kuciak, né la vicinanza di Fico all’estrema destra, né le sue ripetute dichiarazioni islamofobe – indussero il gruppo socialista a espellere il partito slovacco, nella penultima legislatura. Non passò neanche la proposta di sospenderlo, avanzata dal capogruppo Gianni Pittella. L’accusa di putinismo è una lettera scarlatta, surclassa ogni infamia. Perché opporsi alla prolungata guerra per procura infrange, nel magnifico e progressivo universo dei socialisti, i “valori europei”. E i valori europei si sa cosa sono: non le leggi europee, non l’ordine Onu, non le Costituzioni nazionali, non la Carta europea dei diritti dell’uomo, non i trattati climatici, ma il cosiddetto comune sentire che Nato e Usa prescrivono, dall’alto e indipendentemente dagli interessi europei, agli Occidentali. Se citiamo i trattati climatici, non per ultimi, è perché nell’Invenzione di Borrell non c’è neanche spazio per i disastri del pianeta. Disastri che solo un accordo fra potenze (Usa, Russia, Cina, Europa, India) potrebbe forse ancora salvare.

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Ucraina, il cinismo dei falchi Nato&Usa

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 23 agosto 2023

In apparenza sembra davvero un’estate di sconfitte, quella subita dai falchi occidentali che pretendono di stabilizzare il pianeta scatenando guerre distruttive a ripetizione o inasprendo guerre iniziate da altri.

Lo constata Seymour Hersh, che in un articolo del 17 agosto parla di Africa oltre che di Ucraina, e conferma quanto vanno dicendo da giorni i servizi Usa: la controffensiva ucraina sta fallendo, e c’è chi nella Nato comincia a prospettare cessioni di territori a Mosca, per metter fine a una guerra che Kiev combatte e prolunga per procura.

Biden ancora non si espone, ma si espongono gli uomini della sua intelligence, che smettono di incensare Zelensky: il «Washington Post» riporta la loro opinione, secondo cui Kiev, non potendo riprendersi la porta d’accesso alla Crimea che è Melitopol, sta mancando la riconquista che si era promessa.

Negli stessi giorni, ricorda Hersh, la Francia di Macron è espulsa quasi completamente dalla sua sfera d’interesse nelle nazioni del Sahel. Dopo aver perso il Mali a seguito del golpe del 2022, dopo aver perso alleati stabili in Ciad, ora perde il Niger, ricco di uranio e crocevia delle migrazioni dal Sahel. Il golpe militare del 26 luglio ha spodestato il presidente Mohamed Bazoum, amico obbediente di Parigi e Washington. Le popolazioni hanno festeggiato la liberazione dal neocolonialismo francese in Africa centro-occidentale.

A ciò si aggiunga che il cosiddetto Sud Globale si riconosce sempre più nel gruppo non allineato dei Brics (Russia, Cina, Brasile, India, Sudafrica: il 40% della popolazione mondiale) riunito da martedì a Johannesburg. Sono circa 23 gli Stati che chiedono di entrare nel gruppo, ritenendolo l’unica alternativa al disordine prodotto dalla bellicosità Usa contro Russia e Cina, e dal dominio globale del dollaro. Aggressività e dominio che sottendono quella che Washington considera la missione sua e della Nato: il rules-based international order. La regola base può essere riassunta così: se gli Stati Uniti vogliono dominare il mondo, come nel 1945 quando abbatterono Hitler e sganciarono l’atomica su Hiroshima e Nagasaki, devono ripetere senza sosta, spalleggiati da Europa e alcuni Paesi asiatici, le guerre “di civiltà” contro il Male Assoluto che da allora incessantemente si reincarna. Male che assume di volta in volta il volto di Milošević, di Saddam Hussein, dei Talebani, di Gheddafi, e oggi di Putin e Xi Jinping.

Sembrerebbe dunque l’estate dello scontento, per i neoconservatori occidentali, se non fosse che questi ultimi già stanno cercando il modo di uscire immacolati dalla prova ucraina, pronti per nuovi disordini e guerre. Come potranno riuscirvi? Come già hanno fatto in Vietnam o Afghanistan: scaricando le colpe sul Paese belligerante a cui è stata affidata la delega di combattere a oltranza, non solo per proteggere le sue terre dall’invasore ma per difendere addirittura la civiltà occidentale fino a piegare la potenza russa. Zelensky si è infilato volontariamente nella micidiale trappola e per questo punta ancora sulla guerra lunga: se non fosse così, Danimarca e Olanda non gli darebbero i caccia F-16 utilizzabili solo nel 2024.

Vale la pena leggere attentamente il «Washington Post» del 17 agosto sulla controffensiva ucraina. Scrivono gli articolisti che se Kiev non vince, è perché non ha seguito le direttive Usa, che prescrivevano un assalto ben più massiccio lungo la linea del fronte minata dai russi a difesa delle zone conquistate a sud-est: “Le simulazioni congiunte di guerra (joint war games) condotte da militari statunitensi, britannici e ucraini avevano anticipato perdite massicce di uomini, e calcolato che Kiev le avrebbe accettate se questo era il prezzo per rompere la linea di difesa russa. Ma l’Ucraina ha voluto limitare i morti nel campo di battaglia, preferendo puntare su unità di combattimento più piccole”. In altre parole: se Kiev perde è perché al momento decisivo non ha avuto l’ardire di far morire in massa i propri soldati.

L’accusa è ripresa il 18 agosto dal «New York Times», che enumera i morti (500.000 uccisi o feriti tra ucraini e russi, secondo l’intelligence) e indica i “difetti” della controffensiva. I funzionari Usa interrogati avrebbero oggi un grande timore: che “l’Ucraina sia diventata casualty averse”, ostile alle perdite di vite umane, e che “per questo stia mostrando prudenza nella controffensiva”. Il giornale non sembra colpito dall’indecenza delle condizioni dettate a Kiev in una guerra dove vinci se non sei casualty averse.

È così che l’Amministrazione Biden e la Nato escono dalle guerre per procura: addossando i fallimenti all’agente belligerante. Senza batter ciglio si apprestano a dar ragione con ritardo a Mark Milley, capo dello Stato Maggiore congiunto, e a quel che disse nello scorso novembre quando suggerì l’avvio di negoziati, visto che “la vittoria ucraina non era ottenibile”. Il ritardo ha comportato e comporta migliaia di morti, ma gli occidentali che aizzano senza combattere ne vorrebbero di più.

Da icona del Bene che è stato per un anno e mezzo, Zelensky potrebbe divenire, d’un tratto, l’uomo che pagherà gli errori e misfatti di chi, nella Nato, ha voluto che questa guerra durasse e s’impelagasse. Di chi ha avversato ogni accordo di tregua o di pace, a cominciare da quello negoziato tra Kiev e Mosca poche settimane dopo l’invasione, e pronto per la firma nell’aprile 2022. L’accordo fu affossato per volontà britannica e statunitense, e prevedeva vantaggi per Kiev non più ottenibili. Da allora Zelensky è incastrato nella strategia Usa e Nato, con un Paese ridotto a moncone senza più industrie vitali. Oggi rischia d’esser scaricato come lo fu Thieu a Saigon, quando Washington si stancò di seminare morte in Vietnam.

Nel frattempo, in solo un anno e mezzo i morti ucraini hanno superato i morti statunitensi in due decenni di guerra in Vietnam (58.000 circa). Il loro numero è simile a quello dei soldati di Kabul morti nella guerra di Afghanistan fra il 2001 e 2021 (circa 69.000). Colpa di Kiev, se rischia di perdere la guerra perché agisce di testa sua e non manda ancora più i soldati a saltar per aria sulle mine. Stati Uniti ed europei possono da un giorno all’altro scrollarsi di dosso i perdenti e senza tema di contraddirsi vantare vittorie inesistenti.

È quello che fa Josep Borrell, responsabile/irresponsabile della politica estera europea, quando dice che una trattativa potrebbe iniziare a settembre, ma proclama al contempo che “in ogni caso chi ha davvero perso è Putin, che voleva una guerra lampo ed è oggi sulla difensiva”. Infatti cos’è la Russia ai suoi occhi? “Nient’altro che un nano economico, un distributore di benzina il cui proprietario ha la bomba atomica” (intervista a «El País», 20 agosto). La guerra di Ucraina non è finita, ma l’ebetudine illimitata del socialista Borrell conferma che l’Europa unita, avendo perso ogni aspirazione all’autonomia e alla sovranità, e dimenticando d’esser nata come artefice di pace, non impara più nulla dai propri fallimenti.

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La guerra di regime change contro la potenza atomica russa

Intervento alla Conferenza “Guerra o pace? Quali scelte politiche per riportare la pace in Europa”, tenutasi venerdì 30 giugno su iniziativa della Vicepresidente del Senato Mariolina Castellone. 

Volevo cominciare con l’insurrezione fallita di Prigožin ma ieri sera ho visto una puntata di Otto e Mezzo che mi ha colpito particolarmente. Il ministro degli esteri ucraino, Dmytro Kuleba, era intervistato da Lilli Gruber, Marco Travaglio e Lucio Caracciolo: un’intervista vera finalmente, non gli osanna a Zelensky dei salotti di Bruno Vespa. Tutti e tre lo hanno incalzato con grande maestria, e Kuleba ha dovuto infine ammetterlo: la resistenza ucraina mira in realtà a smembrare quello che Kiev chiama impero russo.

Le armi che mandiamo servono alla realizzazione di questo piano, demente e rischiosissimo. Il ministro non si cura minimamente dei dubbi espressi da Mark Milley, capo di Stato maggiore degli Stati Uniti, sulla fattibilità di una vittoria ucraina che comunque non è ottenibile – Kuleba pare dimenticarlo – senza assistenza Usa. Si rallegra, sempre il ministro, all’idea che Putin possa essere indebolito dal capo del gruppo Wagner. Finge inesistenti comportamenti democratici con i russofoni del Donbass e con la stampa, accettata nei campi di battaglia solo se embedded, incorporata. Vede questa guerra come una partita di calcio: qui non giochiamo per fare compromessi ma per vincere! Ecco, gli Occidentali stanno sostenendo un governo che ha questi progetti, che non spende neanche una parola sul rischio di guerra atomica. Stanno per inserire nella Nato quest’impasto di risentimento monoetnico e furia distruttiva, come a suo tempo accolsero le primavere arabe per ritrovarsi poi faccia a faccia con l’Isis.

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Non c’è da stupirsi dunque se le reazioni dei commentatori mainstream al tentativo di ammutinamento di Prigožin, nei giornali e nei talkshow, sono state così euforiche, nel diagnosticare l’indebolirsi tanto agognato del potere russo. Come se tutti sapessero quel che realmente succede al Cremlino. Come se tutti sognassero lo stesso sogno distruttore del ministro Kuleba.

Anche se sedata rapidamente, e per ora forse efficacemente, la tentata insurrezione ha mostrato che il pericolo di un collasso del potere russo esiste, a cominciare da quello militare. Che al collasso potrebbe far seguito lo smembramento della nazione. Le armi di distruzione di massa della potenza atomica russa finirebbero in mano a poteri incontrollabili, il cosiddetto Armageddon diverrebbe ancora più vicino di quel che è oggi.

Come spiegato lucidamente da Caracciolo nelle domande a Kuleba, varie nazioni – Cina in testa – si getterebbero sui pezzi sparsi di una Russia che Kuleba s’ostina a definire non Federazione multietnica, ma impero anacronistico e poco moderno nel XXI secolo. Anche la mania di chiamare Zar il Presidente russo suggella la complicità delle élite occidentali con un’Ucraina illegalmente aggredita, ma non per questo meno colpevole di un nazionalismo russofobo sterminato.

Persino quando il pericolo dell’insurrezione di Prigožin  è apparso chiaro, ci sono stati commentatori che con visibile compiacimento, e all’unisono con i commenti di Kiev, hanno concluso che la resistenza ucraina aveva infine ottenuto questo buon risultato: Putin era debole; aveva addirittura i giorni contati. Era valsa dunque la pena assistere Kiev con invii di armi sempre più offensive e sanzioni antirusse sempre più pesanti, visto lo sfaldamento del barbarico impero che ne può discendere. Neanche per un minuto i commentatori hanno abbandonato la cecità di cui hanno dato prova da quando la guerra è de facto cominciata: cioè a partire dal febbraio 2014, quando è apparso evidente che il potere centrale a Kiev non intendeva in alcun modo integrare pacificamente le popolazioni russofone del Donbass (14.000 circa sono i morti della guerra civile fra il febbraio 2014 e il febbraio 2022. L’annessione della Crimea è anch’essa illegale, ma non è ingiustificata).

L’idea granitica dei paladini delle guerre di regime change (tutte peraltro fallite) è che la Russia vada punita per il male inflitto all’Ucraina “senza mai esser stata provocata” e all’unico scopo di espandere l’impero, come recita il refrain ripetuto senza variazioni da un anno e mezzo. Dico punizione della Russia e non del governo russo perché c’è una forte componente russofobica nelle argomentazioni dei neo-conservatori euro-americani.

Di questi commentatori – politici o giornalisti che siano, i giornalisti hanno dimenticato che sono un potere separato – andrebbe detto quel che Raymond Aron disse di Giscard d’Estaing: questi uomini “non sanno che la storia è tragica”. Esemplare da questo punto di vista il direttore di Repubblica, che la sera dell’insurrezione ha constatato il benefico indebolimento dei vertici russi, ottenuto grazie alla resistenza ucraino-atlantica. Nel suo giornale ha poi sottolineato come invadendo l’Ucraina Mosca abbia aggredito “l’architettura di sicurezza creata dall’Occidente dopo la fine della Guerra Fredda”. Non è chiaro cosa sia questa decantata “architettura di sicurezza”. So solo che non è un’architettura, e non ha garantito sicurezza bensì caos e guerre nelle varie zone critiche della terra. Un caos che genera ovunque Stati falliti e fughe in massa di profughi.

Guerre e caos sono attizzati per sancire il primato globale dell’egemone statunitense, che da quando è finita l’Urss insiste nell’ergersi a gran vincitore della guerra fredda. Una postura squilibrata e destabilizzatrice denunciata più volte da Mosca, non solo da Putin ma anche da Gorbachev e Eltsin. L’aspirazione di Bush, Clinton, Obama, Trump, Biden a un ordine mondiale unipolare ha ucciso sul nascere l’idea di una “Casa Europea”, ovvero del sistema di sicurezza che Gorbačëv proponeva a un’Europa di cui Mosca si sentiva giustamente parte.

L’architettura di sicurezza rimpianta da Molinari ha rimpiazzato la Casa Europea e sancito il predominio di Washington su un continente trasformato in avamposto – come Corea del Sud, come Taiwan – della potenza Usa. Consentiamo agli allargamenti della Nato su ordine statunitense, e l’allineamento europeo a Washington nella guerra ucraina ha polverizzato ogni velleità di autonomia strategica. Siamo parte della sfera d’interesse statunitense, avendo perso di vista i nostri interessi. Oggi l’ordine internazionale unipolare è celebrato, in Italia, come il più morale dei mondi possibili. Unica eccezione: il Movimento Cinque Stelle e Sinistra italiana. Il loro opporsi è bollato come putinismo appena si esprime.

Cito l’inesistente architettura di sicurezza del dopo guerra fredda per mettere in luce le falsità, le riscritture storiche, le calunnie che infestano il vocabolario delle élite occidentali mentre imperversa una guerra per procura. Un vocabolario che storce o cancella la realtà, che sostituisce il reale con le cosiddette narrazioni (“cosa ci raccontano questi eventi?”, usano chiedere i giornalisti televisivi), e che è confezionato per giustificare l’ostinato proseguimento di una guerra che – ormai lo sappiamo – poteva probabilmente concludersi fin dal marzo 2022, qualche giorno dopo l’invasione, a sentire non solo l’ex premier israeliano Naftali Bennett il 4 febbraio ma Putin stesso. In occasione di un incontro con dirigenti africani a Mosca, il 17 giugno, il Presidente russo ha persino mostrato la bozza del trattato che i negoziatori delle due parti firmarono nel marzo 2022 in Turchia.

Il trattato s’intitolava “Permanente Neutralità e garanzie di sicurezza per l’Ucraina”, e prevedeva l’inserimento nella costituzione ucraina della neutralità permanente (dunque la cancellazione del paragrafo sull’auspicata adesione alla Nato, inserito in costituzione nel 2019 dal governo Poroshenko). Stati Uniti, Gran Bretagna, Russia, Cina e Francia erano indicati come garanti. La nuova formulazione non era una resa dell’Ucraina. Si tornava alla neutralità permanente sancita in costituzione quando il paese divenne indipendente nel 1990. Incalzato da Travaglio su quell’accordo, Kuleba ha fatto finta di non capire.

Intanto la deformazione dei vocabolari prosegue. Si continua a parlare di “aggressione russa non provocata”, quando è evidente che l’aggressione era illegale ma che le provocazioni occidentali c’erano state. Da oltre sedici anni sappiamo che l’allargamento a Est della Nato – che gli Occidentali avevano promesso di evitare quando fu riunificata la Germania – era vista come minaccioso accerchiamento non solo da Putin, ma anche da Gorbačëv e Eltsin. Nella conferenza annuale di Monaco del 2007 Putin parlò di linee rosse oltre le quali il conflitto tra Russia e Occidente era inevitabile. La Nato e Washington hanno finto di non sentire, espandendo l’Alleanza atlantica all’Europa orientale e spingendosi fino a promettere l’adesione a Ucraina e Georgia, nel vertice Nato a Bucarest del 2008 poi in quello di Bruxelles del 2021.

Neanche la guerra in corso interrompe la strategia di totale indifferenza agli interessi russi, tanto è vero che fra qualche giorno, l’11 luglio, la Nato si riunirà a Vilnius per riconfermare la volontà di integrare l’Ucraina, magari senza fissare date precise. Se questo passo cruciale sarà compiuto – perfino Macron dice ora di volerlo compiere – vorrà dire due cose: primo, la Nato intende prolungare la guerra anziché aprire negoziati; secondo, il peso di Polonia e Stati baltici è oggi preponderante nell’Unione europea e nell’Alleanza atlantica.

Un altro concetto deformato è quello di “pace giusta”, col quale si usa zittire chi si oppone all’invio di armi a Kiev, specie a lungo raggio. Pace giusta è un ossimoro, perché nelle presenti circostanze la tregua è possibile solo se ambedue le parti fanno concessioni ritenute ingiuste fino al giorno prima. Ripetere che solo una “pace giusta” è negoziabile significa, semplicemente, volere che la guerra continui. È quello che hanno segnalato Londra e Washington, quando Zelensky si disse disposto, nel marzo 2022, a un compromesso con Putin che prevedeva la neutralità ucraina e la rinuncia alla Crimea. Boris Johnson si precipitò allarmatissimo a Kiev, vietando a Zelensky ogni concessione e confermando spudoratamente che la guerra in Ucraina era sin da principio guerra per procura fra Nato e Mosca, proxy war sulla pelle del popolo ucraino e magari perfino di Zelensky. Altro che difesa delle sovranità e dell’autodeterminazione degli Stati, sbandierata senza sosta dalle democrazie occidentali!

L’ipocrisia di quello che Mosca chiama abbastanza correttamente “occidente collettivo” giunge sino a negare il diritto alle sfere di influenza, in nome della sovranità e dell’autodeterminazione dei popoli. Biden cita spesso quel che disse, da vicepresidente, alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco del 2007: “Non riconosciamo a nessuna nazione il diritto di avere una propria sfera di influenza. Continuiamo a credere nel diritto degli Stati sovrani di prendere proprie decisioni e di scegliere le proprie alleanze”. È dai tempi di Wilson che le amministrazioni Usa ripetono questa menzogna. La verità è che Washington condanna tutte le sfere d’influenza altrui tranne la propria, che difende con le unghie, i denti e guerre ripetute. Inizialmente, ai tempi della dottrina Monroe due secoli fa, tale sfera comprendeva America centrale, America Latina e forse Canada. Oggi copre il pianeta, e in Europa si estende fino ai suoi confini orientali, dove l’Occidente non esita ad abbaiare – son parole di Papa Francesco – alle porte della Russia. Lo stesso dicasi di Taiwan, che permette di abbaiare alle porte cinesi. Chiunque minacci le sfere d’influenza Usa è equiparato, ogni volta, a Hitler.

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Questo continuo riferimento a Hitler, al trattato di Monaco, a Churchill, dovrebbe farci riflettere. Generalmente chi ricorre a simili paragoni invita a grandi battaglie contro il male assoluto, identificato di volta in volta con questo o quello Stato nemico dei valori occidentali. L’invito alle battaglie sui valori è falso, perché nasconde l’aspirazione al brutale predominio di un unico sistema, rivestito dai valori come da un mantello. Ma c’è qualcosa di ancora più insidioso nel richiamo alla seconda guerra mondiale: c’è, a mio parere, una volontà di potenza che esalta in blocco la seconda guerra mondiale, e la guerra in sé. Esalta una vittoria ottenuta a seguito di una distruzione del tutto sproporzionata delle città tedesche, e delle atomiche lanciate su Hiroshima e Nagasaki quando il Giappone già era palesemente disposto alla resa.

Lo storico Stephen Wertheim ha scritto un articolo illuminante su questo slittamento delle memorie belliche, in Europa e soprattutto negli Stati Uniti. Con l’esaurirsi della generazione che aveva vissuto la seconda guerra mondiale, le memorie sono passate dalla paura della guerra e dagli sforzi di prevenirla alla sua glorificazione. Il modo in cui si è combattuto non è mai messo in questione, se si escludono i movimenti anti-nucleari e i libri illuminanti di Winfried Sebald sulle città tedesche rase al suolo per volontà di Churchill. La mancata condanna delle atomiche sganciate sul Giappone, infine, contribuisce a banalizzarne sempre più l’uso. È significativa e inquietante la discussione in Russia attorno a un articolo di Sergej Karaganov, già consigliere di Putin, che ipotizza l’uso dell’atomica per resuscitare, visto che altri modi non ci sono, le paure del dopoguerra e far rinascere, col forcipe, il dialogo Russia-Occidente (“La paura dell’escalation nucleare deve essere ripristinata”).

Le popolazioni occidentali sono addestrate per fronteggiare sempre nuovi mali assoluti coi quali poi si finisce per negoziare, come in Afghanistan. Non sono addestrate per tenere in vita la paura, menzionata da Karaganov, del conflitto nucleare. In era atomica tale paura è benefica, così come indispensabile in qualsiasi futura trattativa è esaminare gli effetti delle proprie azioni, a cominciare dagli allargamenti della Nato. I pacifisti oggi non negano il diritto ucraino a difendersi. Si battono perché si metta fine a una guerra per procura che inavvertitamente, su iniziativa di qualche Dottor Stranamore, può slittare in conflagrazione atomica. Il fatto che se critichiamo Biden e la Nato siamo definiti putiniani significa che lo slittamento è vicino.

Sono decenni che la Nato e i suoi Stati membri si esercitano in simulazioni dette war games, giochi di guerra (i campi di calcio descritti da Kuleba). Sarebbe ora che l’Europa – il primo continente a essere devastato in caso di conflitto nucleare – concentrasse tutti gli sforzi sui giochi di pace. Sui modi per attenuare i pericoli, come seppe attenuarli Kennedy durante la crisi di Cuba, quando diede inizio alla distensione smantellando i missili Jupiter installati in Turchia. Questa è l’arte che urge riapprendere, e che neanche durante la guerra fredda fu dimenticata com’è dimenticata oggi: l’arte con cui si negoziano prima le tregue, poi la coesistenza pacifica, poi i sistemi di sicurezza collettiva, poi se possibile la pace tra nazioni e valori diversi.