La lobby occidentale che difende Netanyahu

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 4 settembre 2024

Per la seconda volta nell’ultimo decennio l’accusa di antisemitismo si abbatte su politici di primo piano e li trasforma in appestati.

Nel 2018 toccò a Jeremy Corbyn, leader del Laburismo che difendeva i diritti dei palestinesi senza mai mettere in questione l’esistenza di Israele. Oggi tocca a Jean-Luc Mélenchon, capo del primo partito di sinistra in Francia, politicamente demolito in piena guerra di Gaza per aver sostenuto i palestinesi e messo in guardia contro tutti i razzismi, sia islamofobi sia antisemiti. Mélenchon è considerato ben più minaccioso di Marine Le Pen. Jacques Attali, già consigliere del presidente socialista Mitterrand, lo ha accusato di “genocidio simbolico”, in occasione dell’attentato alla sinagoga del 24 agosto nel sud della Francia a La Grande-Motte.

La diffamazione scatta in automatico, come un tic. È brutale e può distruggere un’ambizione politica. Ha dietro di sé la forza dei giornali mainstream, dei talk show in Tv, dell’establishment politico ed economico. Il linguaggio dei diffamatori è ripetitivo, se di linguaggio si può parlare quando vengono reiterate compulsivamente formule e aggettivi mai spiegati. È il lessico propagandistico (hasbara, in ebraico) di uno dei più potenti e antichi gruppi di pressione: la lobby sionista israeliana.

Non importa quel che accade a Gaza: più di 41.000 morti, soprattutto bambini e donne. Da tempo ha cessato di essere una rappresaglia. Non importano le proteste sempre più diffuse in Israele – parenti degli ostaggi, sindacati, giornali come Haaretz – e nelle università europee e statunitensi. Il sionismo inteso come progetto coloniale vacilla ma la lobby, finanziariamente molto influente, non se ne cura. Se osteggi le politiche di Tel Aviv, difendi i palestinesi e chiedi di metter fine all’invio di armi a Israele, vuol dire che sei antisionista, dunque automaticamente antisemita, dunque indifferente al genocidio subito dagli ebrei nel Novecento: questo il sillogismo ricorrente, arma della lobby. Il peso abnorme esercitato dai gruppi di pressione israeliani, specie negli Stati Uniti, è un dato difficilmente confutabile. È una delle tante verità israeliane mai ammesse, sempre opache.

È opaca la denominazione dello Stato, definito ebraico pur essendo abitato per oltre il 25 per cento da non ebrei (arabo-palestinesi musulmani e cristiani, cristiani non arabi, drusi, beduini, ecc.). È opaca la formula che descrive Israele come “unica democrazia in Medio Oriente”, perché la democrazia non si concilia con l’occupazione coloniale o l’assedio dei palestinesi. È opaca la forza militare di Israele, che dagli anni 60 dispone di un armamento atomico senza mai ammetterlo. Secondo il giornalista Seymour Hersh, Tel Aviv ha già minacciato una volta l’uso dell’atomica, nella Guerra del Kippur del 1973 (The Samson Option, 1991).

Ma più opaca di tutte le politiche è l’esistenza di una lobby sionista estremamente danarosa e attiva – soprattutto in Usa e Regno Unito – che fin dalla nascita dello Stato di Israele sostiene le sue politiche di colonizzazione, e che oggi appoggia l’ennesimo tentativo di svuotare la Palestina dei suoi abitanti. Si dice che Netanyahu sta spianando Gaza e attaccando anche la Cisgiordania solo per restare al potere, senza un piano per il futuro. Quasi un anno è passato dalla strage perpetrata da Hamas il 7 ottobre, e una rettifica si impone. È vero che Netanyahu teme di perdere il potere, ma un piano ce l’ha: la pulizia etnica in Palestina.

La lobby sionista ha istituzioni secolari negli Stati Uniti e Gran Bretagna e filiali ovunque. Influenza i giornali e li monitora, finanzia i politici amici. Denuncia regolarmente l’antisemitismo in aumento, mescolando antisemitismo vero e opposizione alle guerre di Israele. Nei Paesi europei operano vari gruppi di pressione tra cui l’Ong Elnet (European Leadership Network).

È chiamata a volte lobby ebraica, ma con l’ebraismo non ha niente a che vedere. Ha a che vedere con il sionismo, che è una corrente politica dell’ebraismo e che dopo molti conflitti interni ha finito col pervertire la religione. È nata nella seconda metà dell’800 e culminata nei testi e negli atti fondatori di Theodor Herzl e Chaim Weizmann. Per il sionismo politico, l’ebraismo non è una religione ma una nazione, uno Stato militarizzato, edificato in Palestina con uno slogan che falsificando la realtà era per forza bellicoso: la Palestina era “una terra senza popolo per un popolo senza terra”, data da Dio agli ebrei per sempre. Secondo il filosofo Yeshayahu Leibowitz, che intervistai nel 1991, Israele era preda di un “nazionalismo tendenzialmente fascista”. Non stupisce che Netanyahu e i suoi ministri razzisti si alleino oggi alle estreme destre in Europa e Usa.

Non tutti gli ebrei approvarono la ridefinizione della propria religione come nazione e Stato. In parte perché consapevoli che la Palestina non era disabitata, in parte perché la lealtà assoluta allo Stato israeliano imposta dalla corrente sionista esponeva gli ebrei della diaspora a sospetti di doppia lealtà.

Indispensabile per capire questa fusione tra religione e Stato militarizzato è l’ultimo libro di Ilan Pappe (Lobbying for Zionism on Both Sides of the Atlantic, 2024). Lo storico racconta, proseguendo lo studio di John Mearsheimer e Stephen Walt sulla lobby (2007), la nascita del sionismo nella seconda metà dell’800, e cita fra gli iniziatori le sette messianiche evangelicali negli Stati Uniti. Sono loro che con più zelo promossero e motivarono il movimento sionista. L’idea-guida del sionismo millenarista è che Israele ha un diritto divino a catturare l’intera Palestina. Se il piano si realizza, giungerà o tornerà il Messia. Questo univa nell’800 sionisti ebrei e cristiani. C’era tuttavia un tranello insidioso: per i sionisti cristiani, il Messia arriva a condizione che gli ebrei alla fine si convertano in massa al cristianesimo.

Il sionismo colonizzatore è oggi in difficoltà. “Non in mio nome”, è scritto sugli striscioni degli ebrei che manifestano contro la nuova Nakba (“Catastrofe”, in arabo) che il governo Netanyahu infligge a Gaza come nel 1948. E che infligge in Cisgiordania dal 28 agosto.

Ciononostante i governi occidentali accettano l’equiparazione fra antisemitismo e antisionismo, per timore delle denigrazioni e manipolazioni della lobby. Quasi tutti hanno fatto propria la “definizione operativa” dell’antisemitismo adottata nel 2016 dall’International Holocaust Remembrance Alliance (cosiddetta Definizione IRHA, legalmente non vincolante). Tra gli esempi indicati, l’antisionismo e le critiche di Israele. Il governo Conte-2 si è allineato nel gennaio 2020.

Difficile in queste condizioni monitorare e combattere l’antisemitismo. L’unica cosa certa è che la politica di Israele non solo svuota la Palestina e crea nuove generazioni di resistenti più che mai agguerriti, non solo rende vano l’appello ai “due popoli due Stati”, ma mette in pericolo gli ebrei in tutto il mondo. Nel lungo termine può condurre Israele stesso al collasso.

© 2024 Editoriale Il Fatto S.p.A.

Gaza, chi vuole tabula rasa

di mercoledì, Gennaio 31, 2024 0 , , , , Permalink

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 31 gennaio 2024

Prima ancora di sapere quel che veramente hanno fatto i dodici impiegati Unrwa, accusati da un rapporto dei servizi segreti israeliani di aver partecipato ai pogrom del 7 ottobre, Washington e una serie di governi europei – Italia in testa, seguita da Germania, Francia, Olanda, Finlandia – hanno deciso di sospendere ogni aiuto all’Agenzia Onu che dal 1950 assiste i rifugiati palestinesi.

Lungo gli anni l’Unrwa ha fornito ai profughi cibo, scuole, ospedali. Oggi allevia con mezzi esigui le sofferenze e la fame dei civili, costretti dai bombardamenti a lasciare il Nord, bersagliati coscientemente anche quando arrivano a Sud. In sostanza, Washington e i principali Stati europei azzerano gli aiuti ai civili nel preciso istante in cui chiedono ipocritamente a Netanyahu di risparmiarli.

Punire l’Agenzia Onu è del tutto demenziale e pretestuoso. Anche qualora fosse vero che i dodici hanno fiancheggiato azioni di Hamas, è sciagurato colpire l’intera struttura Onu, conoscendo gli ulteriori immensi danni che i palestinesi subiranno anche se sarà raggiunto un accordo di tregua: metà popolazione di Gaza in fuga, 27.000 uccisi di cui 10.000 bambini, 65.000 feriti. Più di 1.000 bambini hanno subìto amputazioni senza anestesia. Non una deportazione in massa di palestinesi ma una decimazione, visto che per deportarli bisognerebbe aprire il valico di Rafah, bloccato invece dall’Egitto su spinta israeliana. Nello stesso momento in cui ha licenziato gli impiegati sospetti (due dei quali morti), il segretario generale dell’Onu Antonio Gutérres ha implorato i Paesi donatori a non interrompere gli aiuti all’Agenzia, proprio mentre la guerra infuria. Il 27 gennaio il ministro degli Esteri israeliano Israel Katz è giunto sino a chiedere le dimissioni di Lazzarini, commissario generale dell’Unrwa.

C’è poi la coincidenza delle date, torbida. I servizi israeliani hanno pubblicato il rapporto sulle devianze Unrwa sabato 27 gennaio, un giorno dopo la sentenza preliminare emessa dalla Corte di giustizia dell’Onu a seguito dei sospetti di genocidio o di intento genocidario formulati dal Sudafrica. Sospetti ritenuti “plausibili” dalla Corte, che invita Israele a presentare entro un mese una documentazione sulle azioni denunciate. Nel mirino ci sono sia la Corte sia l’Unrwa. L’Onu per intera è sotto accusa.

Non è una novità, perché non da oggi l’Onu è intollerabile pietra d’inciampo per i governi d’Israele, e per i neocon statunitensi. Già nel 2018, Trump presidente interruppe i finanziamenti Usa all’Unrwa. Biden revocò la decisione, che ora fa propria. Quanto all’Europa, non esiste come Unione. Solo una parte si è piegata al diktat di Usa e Israele, fidandosi ciecamente dei servizi segreti di una potenza nucleare che sta decimando Gaza e fa di tutto per screditare l’Onu. Vista la facilità con cui l’Occidente abbocca, Israele ha deciso di spararla grossa: il 10 per cento dell’Unwra colluderebbe a Gaza con “gruppi militanti islamici”.

Quasi metà dei contributi all’Unrwa proviene dall’Europa (Germania e Svezia sono i principali contributori, l’Italia è quattordicesima). La Commissione Von der Leyen è in favore della sospensione. Ma alcuni Paesi non ci stanno. Dissentono per il momento i governi di Spagna, Irlanda, Belgio, Danimarca, e fuori dall’Ue Norvegia (quinto contributore subito dopo la Svezia). I quali hanno fatto sapere che dodici eventuali sospetti non rappresentano i 30.000 impiegati dell’Agenzia Onu (di cui 13.000 a Gaza). Diciamoci che è una gran fortuna, per la popolazione palestinese ammazzata o in fuga, che l’Europa si spacchi sulla questione. Basterebbe questa vicenda per temere future votazioni a maggioranza nell’Ue.

Colpire l’Onu screditando due suoi organi come l’Agenzia per i rifugiati palestinesi e la Corte sembra essere parte di una strategia bellica che sempre più punta a estendere il conflitto oltre Gaza: verso Libano, Giordania, Yemen e soprattutto, in extremis, Iran. Non da oggi i neoconservatori Usa spingono in questa direzione, e non hanno mai digerito l’accordo sul nucleare negoziato nel 2015 da Obama. A questo servono i ripetuti attacchi contro gli Houthi, lanciati da Usa e prospettati da una coalizione di europei, per proteggere la navigabilità nel Mar Rosso e intimidire l’Iran. La parola d’ordine Houthi – fine della strage di palestinesi – è considerata inaudita dunque non è ascoltata.

“Corriamo senza curarcene nel precipizio dopo aver messo qualcosa davanti a noi per impedirci di vederlo”, così Blaise Pascal, ed è questa la strategia di un Occidente che resta micidiale per le armi che possiede ed è tuttavia sempre più striminzito, frantumato e isolato: in Europa, Medio Oriente, Africa, Asia. Ha già perso la Turchia, l’Ungheria, e ora perde la Spagna di Sánchez e l’Irlanda. A suo tempo perse la Russia. Si è gettato in un conflitto che ha volutamente prolungato in Ucraina, e non sta vincendo. In una guerra contro gli Houthi, che però resistono. E in un appoggio a Netanyahu che replica al terribile 7 ottobre sforando enormemente la legge biblica dell’occhio per occhio.

Inutili sono i Giorni della memoria, se continuiamo a credere che gli scempi in Ucraina sono iniziati nel febbraio 2022, e non nel 2014 nel Donbass. Se facciamo finta che la guerra Usa contro gli Houthi sia cominciata il giorno in cui sono apparsi sui nostri teleschermi, simili a nere figure di un videogioco, mentre invece la guerra che ha seminato morte e fame in Yemen è cominciata nel 2015, quando Obama e la Francia di Hollande e poi Macron fiancheggiarono l’Arabia Saudita illudendosi di mettere in allarme l’Iran. Inutile infine fingersi memori e vigili quando puniamo l’Unrwa e screditiamo l’Onu, senza sapere – o fingendo di non sapere – che se i palestinesi smettono di poter contare sull’Agenzia per proteggere 871.000 rifugiati in Cisgiordania e se nella guerra di Gaza i palestinesi che dipendono dall’Unrwa per nutrirsi sono un milione, sarà Hamas a doverli sfamare, e a dover dispensare fondi e stipendi perché Gaza non sia completamente distrutta.

A quel punto Hamas vedrà ancor più crescere la propria popolarità nella popolazione palestinese che resta. Ma non era proprio questo, fin dall’inizio, lo scopo delle strategie israeliane nelle terre palestinesi, occupate e non? Hamas fu infiammato e rifocillato da Israele, Stati Uniti ed Europa alla vigilia delle elezioni del 2006 a Gaza, come a suo tempo furono sobillati mujaheddin e talebani in Afghanistan, russofobi e neonazisti nel Donbass ucraino negli otto anni di guerra civile che hanno preceduto l’invasione russa.

L’esito lo conosciamo. È il “Destino Manifesto” dell’Impero del Bene: non una gloriosa leadership, ma un’espansione di disastri ancora più letali del suicidio politico dell’ex superpotenza Usa. Un’abitudine alla tabula rasa che sta riducendo a zero, non nei popoli d’Occidente ma nelle sue élite, la benefica paura delle guerre e dell’atomica che nel ’45 diede vita all’Onu, alle sue Agenzie e alla sua Corte di giustizia.

© 2024 Editoriale Il Fatto S.p.A.

Ue, Meloni e il favore delle tenebre

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 20 dicembre 2023

Non c’è da stupirsi se Giorgia Meloni si mostri soprattutto intimorita dagli attacchi di Giuseppe Conte, e si nasconda dietro polemiche frivole per dissimulare questo timore.

Il leader del Movimento 5 Stelle è l’unico esponente forte, nell’opposizione, a mettere sotto accusa la politica estera del governo, e a chiedere un cambio di rotta sulle due questioni fondamentali: la guerra in Ucraina e quella d’Israele a Gaza. L’unico a intuire, fin dal governo Draghi, che l’acritica subordinazione agli Usa – e dunque alla Nato – produce disastri per l’Italia e l’Ue, screditando ambedue sul piano strategico, economico e morale.

Di qui la domanda di Conte: che lo Stato italiano si faccia sentire, in Ucraina con iniziative diplomatiche, a Gaza minacciando di sanzionare Israele per l’uccisione e espulsione dei palestinesi – in massa – dalla terra di Gaza. Più di 7.000 bambini sono stati ammazzati dall’esercito israeliano, senza alcun rapporto causale con il pogrom sanguinario del 7 ottobre. Si dice che l’Italia non conta nulla, e in gran parte è vero. Ma conta parecchio come Stato esportatore di armi: è tra i primi nel mondo (3,8% delle vendite globali), e alla testa del ministero della Difesa come nel Pd c’è chi cura questo commercio da anni.

Sostiene Giorgia Meloni che Conte approvò la riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes) senza consultare il Parlamento e “con il favore delle tenebre”. Ha mentito ben sapendo come andarono le cose, e roteare irosamente gli occhi non trasforma le bugie in verità. Vero è invece che il suo governo sta muovendosi con il favore delle tenebre nella guerra medio orientale. Lunedì scorso Lloyd Austin, ministro della Difesa Usa, ha delineato quella che è una prima estensione della guerra di Gaza: una coalizione militare di dieci Stati decisi a fronteggiare l’offensiva crescente di guerrieri Houthi nel Mar Rosso contro navi mercantili che servono anche porti israeliani. L’Italia è indicata fra i paesi europei della coalizione, con Francia, Regno Unito, Spagna, Olanda, Norvegia. Di questo non si fa parola, né in dichiarazioni né in Parlamento. Forse manderemo soldati, forse solo armi. Comunque si procede senza spiegare alcunché.

Quanto all’Ucraina, le parole di Palazzo Chigi sfiorano l’oscenità. L’Italia “prova stanchezza” per il protrarsi della guerra e il fallimento della controffensiva ucraina di giugno (telefonata di Meloni con i due comici russi scambiati per dirigenti africani), e non è certo l’unico Stato europeo a dirsi spossato. Niente da eccepire, a prima vista: la “via d’uscita” auspicata da Meloni nella telefonata è urgente e necessaria, se si è consapevoli che via d’uscita significa, oggi, concessioni territoriali a Mosca.

Ma Meloni non completa il ragionamento accennando all’inevitabile compromesso Kiev-Mosca: esponendo prima dell’ultimo Consiglio europeo quel che intendeva nella telefonata rubata, si è permessa una frase grottesca e senza senso: “stanchezza […] non vuol dire non credere nella vittoria dell’Ucraina. Noi ci abbiamo creduto dall’inizio e continuiamo a crederci”.

Fin qui le insensatezze, le incoerenze, la paura di mettere in questione l’allineamento atlantico dell’attuale governo e di quello precedente. Se aggiungiamo l’aggettivo “osceno”, è perché sentirsi “stanchi” di fronte al cumulo di morti ucraini che continua a crescere e crescere senza che i notiziari Tv dicano più nulla (solo su YouTube si vedono brandelli della battaglia: uomini che si rotolano già semi morti nel fango che sta ghiacciandosi) vuol dire nascondere il fatto che è stato l’Occidente collettivo, su ordine statunitense e britannico, a volere il protrarsi di un conflitto che poteva finire poche settimane dopo l’invasione russa, quando Washington e Boris Johnson in persona proibirono a Zelensky di smettere la guerra e gli ordinarono di cestinare l’accordo sulla neutralità militare ucraina, approvato da Kiev e Mosca fra il marzo e l’aprile del 2022.

Stanchi di cosa, allora? Ecco governanti europei che contemplano tutto quel sangue e quel fango che loro stessi hanno voluto si perpetuasse e che lo vogliono ancora. Ecco il Presidente del Consiglio Meloni (ma anche il Presidente Usa, e quasi tutti i capi di Stato e di governo dell’Ue) che sragiona e agisce come Lady Macbeth, complice e aizzatrice del marito che opera alla Casa Bianca: “Le mie mani sono del tuo stesso colore, ma mi vergogno di avere un cuore così bianco”. Il cuore così bianco e tuttavia insanguinato è quello degli Europei e dell’Italia. Stanchezza vuol dire noia, sazietà. Questa è l’oscenità, davanti a tanti morti. Avviene anch’essa col favore delle tenebre.

Altra indecenza: quel che succede a Gaza. Gli europei possono poco, perché solo Washington possiede strumenti di pressione efficaci perché cessino gli eccidi e lo svuotamento di Gaza perpetrati da Netanyahu. Ma potrebbero esercitare a loro volta pressioni sull’alleato statunitense, perché non si limiti a parlare ma agisca. Biden mette in guardia contro la pulizia etnica non solo a Gaza ma anche in Cisgiordania, per opera dei coloni armati dal governo israeliano. Ma s’indigna a parole. Nei fatti continua a aiutare militarmente Israele, e moltiplica addirittura le forniture di missili e munizioni, secondo l’agenzia Bloomberg.

Gli alleati di Israele esprimono sdegno e sbandierano parole d’ordine ormai desuete (“Due popoli in due Stati” è inconcepibile, alla luce degli eccidi e delle deportazioni) e pensano che la soluzione consista nello spodestamento di Netanyahu. Sono menzogne, come quelle proferite sull’Ucraina. Con o senza Netanyahu, lo Stato di Israele è incapace per ora di escogitare un accordo con i Palestinesi. E se oggi i due Stati sono dichiarati a Tel Aviv impossibili, resta in piedi solo l’opzione Grande Israele, cioè l’annessione più o meno esplicita di Cisgiordania e Gaza. A quel punto i numeri di ebrei e palestinesi si pareggeranno (7,3 milioni gli ebrei; 7,3 i palestinesi). Israele potrà sopravvivere come Stato ebraico solo con l’apartheid. Disfarsi di Netanyahu è opportuno ma insufficiente: gran parte della classe dirigente israeliana si è assuefatta alla colonizzazione dei territori e non sa più farne a meno.

Intanto sta accadendo quel che Biden e gli Europei temevano di più: non solo le sistematiche violenze in Cisgiordania, e il definitivo seppellimento dell’Autorità palestinese operato dai coloni (in accordo con le volontà di Hamas), ma l’estensione graduale del conflitto, in Libano e oltre. Gli Houthi che vengono dallo Yemen e l’inattesa forza che possiedono (missili balistici lanciati contro le navi mercantili nel Mar Rosso) sono stati sottovalutati per settimane, e ora nasce l’idea di una coalizione per fronteggiarli. La coalizione in realtà esiste già (la Combined Maritime Force, a difesa del cosiddetto ”ordine internazionale basato sulle regole” che gli Usa tentano invano di imporre), ma nuove coalizioni armate vedono la luce: col consenso degli Europei e dell’Italia, e ancora una volta col favore delle tenebre.

© 2023 Editoriale Il Fatto S.p.A.

Due popoli, due Stati: è già troppo tardi

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 18 novembre 2023

Man mano che procede l’invasione di Gaza, si moltiplicano gli appelli delle destre estreme israeliane a ri-colonizzare la Striscia che Israele aveva formalmente restituito ai palestinesi nel 2005.

La demolizione del complesso coloniale di Gush Kativ (8.600 residenti), a sud della Striscia, per ordine del premier Ariel Sharon è ricordata con ribrezzo dagli attuali governanti, e definita alto tradimento dai ministri di estrema destra. Riconquistare e ripopolare le terre perdute è il loro proposito.

Al tempo stesso, continua l’esodo degli abitanti cacciati dalle bombe da nord a sud della Striscia, in fuga attraverso il valico di Rafah verso l’Egitto. È un’espulsione di massa, che i palestinesi chiamano seconda Nakba (“Catastrofe”) perché ricorda loro la prima Nakba sofferta a seguito della guerra del 1948 (più di 700.000 profughi). Un ministro del partito di Netanyahu, Avi Dichter, ha ammesso l’11 novembre che la guerra in corso è effettivamente la Nakba. Altri, come l’ex ambasciatore israeliano in Italia, Dror Eydar, indicano lo scopo delle operazioni: “Distruggere Gaza”. Si paragona la distruzione di Gaza a Dresda rasa al suolo per volontà di Churchill, come se Dresda o Amburgo annientate non fossero un capitolo nero della Seconda guerra mondiale.

Israele risponde così al pogrom del 7 ottobre, che ha ucciso 1.400 israeliani e ne ha presi in ostaggio 200, in una serie di villaggi e kibbutz, e nel Nova Music Festival ai confini con Gaza. La violenza scatenata da Hamas supera perfino i pogrom classici, ha visto mescolarsi non solo collera e vendetta ma una dose impressionante di sadismo. Le mutilazioni, gli stupri di ragazze del rave party prima del loro assassinio: la mattanza si avvicina ai delitti di sette sanguinarie tipo “famiglia Manson”. Difficile mettere sullo stesso piano le intifade del passato e la voragine del 7 ottobre.

Le voragini hanno una storia, come l’ebbero le intifada. All’origine c’è sempre la tragedia di un popolo (quello palestinese) a cui ancora non è stato dato lo Stato reclamato, e che non ha mai avuto una rappresentanza efficace. A cui si propone la pace contro la pace, quando l’unica via resta quella di chiedere pace in cambio di territori. Lo capì Yitzhak Rabin con gli accordi di Oslo, e più ancora il premier Ehud Olmert nel 2008. Il presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas respinse l’offerta del 2008 con la scusa che Olmert si era rifiutato di mostrargli la mappa delle colonie da smantellare. Qualche anno dopo, Olmert disse che la mappa era disponibile se Abbas avesse accettato l’offerta. Negli ultimi anni, poi, ha affermato che Abbas non oppose mai un vero no, e comunque si pentì della firma negata (“le voci su un suo rifiuto categorico sono false”, «Times of Israel», 25.06.’21).

Da allora è passato poco più di un decennio, ma per le nuove destre israeliane è passato un secolo. Secondo Olmert l’offerta può ripetersi, e anche gli Stati occidentali – USA in testa – rispolverano la soluzione “due popoli due Stati”. Ma non è detto che la formula funzioni ancora, che in Israele esista una maggioranza politica a favore, e che lo stesso possa dirsi delle rappresentanze palestinesi. Guerra e colonizzazione hanno radicalizzato i due campi, dando loro un colore sempre più religioso.

La Carta di Hamas del 1989 chiama al jihad armato contro Israele, e nell’articolo 7 ordina di uccidere gli ebrei in quanto tali (in assenza dell’uccisione, il Giorno del Giudizio e l’avvento del Messia non verranno). Nel 2017 la Carta è stata emendata: lo Stato palestinese “sarà edificato entro i confini del 1967”, e secondo i leader di Hamas si tratta di combattere “il progetto sionista che occupa la Palestina, non gli ebrei a causa della loro religione”. Ma lo Stato di Israele ancora non è riconosciuto.

Il fatto è che ogni soluzione è diventata impervia dopo il 7 ottobre. Quasi impraticabile è oggi la soluzione due popoli-due Stati: la colonizzazione della Cisgiordania è talmente avanzata che in Israele scoppierebbe una guerra civile. Ma non meno catastrofica rischia di essere l’alternativa più razionale e logica: la creazione di uno Stato bi-nazionale, sotto forma di confederazione o federazione. Lo proposero nel 1947 filosofi e israeliani influenti come Hannah Arendt e il rabbino Judah Magnes, presidente dell’Università Ebraica di Gerusalemme. Invano. In assenza di autocritiche delle due parti, sarebbe oggi un incubo demografico per gli ebrei. La guerra civile sarebbe assicurata anche in questo caso.

Le destre estreme israeliane puntano a un unico Stato con annessione di Cisgiordania e Gaza, ma presuppongono la cacciata dei palestinesi. L’espulsione è in corso non solo a Gaza, ma anche in Cisgiordania: 200 morti palestinesi, dal 7 ottobre, e decine di villaggi svuotati con la violenza grazie a massicce distribuzioni di fucili ai coloni, su iniziativa dei ministri Ben-Gvir e Bezalel Smotrich.

La soluzione “un solo Stato” è sostenuta da molti pacifisti di Israele, ma anche da estremisti sia israeliani sia palestinesi. I primi propagandano una Palestina “dal fiume (Giordano) al mare” (from the river to the sea); i secondi un Israele “dal fiume al fiume”, from the river to the river (“i confini di Israele sono l’Eufrate a Est e il Nilo a Sud Ovest”, secondo l’esponente del movimento dei coloni Daniella Weiss intervistata dal «New Yorker» l’11 novembre). In ambedue i casi, lo Stato antagonista scompare. Nella logica dell’annessione verrebbe realizzato l’apartheid istituzionalizzato, che molti israeliani vedono già in fieri a seguito della contestatissima “legge dello Stato ebraico” del 2018, secondo cui Israele concede piena cittadinanza solo agli ebrei. Questo nonostante Israele sia composto per il 20% da arabi-palestinesi, a cui si aggiungono i beduini (3,5-4%), i cristiani (2,1%), i drusi (2%), i circassi (4-5.000 membri, in gran parte musulmani).

Torniamo a Daniella Weiss: “Il mondo, e specialmente gli Stati Uniti, pensa che esista l’opzione di uno Stato palestinese. Noi vogliamo metter fine a simile opzione”. La Weiss si batte per l’aumento dei coloni in Cisgiordania (“dagli 800.000 di oggi a 2 milioni, e poi 3”), per la ricolonizzazione di Gaza dopo l’errore del 2005, infine per la cacciata dei palestinesi dalla Striscia. E dove devono andare questi ultimi? “Nel Sinai, in Egitto, in Turchia”.

Quanto alla religione, Daniella Weiss non ha dubbi: a fissare le regole è “la prima nazione che ricevette la parola di Dio e la sua promessa. Gli altri che seguono – Cristianesimo e Islam […] – non fanno che imitare quel che esiste già. Sono venuti dopo di noi”.

La colonizzazione ha cambiato l’ebraismo in Israele. Lo sostiene Menahem Klein, professore di Scienze politiche all’Università Bar-Ilan («Haaretz», 8.04.2023). L’ebraismo sviluppatosi durante la colonizzazione (essenzialmente in Cisgiordania, vista la decolonizzazione di Gaza nel 2005) non è quello del passato. La percezione di una supremazia dell’ebraismo e del “popolo eletto” esisteva già, ma non legata al possesso di uno Stato e al controllo armato di terre e popoli non ebraici.

© 2023 Editoriale Il Fatto S.p.A.

Contro l’ira, fare la pace con l’Iran

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 13 ottobre 2023

È rovinoso nascondersi i pericoli mortali che s’annidano per Israele come per Gaza, e continuare a dividersi, in Italia e Occidente, fra buoni amici di Israele e cattivi fiancheggiatori dei palestinesi.

La verità è che l’invasione di Gaza potrebbe culminare in strage, perché come potrà l’invasore distinguere tra civili e terroristi di Hamas in zone così popolose, e come potranno fuggire gli abitanti se i valichi son chiusi? E la verità è che lo Stato d’Israele è oggi minacciato esistenzialmente, per aver vissuto con gli occhi bendati sin da quando nacque, adottando la mortifera menzogna sulla “Terra senza popolo per un popolo senza terra”. Se li bendò definitivamente dopo la guerra dei Sei Giorni nel 1967, quando ebbe la sconsideratezza di non restituire i territori che aveva occupato: doveva farlo “sin dal settimo giorno”, disse oltre vent’anni fa l’ex procuratore generale Michael Ben-Yair, consulente legale di Rabin.Israele è minacciato esistenzialmente non per una sua congenita debolezza o fragilità – è osceno impersonarlo nella figura dell’ebreo perennemente vulnerabile – ma perché dagli anni 60 è una potenza atomica che continua indefessamente a negarsi come tale (la chiamano “ambiguità nucleare”, l’artefice fu il laburista Shimon Peres), che non aderisce a trattati di disarmo o proliferazione e che non possiede quindi flessibilità negoziale – tranne brevi intervalli, chiusi dall’assassinio di Rabin nel 1995.Questa condizione gli ha permesso di frenare attacchi su larga scala, ma ha trasformato Israele in potenza regionale troppo forte ma immobile, incapace non solo di perizia negoziale, ma anche di chiaroveggenza sulle proprie storiche responsabilità, sul proprio futuro destino, sui pericoli che gli si accampano davanti, oggi sotto forma della autentica polveriera che i governi d’Israele hanno fabbricato con le proprie mani ai confini con Gaza, foraggiando Hamas in funzione anti-Arafat.È uno dei motivi per cui il regime iraniano si va convincendo che l’unico modo per controbilanciare Israele, in prospettiva, è dotarsi anch’esso dell’atomica, in modo da dissuadere Israele o Stati Uniti da attacchi e guerre di regime change. Basta una piccolissima bomba per polverizzare Israele, il suo territorio è minuscolo. L’ambiguità nucleare si basava sull’illusione che non sarebbero apparse nella regione ambizioni nucleari concorrenti. È pensiero magico: anche se Teheran non possiede ancora la bomba, le ambizioni ci sono.Qui non si tratta di aprire negoziati Israele-Hamas: le atrocità terroriste non consentono compromessi di sostanza, e Hamas non ha riconosciuto Israele come fece Arafat alla vigilia degli accordi di Oslo nel ’93. I paragoni con l’Ucraina sono zoppicanti: Putin non è Hamas, ma un uomo di Stato che per decenni ha tentato pacificamente di scongiurare eccessive estensioni Nato, senza riuscirci. In Medio Oriente si tratta di avviare negoziati non finti tra Usa, Israele e rappresentanti palestinesi, coinvolgendo non tanto l’Arabia Saudita quanto l’Iran, in primissima linea e con la massima urgenza. L’Iran pesa su Hamas (e sul libanese Hezbollah): se non trattato come Stato canaglia, potrebbe facilitare trattative puntuali e forse durature.

Ogni ricerca di soluzione dovrà quindi avere come oggetto principale il futuro palestinese e la promessa di una tangibile, graduale restituzione di territori occupati, in modo da consentire che su di essi possa nascere uno Stato palestinese sovrano e minimamente funzionante. Nascita sempre più perigliosa: anche questo non andrebbe nascosto. La Cisgiordania è occupata da circa 670.000 coloni israeliani – inclusi 220.000 coloni a Gerusalemme Est, legalmente parte della Cisgiordania – e non solo è occupata: le milizie dei coloni stanno attuando massicci pogrom antipalestinesi, col consenso più o meno tacito delle destre religiose al governo.

Sono distrutti i pozzi dei residenti palestinesi, uccisi civili, espropriate terre, case, strade. Amira Hass testimonia su Haaretz che in questi giorni pogrom e uccisioni sono aumentati in Cisgiordania. I palestinesi parlano di seconda Nakba (“catastrofe”), la prima essendo quella del ’48, quando milioni di loro furono banditi, per imporre la favola della terra senza popolo. Come stupirsi che i banditi e i loro discendenti non diventino banditi armati.

Fino a quando non finirà questa Nakba, che sminuzza le terre attribuite ai Palestinesi, è vano ripetere il mantra “due popoli in due Stati”. All’origine delle atrocità terroristiche c’è la politica di apartheid attuata dai governi israeliani. Non è Hamas a dirlo. Dal 2002 lo dice l’ex procuratore generale israeliano Michael Ben-Yair e tanti israeliani.

In questo contesto varrebbe la pena fare un po’ di ordine nel nostro linguaggio, per aggirare qualche errore. Soprattutto in Italia ed Europa, poco influenti in Medio Oriente ma importanti per quel che dicono.

Come prima cosa, sarebbe consigliabile disgiungere Israele e popolo ebraico (oltre che Israele e diaspora ebraica). Non farlo danneggia gli ebrei e significa far propria la “legge sullo Stato Nazione” proposta da Netanyahu e adottata nel luglio 2018, secondo la quale “Israele è la patria nazionale del popolo ebraico”, il diritto all’autodeterminazione è limitato agli ebrei, e l’arabico è declassato da lingua ufficiale a lingua con “statuto speciale”. La legge è assai controversa in patria ed è in contrasto con la Dichiarazione di indipendenza del ’48 che prescrive “completa eguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religione, razza o sesso”. Il 21 per cento degli israeliani sono arabi palestinesi, a cui si aggiungono i beduini (3%), i drusi (2%), i cristiani (2%). Tutti israeliani, ma non ebrei. Alcuni illustri ebrei israeliani sono giunti fino a ripudiare dimostrativamente l’ebraismo, per protesta contro la legge.

Il secondo errore è definire Israele come la più grande democrazia in Medio Oriente. È solo in parte vero, se si considerano la libertà di stampa, di dimostrazione, di voto. Ma la democrazia non è compatibile con l’occupazione di territori, l’aumento delle colonie e i diritti negati o declassati dei palestinesi di Cisgiordania e Gaza.

Terzo malinteso: Gaza non è un territorio che Israele nel 2005 ha smesso di occupare. Israele ha ritirato le colonie ma esercita su di esso un controllo aereo, terrestre, marittimo; fornisce acqua, energia, cibo, medicine. Non si può né entrare né uscire da Gaza a causa del blocco/assedio israelo-egiziano. Ci sarà qualche motivo per cui si parla di prigione a cielo aperto, o secondo Giorgio Agamben di campo di concentramento. Secondo la legge internazionale, chi esercita un “controllo” su un determinato territorio è giuridicamente responsabile della sussistenza di chi lo abita.

Infine l’argomento del generale Mini, decisivo («Il Fatto Quotidiano» del 12 ottobre): “È militare e antico il detto ‘in guerra non si prendono le decisioni in preda all’ira’”. L’ira è appena sopportabile nei talk show. Sul terreno mina la sopravvivenza sia di Israele sia della Palestina.

© 2023 Editoriale Il Fatto S.p.A.

L’Europa si opponga alla neo-apartheid

di Barbara Spinelli

«Il Fatto Quotidiano», 31 gennaio 2020

Prima o poi il principio di realtà doveva prevalere: proclamata solennemente dall’Onu 46 anni fa, la formula che avrebbe pacificato il Medio Oriente – “Due Stati-Due popoli” – si sarebbe rivelata caduca e improponibile, sommersa dalla forza delle armi e dai fatti creati sul terreno. Chiunque abbia visitato i territori occupati, o abbia solo adocchiato una mappa, poteva rendersene conto da anni: è inverosimile un funzionante Stato palestinese su una terra disseminata di colonie israeliane a macchia di leopardo. Fra il 1967 e il 2017, gli insediamenti in Cisgiordania e Gerusalemme Est sono saliti a circa 200, abitati da circa 620.000 israeliani, protetti dai soldati della madre patria e cittadini israeliani a tutti gli effetti. I palestinesi sono circa 3 milioni. I due popoli sono in conflitto costante. L’accesso alle singole colonie avviene attraverso posti di blocco simili ai checkpoint lungo i confini di Israele.

Eludendo le risoluzioni Onu, il Piano Trump – congegnato da Jared Kushner, genero e consigliere presidenziale – fotografa l’esistente e costruisce su di esso una “visione” che più ingannevole non potrebbe essere: ai palestinesi sarà concesso di chiamarsi Stato – si assicura nelle 181 pagine del Piano – ma a condizione che mai diventi uno Stato autentico. Non saranno edificate altre colonie, ma nessuna delle esistenti sarà smantellata o assoggettata al nuovo Stato: resteranno parte di Israele e connesse a esso tramite esclusive vie di trasporto controllate dalla potenza occupante (anche oggi è così: comode autostrade per israeliani; strade più lunghe e impervie per i nativi). Israele avrà la sovranità militare sull’intera area palestinese, controllerà lo spazio aereo a ovest del Giordano e a quello aereo-marittimo di Gaza, nonché i confini dal nuovo Stato. Le risorse naturali saranno cogestite.

Tale sarà dunque la futura Palestina: una riserva per pellerossa, un Bantustan. Non uno Stato con qualche enclave israeliana chiamata a rispondere almeno amministrativamente alla Palestina, ma una serie di enclave palestinesi incuneate nella Grande Israele. Non si sa con quali mezzi bellici Gaza sarà disarmata e le sue ribellioni sedate.

A ciò si aggiunga che la valle del Giordano sarà comunque annessa da Israele “per motivi di sicurezza”, come annunciato recentemente da Netanyahu nonché dal suo “grande avversario” Benny Gantz, suo sosia almeno per il momento.

Quando parla di Stato palestinese, Trump mente sapendo di mentire, e con un proposito preciso. Una volta appurato che i due Stati in senso classico non sono più realisticamente praticabili, la formula da aggirare a ogni costo è quella che sta mettendo radici nel popolo palestinese e in un certo numero di israeliani (a cominciare dagli arabi israeliani): il possibile Stato bi-nazionale, dove i due popoli convivano in pace e i suoi cittadini alla fine si contino democraticamente. Se dovesse nascere uno Stato unitario israelo-palestinese (federale o confederale), due sono infatti le vie: o uno Stato ebraico stile bianca Sudafrica, non democratico visto che una parte della popolazione vivrebbe senza diritti in apartheid, oppure Israele resterà democratica ma in tal caso verrà prima o poi e legalmente reclamata la regola aurea della democrazia, consistente nel voto eguale per ciascun cittadino: un uomo, un voto.

Israele sarebbe costretta a modificare la propria natura etnico-religiosa (suggellata nel maggio ’17 con una legge che degrada la lingua araba a lingua non ufficiale con statuto speciale). Sarebbe uno Stato ebraico e anche palestinese, non più scheggia americana come temeva Hannah Arendt. Un crescente numero di palestinesi, un certo numero di israeliani e parte della diaspora ebraica considera che “Due Stati-Due popoli” sia un treno ormai passato, e che l’unica prospettiva realistica – anche per superare l’ostilità iraniana – sia lo Stato bi-nazionale. Una soluzione certo delicatissima: non solo perché muterebbe demograficamente lo Stato ebraico, ma perché la trasformazione presuppone una pace duratura fra le due parti. L’Unione europea fu pensata durante l’ultima guerra mondiale ma vide la luce dopo la riconciliazione Germania-Francia. Non siamo a questo punto in Medio Oriente.

Il Piano Trump non aspira a tale riconciliazione. Promette nuove intifade e guerre. Destabilizza la Giordania, chiamata ad assorbire buona parte dei profughi palestinesi di stanza in Israele, e getta nell’imbarazzo Egitto e forse Arabia saudita.

Il piano inoltre contiene vere provocazioni, negando perfino il diritto del futuro Stato a fare appello alle istituzioni internazionali tra cui la Corte penale internazionale. Viene vietato ai suoi cittadini di rivolgersi a qualsiasi organizzazione internazionale senza il consenso dello Stato di Israele, ed è bandito qualsiasi provvedimento, futuro o pendente, che metta in causa “Israele o gli Usa di fronte alla Corte penale internazionale, la Corte internazionale di giustizia o qualsiasi altro tribunale”.

In tutti i modi, infine, si evita di accrescere il peso numerico-elettorale degli arabi israeliani (in crescita, nelle ultime elezioni). Il piano prevede che gran parte delle comunità palestinesi abitanti in Israele – il cosiddetto “triangolo” – sia assegnata al semi-Stato palestinese o altri Stati arabi. Gli arabi israeliani diminuirebbero. Avigdor Lieberman, leader dei nazionalisti di Beiteinu, propose tale trasferimento già nel 2004, avversato dalle sinistre israeliane e dagli arabi israeliani.

Il giornalista Gideon Levy sostiene che Trump ha in mente una nuova Nakba (la “catastrofe” di 700.000 Palestinesi sfollati nel 1948). Mai consultati né convocati, i palestinesi sono stati messi davanti al fatto compiuto alla pari di reietti. In cambio riceveranno croste di pane allettanti (miliardi di dollari, versati da non si sa quali Stati arabi).

Questa pace dei vincitori dovrebbe essere respinta dagli Stati europei, non solo a parole. Non limitandosi a ripetere “Due Stati-Due popoli”, mantra svigorito e ora accaparrato/pervertito da Trump. Bensì difendendo le leggi internazionali e rifiutando di considerare come antisemitismo ogni critica dell’occupazione israeliana (la definizione IHRA dell’antisemitismo, approvata dal Parlamento europeo oltre che dal governo Conte il 17 gennaio scorso). Facendo proprie le parole del nipote di Mandela, Zwelivelile, durante una recente visita a Gerusalemme: “Le enclave Bantustan non funzionarono in Sud Africa e non funzioneranno mai nell’Israele dell’apartheid”.

© 2020 Editoriale Il Fatto S.p. A.

Situazione nella Striscia di Gaza

Javier Nart, deputato ALDE, ha inviato all’Alto Rappresentante Federica Mogherini una lettera – firmata anche da Barbara Spinelli – riguardante l’interruzione, da parte del governo di Israele, dell’approvvigionamento di elettricità alla Striscia di Gaza.

Ms Federica Mogherini
High Representative of the Union for Foreign Affairs
and Security Policy/ Vice President of the Commission

Brussels, 21 June 2017

Dear Ms Mogherini,

We are writing to you in order to express our deep and urgent concern for the situation in the Gaza Strip.

On 17 April, Gaza’s sole power plant (GPP) was forced to shut down completely after exhausting its fuel reserves and being unable to replenish them due to a shortage of funds. The shutdown occurred in the context of an ongoing dispute between the Palestinian authorities in Gaza and Ramallah on tax exemption for fuel and revenue collection from electricity consumers. This manoeuvre has caused Gaza’s sole electricity plant to cease operating, which was already insufficient to meet the needs of the 1.9 million residents of the Strip.

Moreover, on Monday 12 June, the Government of Israel announced the cut of its electricity supplies to the Gaza Strip by 40 per cent, in line with a request of the Palestinian Authority (PA). The closure of the power plant reduced supply to four hours per day, and if Israel reduces its supply as announced last week, this will cause supply to fall to approximately two hours per day, according to several humanitarian organizations.

The poor supply of electricity and fuel threatens to create an enormous humanitarian crisis, as 80 per cent of Gazans rely on humanitarian aid to survive. Currently, hospitals are working at minimal capacity and the water pumps and wells use has reduced dramatically.  According to UN sources, this situation will immediately be life threatening for 113 new-borns currently in neonatal intensive care units, 100 patients in intensive care and 658 patients requiring bi-weekly haemodialysis. Current water supply stands at only four to eight hours every four or five days, and sanitation services are weak (120 million litres of untreated sewage are discharged into the Mediterranean Sea every day), as stated in the latest OCHA report.

For the abovementioned reasons, we ask that:

  1. Israel, as the occupying power in the OPT, has the primary responsibility for ensuring the wellbeing of the occupied population and, according to the EU-Israel Association Agreement, the government should comply with the democratic clause contained in Article 2. Thus, Israel must act to guarantee that the electricity supply meets the needs of the Gaza population, as regarded in the IV Geneva Convention, no matter the actions requested by the PA.
  2. Following the deplorable declarations of Mr Usama Al-Qawasmi, spokesperson for Fatah, -stating, “we are not targeting the citizens […], we are targeting Hamas which is running the Gaza Strip”– and Hamas threatening that this decision would increase the likelihood of conflict, we call to urge both parties to take responsibilities towards their own people and address their political tensions. It is deplorable that population is used as bargain chips in political disputes.

The situation is unacceptable and the three parties involved (the PA, the Government of Israel and Hamas) must urgently implement sustainable solutions for the power crisis in the Gaza Strip, resuming the supply of fuel and to commit to take no further actions that infringe the fundamental rights of its own citizens under an illegal Israeli blockade that has lasted for a decade.

With the EU having been the first trade partner for Israel and the first donor for the Palestinian Authority, we must stand as the first political player in the region. Therefore, we urge you, HRVP, to use your political dialogue with Israeli and Palestinian leadership to ensure that this unsustainable situation ends. We have considerable power of influence and pressure given the strategic dependence and relationship we have with the parties. Let us make use of it.

As the UN Special Coordinator for the Middle East Peace Process stated on June 20th at the UN Security Council: “We have a collective responsibility to prevent this. […] a duty to avoid a humanitarian catastrophe”.

File .pdf che riporta anche l’elenco dei firmatari

Legalizzazione degli insediamenti illegali in Cisgiordania da parte di Israele

Interrogazione con richiesta di risposta scritta E-000890/2017
alla Commissione
Articolo 130 del regolamento

Neoklis Sylikiotis (GUE/NGL), Martina Anderson (GUE/NGL), Barbara Spinelli (GUE/NGL), Sofia Sakorafa (GUE/NGL), Martina Michels (GUE/NGL), Edouard Martin (S&D), Ángela Vallina (GUE/NGL) e Patrick Le Hyaric (GUE/NGL)

Oggetto: Israele legalizza gli insediamenti illegali in Cisgiordania

Il 6 febbraio la Knesset ha approvato un disegno di legge inaccettabile che “legalizza” retroattivamente 4 000 alloggi illegali di coloni, costruiti su terre palestinesi di proprietà privata. Con questa legge – l’ultima di una serie di iniziative a favore degli insediamenti israeliani nei territori palestinesi occupati – la Knesset ha dato il via libera a un’appropriazione illegale di terreni.

Tale “regolarizzazione” apre la strada al riconoscimento, da parte di Israele, di migliaia di abitazioni di coloni ebrei costruite illegalmente su terre palestinesi di proprietà privata. La legge viola il diritto internazionale e priva i proprietari palestinesi del diritto di utilizzare o possedere i terreni in questione. Si tratta di una violazione dei diritti di proprietà palestinesi e del diritto palestinese all’autodeterminazione.

La creazione di insediamenti da parte di Israele non ha alcuna validità giuridica, costituisce una flagrante violazione del diritto internazionale e rappresenta un grande ostacolo alla visione di due Stati che vivono fianco a fianco in pace e sicurezza.

Quali pressioni eserciterà l’Unione europea sul governo israeliano affinché metta immediatamente fine alla violazione dei diritti umani dei palestinesi e agli insediamenti?

Perché l’Unione europea non ha ancora congelato l’accordo di associazione UE-Israele, vista la costante violazione dell’articolo 2 dello stesso che sancisce il rispetto dei diritti umani?

———-

IT
E-000890/2017
Risposta della Vicepresidente Federica Mogherini
a nome della Commissione

(5.4.2017)

Gli insediamenti israeliani nei territori palestinesi occupati sono illegali ai sensi del diritto internazionale, rappresentano un ostacolo alla pace e minacciano di rendere impossibile una soluzione fondata su due Stati. L’UE si oppone fermamente alla politica di insediamento di Israele e alle azioni intraprese in questo contesto. Tale posizione si riflette nelle conclusioni successive del Consiglio “Affari esteri” ed è in linea con la risoluzione 2334 (2016) del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

La cosiddetta legge sulla regolarizzazione autorizzerebbe a tutti gli effetti la confisca di terreni palestinesi privati nei territori occupati. L’AR/VP ha già espresso le sue preoccupazioni prima dell’adozione della legge da parte della Knesset: davanti al Parlamento europeo il 22 novembre 2016 e in una dichiarazione l’8 dicembre 2016. Subito dopo l’adozione della legge, l’AR/VP ha esortato il governo israeliano ad astenersi dall’attuazione di questa nuova legge (si veda la dichiarazione del 7 febbraio 2017 [1]). L’UE ha ribadito il messaggio dell’AR/VP durante gli incontri con le autorità israeliane a ogni livello.

La sospensione dell’accordo di associazione UE-Israele costituisce un passo che non può essere fatto senza la decisione unanime di tutti gli Stati membri. L’impegno e il dialogo politico sono il modo più efficace attraverso cui manifestare le nostre preoccupazioni. Inoltre, dal 2009 l’UE ha sospeso il consolidamento delle relazioni UE-Israele, in attesa che vengano compiuti progressi nel processo di pace in Medio Oriente e nell’attuazione dei valori condivisi, di cui i diritti umani sono parte essenziale.

[1]  https://eeas.europa.eu/headquarters/headquarters-homepage_it/20104/Statement%20by%20High%20Representative/Vice-President%20Federica%20Mogherini%20on%20the%20%22Regularisation%20Law%22%20adopted%20by%20the%20Israeli%20Knesset

Lettera a Federica Mogherini sulla situazione del giornalista palestinese Mohammed al-Queeq

Di seguito il testo della lettera, sottoscritta anche da Barbara Spinelli

25 February 2016

Dear Ms Mogherini, High Representative of the Union for Foreign Affairs and Security Policy,

We are writing to you, as you are currently holding the position of the High Representative of the European Union for Foreign Affairs and Security Policy/Vice- President of the European Commission, to express our deep and well founded concern for the deteriorating condition of the Palestinian journalist Mohammed al-Queeq, who has today reached his 90th day of hunger strike.

Al-Qeeq, 33, who is a reporter for Al-Majd, was detained by Israeli forces on the 21st of November. He has been on hunger strike since the 25th of that month, initially in protest at his torture upon arrest, and subsequently his sentence of six months imprisonment without trial or charges. He is currently being held in HaEmek hospital in Afula, and while his administrative detention was deemed as suspended by the Israeli supreme court, he still cannot leave the hospital and the Israeli military denied his request to be transferred to a Palestinian hospital in the West Bank. He has maintained his strike and says he will accept treatment only under conditions of freedom in a Palestinian hospital.

Although al-Qeeq has been denied visitors on the grounds of his extremely fragile medical condition, he has been visited by Archbishop Atallah Hanna, who reported that al-Qeeq is in critical condition and suffering from severe pain. ““The imprisoned al-Qeeq is on hunger strike for the freedom that he deserves. He is entitled to return to his family and to his children who are impatiently waiting. We stand in solidarity with him and with all prisoners and detainees in Israeli jails,” said Hanna.

The HaEmek hospital waiting room in Afula has filled with visitors for al- Qeeq, 40 Palestinians are on hunger strike in solidarity with al- Qeeq in front of the hospital, five of whom have been arrested by Israeli forces, and Knesset member Haneen Zoabi was forced to leave the hospital. Doctors have reported that he has now lost much of his hearing and ability to speak; and describe him as being in danger of death at any time, and predict his experiencing medical consequences that will continue after his detention.

Echoing the UN’s call to either charge or release al-Qeeq, we urge you to take immediate and effective action to ensure his safety. We urge you to make a public statement to demand the release of Mohamed Al Qeeq to a facility where he can receive adequate care in a safe environment. Furthermore we look forward to hearing from you what other action you have taken and what the responses have been from the Israeli officials.

Sincerely,

Bart Staes (Greens)
Paloma Lopez Bermejo (GUE/NGL)
Stefan Eck (GUE/NGL)
Molly Scott Cato (Greens)
Barbara Spinelli (GUE/NGL)
Nessa Childers (S&D)
Marie-Christine Vergiat (GUE/NGL)
Miguel Urban Crespo (Podemos)
Neoklis Sylikiotis (GUE/NGL)
Yannick Jadot (Greens)
Ivo Vajgl (Alde)
Gabriele Zimmer (GUE/NGL)
Edouard Martin (S&D)
Stelios Kouloglou (GUE/NGL)
Ernest Urtasun (Greens)
Izaskun Bilbao Barandica (Alde)
Anamaria Gomes (S&D)
Martina Anderson (Sinn Féin)
Matt Carthy (Sinn Féin)
Lynn Boylan (Sinn Féin)
Liadh Ní Riada (Sinn Féin)
Merja Kyllönen (GUE/NGL)
Soraya Post (S&D)
Agnes Jongerius (S&D)
Maria Heubuch (Greens)
Judith Sargentini (Greens)
Monika Vana (Greens)
Claude Rolin (EPP)
Jordi Sebastià (Greens)
Tania Gonzalez Penas (GUE/NGL)
Kostas Chrysogonos (GUE/NGL)
Xabier Benito Ziluaga (GUE/NGL)
Javier Nart (Alde)
Philippe Lamberts (Greens)
Marita Ulvskog (S&D)
José Inácio Faria (Alde)
Brando Benifei (S&D)
Patrick Le Hyaric (GUE/NGL)
Pascal Durand (Greens)
Margrete Auken (Greens)
Jean Lambert (Greens)
Anne-Marie Mineur (GUE/NGL)
Eleonora Forenza (GUE/NGL)
Josu Juaristi Abaunz (GUE/NGL)
Zoltán BALCZÓ (NI)
García Pérez (S&D)
Kati Piri (S&D)
José Bové (Greens)
Marisa Matias (GUE/NGL)
Bodil Valero (Greens)
Keith Taylor (Greens)
Catherine Stihler (S&D)
Beatriz Becerra Basterrechea (Alde)
Julie Ward (S&D)
Jens Nilsson (S&D)
Alfred Sant (S&D)

Lettera a Federica Mogherini sul caso di Khalida Jarrar

Testo della lettera, co-firmata da Barbara Spinelli, inviata il 13 aprile 2015 all’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari europei e la politica di sicurezza:

Honourable High Representative,

Recalling the European Parliament resolution of the 4th of September 2008 calling for “the immediate release of the imprisoned members of the Palestinian Legislative Council,” we urge the EU and its Member States to take immediate action in response to the arrest of PLC member Khalida Jarrar, and to ensure the release of all sixteen detained members of the PLC.

We express our strongest condemnation of the latest Israeli escalation against Palestinian legislators and the suppression of the Palestinian political leadership, namely the arrest of PLC member Khalida Jarrar after a raid on her family home in Ramallah at approximately 01:00.

Jarrar is a prominent feminist and advocate for the rights of Palestinian political prisoners. She is the Palestinian representative on the Council of Europe and chair of the Prisoners’ Committee of the PLC. Jarrar is also Vice President of the Board of Directors of Addameer Prisoner Support and Human Rights Association, a prominent Palestinian human rights NGO, and its former Executive Director.

The arrest of Jarrar comes approximately seven months after an Israeli military court attempted to forcibly transfer her on August 20, 2014, from her home in Ramallah to Jericho.

Jarrar set up a protest tent in the PLC headquarters and received widespread international and Palestinian support, causing the order to be shortened to one month and therefore quashed on September 16, 2014. This attempt to forcibly transfer a person under occupation is a violation of the Fourth Geneva Convention, and was widely condemned around the world, including by Members of European Parliament.

Jarrar is also a member of the Palestinian national follow-up commission for the International Criminal Court. The arrest of Jarrar is a clearly political attempt to undermine Palestinian leadership and thwart Palestinian attempts to pursue justice in the International Criminal Court.

The arrest of Jarrar and other Members of the Palestinian Parliament and their transfer from occupied territory into Israel are not only in violation of Articles 49 and 76 of the Fourth Geneva Convention but also blatantly violate international conventions and practices regarding the immunity of elected officials. Palestinian parliamentarians are frequently held in administrative detention without charge or trial, or tried in military courts that are mechanisms to produce a political result and in no way meet standards for a fair trial.

We call for the immediate release of Jarrar and all detained Palestinian parliamentarians and an immediate and definitive halt of all measures targeting our Palestinian Parliamentary colleagues, including arrests and expulsions from Jerusalem.

We urge you to use your position to garner support among institutions of the EU and its Member States and work to persuade them to take meaningful action to place significant pressure on Israel to ensure the release of Jarrar and Palestinian political prisoners, including all 16 detained members of the Palestinian Legislative Council.

Yours sincerely,

1. Martina Anderson (GUE/NGL)
2. Lynn Boylan (GUE/NGL)
3. Liadh Ní Riada (GUE/NGL)
4. Matt Carthy (GUE/NGL)
5. Neoklis Sylikiotis (GUE/NGL)
6. Patrick Le Hyaric (GUE/NGL)
7. Angela Vallina (GUE/NGL)
8. Marisa Matias (GUE/NGL)
9. Fabio De Masi (GUE/NGL)
10. Anne-Marie Mineur (GUE/NGL)
11. Malin Bjork (GUE/NGL)
12. Gabi Zimmer (GUE/NGL)
13. Dimitris Papadimoulis (GUE/NGL)
14. Marina Albiol Guzman (GUE/NGL)
15. Iosu Juaristi (GUE/NGL)
16. Barbara Spinelli (GUE/NGL)
17. Kostas Chrysogonos (GUE/NGL)
18. Lidia Sendra (GUE/NGL)
19. Paloma Lopez (GUE/NGL)
20. Joao Ferreira (GUE/NGL)
21. Ines Zuber (GUE/NGL)
22. Miguel Viegas (GUE/NGL)
23. Margrete Auken (Greens/EFA)
24. Ivo Vajgl (ALDE)
25. Josep-Maria Terricabras (Greens/EFA)
26. Javier Couso Permuy (GUE/NGL)
27. Marita Ulvskog (S&D)
28. Tanja Fajon (S&D)
29. Molly Scott Cato (Greens/EFA)
30. Javier Lopez (S&D)
31. Judith Sargentini (Greens/EFA)
32. Manolis Glezos (GUE/NGL)
33. Nessa Childers (S&D)
34. Izaskun Bilbao Barandica (ALDE)
35. Younous Omarjee (GUE/NGL)
36. Bart Staes (Greens/EFA)
37. Eleonora Forenza (GUE/NGL)
38. Takis Hadjigeorgiou (GUE/NGL)
39. Curzio Maltese (GUE/NGL)
40. Maria Dolores Lola Sanchez Caldentey (GUE/NGL)
41. Helmut Scholz (GUE/NGL)
42. Sofia Sakorafa (GUE/NGL)
43. Jordi Sebastia (Greens/EFA)
44. Alfred Sant (S&D)
45. Klaus Buchner (Greens/EFA)
46. Edouard Martin (S&D)
47. Kati Piri (S&D)
48. Kostadinka Kuneva (GUE/NGL)
49. Merja Kyllonen (GUE/NGL)
50. Brando Benifei (S&D)
51. Keith Taylor (Greens/EFA)
52. Martina Michels (GUE/NGL)
53. Jill Evans (Greens/EFA)
54. Norbert Neuser (S&D)
55. Luke Ming Flanagan (GUE/NGL)
56. Miguel Urbán Crespo (GUE/NGL)
57. Alyn Smith (Greens/EFA)
58. Pablo Iglesias (GUE/NGL)

La lettera in formato .pdf