Meloni, l’album di famiglia

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 29 ottobre 2022

Fortuna ha voluto che nei dibattiti sulla fiducia a Giorgia Meloni, mercoledì al Senato, intervenisse per il M5S Roberto Scarpinato, ex magistrato, per parlare non tanto del ventennio fascista, ma della nostra storia recentissima e di quel che il neo-fascismo ha detto e fatto per decenni dopo l’avvento della Repubblica, in combutta con segmenti oscuri dello Stato e parte dei poteri forti.

L’ex magistrato ha ricordato le trame nere, la cui esistenza non è oppugnabile, e il ruolo svolto dai neofascisti nella strategia della tensione (strage di Piazza Fontana, di Piazza della Loggia, del treno Italicus, di Bologna). Ha connesso il presente col passato tutto intero. Ha ricomposto una biografia della nazione che per due giorni, in Parlamento, era stata presentata da Meloni come storia a pezzi, simile alla guerra mondiale a pezzi descritta da Papa Francesco.

Si può capire l’ira di Meloni, che s’esprime volentieri col linguaggio urlante del corpo (movimento della bocca che scaglia improperi, sguardo fosco). Lo squarcio inferto al velo nel quale s’avvolge l’ha visibilmente seccata. Tanto è bastato perché il microfono venisse spento nell’attimo in cui Scarpinato, evocando i legami fra destre eversive e mafia, pronunciava il nome di Marcello Dell’Utri. Abbiamo notato stizza nei banchi di destra, silenzio nel Pd ancora draghiano, applausi solo di 5 Stelle e Giuseppe Conte, che oggi appare l’unico vero leader dell’opposizione. La storia a pezzetti si è così scontrata, per qualche minuto, con un discorso di verità. Accadde qualcosa di simile quando Rossana Rossanda, il 28 marzo 1978, nel pieno del sequestro Moro, lanciò un macigno nello stagno del Pci: “In verità, chiunque sia stato comunista negli anni 50 riconosce di colpo il nuovo linguaggio delle Br. Sembra di sfogliare l’album di famiglia”. Ancora aspettiamo chi, a destra, sfogli il proprio album di famiglia e smetta di tacere sul neofascismo postbellico nell’ora in cui quest’ultimo si presenta – parla ancora Scarpinato – come “l’ultimo travestimento che nella patria del Gattopardo consente al vecchio di celarsi dietro le maschere del nuovo, creando l’illusione del cambiamento”. Da quando ha giurato sulla Costituzione, Meloni è circondata da sorrisi e acclamazioni fin qui riservati a Draghi (è impressionante il trasformismo di una stampa dimentica del proprio mestiere di cane da guardia). I sorrisi di Mattarella e Draghi innanzitutto, talmente larghi da divenire sospetti (perché è donna? giovane? underdog “meritevole”?). “Una cosa emotivamente un po’ impattante” è stato per lei il salire le altrui scale a Palazzo Chigi, al termine delle quali l’attendeva raggiante il predecessore, insigne rappresentante in Occidente dei poteri forti. Sono emotivamente impattati anche i commentatori: ecco infine una donna, addirittura una “fuoriclasse”, modello di passione mescolata a competenza, e magari il Pd ne avesse una così. I Gattopardi s’affollano sulla scena e dietro le quinte.

Intanto il capo di governo annuncia false “rivoluzioni copernicane”, quasi tutte nel segno della continuità: in politica economica (condoni, indulgenza verso gli evasori), sull’energia, l’ambiente, il lavoro (strali contro il Reddito di cittadinanza). E in politica estera – fedeltà atlantica incondizionata nella guerra in Ucraina, attacchi alla Cina, sostegno ai maxi-profitti delle industrie militari – tanto da suscitare il fondato sgomento di Conte: “Ma non è che alla fine l’agenda Draghi, presidente Meloni, la vuol scrivere Lei?”. È fondato lo sgomento, perché in filigrana già s’intravedono futuri possibili: crisi della coalizione di destra, alleanze con i draghiani Renzi e Calenda.

Non che siano scomparsi dubbi e sospetti sul passato di Fratelli d’Italia, anzi: fioriscono, i dubbi, sotto forma di copiose produzioni di libri su Mussolini e Marcia su Roma, nel caso li avessimo scordati. Per la verità non abbiamo dimenticato, non c’è bisogno che nei talk ci ripetano un giorno sì uno no (Sapevatelo su Rieducational Channel!) che la Marcia fu un abominio. Si sta bene quando la storia di una nazione o un individuo si riduce a una serie di fotogrammi rimaneggiati – prima il Risorgimento, poi la Marcia e le leggi razziali, poi l’America che ci libera e resta unica perenne stella polare visto che antifascismo e Resistenza non sono nominati, infine la palingenesi con il duetto La Russa-Liliana Segre accampati sugli schermi che chiudono il cerchio. È come se tra la fine della Repubblica di Salò e oggi ci fosse il nulla, e non: le congiure e i tentativi di colpo di Stato, Portella della Ginestra, assassinio di Mattei, Gladio, Piano di rinascita democratica della P2, assassinio di Moro, stragi di mafia, ecc. Quanto all’antifascismo, Meloni l’ha evocato solo per ricordare gli “anni più bui della criminalizzazione e della violenza politica, quando nel nome dell’antifascismo militante, ragazzi innocenti venivano uccisi a colpi di chiave inglese”. Già, questo fu l’antifascismo, non ci avevamo pensato: ammazzamenti con chiavi inglesi. Non c’è da stupirsi se questa riscrittura della storia, che implicitamente riconosce solo agli Stati Uniti il merito di Liberazione dai nostri mostri, sia perfettamente funzionale ai dogmi neoliberisti e neocon, in continuità gattopardesca col governo precedente e il volere dei mercati. Anche questo governo rallenterà le trasformazioni ecologiche, e per questo incorpora ex ministri come Cingolani, che oltre al nucleare difende il fossile, il carbone e il gas liquido Usa da comprare a caro prezzo (esentandolo da rigidi tetti del prezzo: mica è gas russo!) proprio quando il rapporto Onu pubblicato mercoledì certifica che il riscaldamento terrestre sta toccando il punto di non ritorno. Impossibile che il pianeta fronteggi un simile disastro quando infuria una guerra per procura tra Occidente e Russia e s’infiamma il conflitto Usa-Cina.

Come neoliberista/illiberale, infine, il capo del governo teorizza il laissez-faire, le deregolamentazioni, e una democrazia non più “interloquente ma decidente” (“Il motto di questo governo sarà: ‘Non disturbare chi vuole fare’”). Motto plurisecolare, che Keynes criticò fin dal 1926: “(Il laissez-faire) presuppone che non vi sia grazia né protezione per quanti indirizzino il loro capitale o il loro lavoro nella direzione sbagliata. È un metodo che porta verso l’alto i ricercatori di guadagno a cui arride il successo, grazie a una spietata lotta per la sopravvivenza, attraverso la quale si seleziona il più efficiente per mezzo del fallimento del meno efficiente. (…) Se lo scopo della vita è quello di cogliere le foglie dagli alberi fino alla massima altezza possibile, il modo più facile di raggiungere questo scopo è di lasciare che le giraffe dal collo più lungo facciano morire di fame quelle dal collo più corto”. È passato quasi un secolo e ancora c’è – da Meloni a Renzi a Calenda – chi difende le giraffe con collo più alto.

La guerra contro i poveri è cominciata e la chiamano Ritorno della Politica e Meritocrazia.

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I sonnambuli dell’atomica

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 12 ottobre 2022

Circolano molte formule sconsiderate sul conflitto in Ucraina, da qualche tempo. “Siamo già nella terza guerra mondiale”, annuncia qualche commentatore con aria compiaciuta più che inquieta.

“L’Armageddon è possibile”, constata Biden, per poi ravvedersi e domandarsi spaventato quale possa essere la “rampa d’uscita” che “permetta a Putin di non perdere né la faccia né il potere”. Altro mantra tutt’altro che rincuorante, specie per noi europei: “L’uso delle armi tattiche nel teatro di battaglia è un opzione non paragonabile all’uso di quelle strategiche, devastante per il pianeta”. Il 23 agosto scorso Liz Truss, allora ministro degli Esteri, si disse “pronta a impiegare” le atomiche tattiche in difesa di Kiev (“con occhi smorti e un’espressione priva di emozioni”, osservò il «Guardian»), ben prima che Mosca accennasse alle proprie armi non convenzionali.

Minimizzazione dei danni già inferti dalla guerra; banalizzazione dell’atomica; perdita di memoria sull’uso che Washington già ne ha fatto, in Giappone nel ’45: questi gli elementi dominanti nel discorso pubblico, diviso fra oltranzisti e spaventati a Washington come a Mosca e Kiev. L’ultima parola è spettata a Zelensky: il 4 ottobre –due giorni dopo l’appello del Papa a negoziare subito– ha vietato per decreto di trattare con Putin. Bergoglio “foraggia i nostri sensi di colpa” perché “poco occidentale”, scrive il direttore del «Foglio».

Si scivolò barcollando come sonnambuli nell’inedito assoluto che fu la guerra del ’14-’18, scrive lo storico Christopher Clark. E così oggi, ma con qualche variante: stavolta è in gioco il pianeta, che già sta messo male per i danni crescenti che gli stiamo infliggendo, grazie al revival del combustibile fossile, del carbone, all’acquisto di gas naturale liquefatto Usa (detto anche “killer del clima”) e al moltiplicarsi di centrali nucleari che i nostri governi s’ostinano a definire innocue (innocue come Three Mile Island, Cernobyl, Fukushima, ecc.).

Altra variante rispetto al 1914: oggi sembra esserci del metodo nel barcollare sonnambolico. È come se l’escalation e la banalizzazione dell’atomica fossero un’esercitazione consapevole, come lo furono Hiroshima e Nagasaki, usate non già per vincere il Giappone – era già sconfitto – ma per “testare” la bomba sulle popolazioni civili. Infatti da giorni si parla di test nucleari, quasi fossero un rischio da calcolare.

La sperimentazione concepita dai sonnambuli potrebbe avere tre obiettivi. Primo: si tratterebbe di separare meglio le atomiche tattiche (impiegabili nel campo di battaglia) e strategiche (missili con bersagli a lunga distanza). Il campo di battaglia è chiaro: è l’Ucraina dunque l’Europa, non gli Stati Uniti. Il generale Fabio Mini ha spiegato su questo giornale come le odierne armi tattiche siano in grado di distruggere un’area che comprende 10 città (sono ben più potenti della bomba di Hiroshima, di 15 kilotoni. Quelle moderne oscillano fra 0,3 e 170 kilotoni). Chi dice ancora che i nostri interessi sono identici a quelli statunitensi o dorme in piedi o mente sapendo di mentire.

In secondo luogo si tratta di mettere in questione il tabù che fonda la deterrenza. In teoria il ricorso all’atomica è impossibile: chi volesse usarla per primo viene dissuaso perché sa che verrà a sua volta annientato da eguale e quasi simultanea potenza. Il paradosso della deterrenza (il catch-22 dell’atomica) consiste tuttavia nel fatto che la tua capacità di attacco deve essere “credibile”: la bomba è al tempo stesso usabile e non usabile. Ecco perché Putin dice che la sua minaccia non è un bluff. Ecco perché l’atomica tattica usata nel teatro di battaglia è banalizzata, non prefigurando ancora l’Armageddon. La dottrina che vieta il primo colpo fa acqua da tempo, sia a Washington sia a Mosca.

Il terzo test concerne le medie potenze che divenute nucleari si trasformano in “santuari”, cioè inviolabili, grazie alla deterrenza. L’obiettivo è l’indebolimento selettivo del concetto di santuario. Stati come la Corea del Nord o l’Iran (insidiati sia dagli Usa sia dall’atomica israeliana) si sentono talmente minacciati dalle guerre tendenti a cambi di regime che finiscono col desiderare una sola cosa: divenire santuari. Il test metterebbe in questione tale desiderio.

Difficile avviare un negoziato di pace senza capire che nell’era nucleare è improponibile il paragone con la guerra totale contro Hitler. La linea oltranzista in Usa, Russia, Ucraina, Europa non tiene conto che l’atomica cambia tutto: non si può tirare la corda a meno di non volere il suicidio parziale e/o totale. Bisogna trattare proprio ora che infuriano i bombardamenti se non si vuole l’Armageddon, come chiesto dal Papa, da politici e movimenti che indicono manifestazioni per la pace e da gran parte dell’Africa, dell’America Latina e dell’Asia.

Per ottenere almeno una tregua non si potrà evitare di riesaminare le radici della rottura russa con l’Europa (probabile scopo degli Usa), e riconoscere gli errori occidentali senza nulla togliere alle massime colpe del Cremlino. Bisognerà bandire le guerre di regime change, perché è ormai accertato che i regimi destabilizzati faranno di tutto per dotarsi dell’atomica e divenire santuari. Non si può continuare a ignorare che se la Russia ha invaso l’Ucraina (e prima la Georgia) è anche perché Nato e Usa “abbaiano” da anni alle sue porte, avendo esteso l’Alleanza a Est e violato le promesse fatte a Gorbachev nel ’91.

Soprattutto, occorrerà dire a Zelensky che abbiamo voce in capitolo visto che riempiamo l’Ucraina di armi e di miliardi, e indicargli i limiti da non oltrepassare o già oltrepassati (uccisione della figlia di Dugin, distruzione del ponte verso la Crimea). Ha oltrepassato la linea rossa anche il 6 ottobre, quando ha auspicato “attacchi preventivi della Nato (preventive strikes) per vanificare qualsiasi ricorso russo alle atomiche”.

Purtroppo la Nato e Washington si fingono ciechi, tanto da prospettare l’installazione in Polonia delle basi nucleari chieste da Varsavia, ai confini con Bielorussia e l’enclave russa di Kaliningrad, sul modello della “condivisione nucleare” instaurata nella guerra fredda con 5 Paesi europei tra cui l’Italia. Né sembrano aver appreso molto della crisi di Cuba del ’62. Allora il negoziato fra Kennedy e Kruscev durò appena 35 giorni, e si concluse con lo smantellamento dei missili sovietici a Cuba e di basi Usa in Turchia, e la creazione di un canale di comunicazione permanente Usa-Urss (la hotline o Telefono Rosso).

Oggi si va al rilento e la hotline è accesa ma non sempre. Si grida imbambolati “Non ci faremo intimidire!”, come se lo spavento davanti al rischio atomico non fosse, oggi, la sola rampa d’uscita chiaroveggente.

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