di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 4 dicembre 2022
È abbastanza incomprensibile, perché illogica, l’euforia sprigionata per qualche ora, mercoledì, dai colloqui Biden-Macron a Washington.
Si è parlato di mano tesa a Putin; di una conferenza di pace imminente, fissata per il 13 dicembre a Parigi e destinata in origine al sostegno di Kiev. Si è ipotizzato un allineamento di Biden a Macron, più incline alla diplomazia e portavoce anche se timido dei malumori popolari in un’Europa che paga gli effetti economico-sociali della guerra ben più degli Stati Uniti. Perfino nel governo italiano, che di trattative non discute mai – né con Draghi né con Meloni – si comincia a sussurrare, per tema di figurare come Ultimo Mohicano, che pace o tregua sarebbero auspicabili.
Basta ricordare alcune circostanze per capire che si è trattato, almeno per ora, di un fenomenale bluff. Da mesi esistono sotterranee trattative russo-statunitensi, ed è vero che le guerre si concludono spesso con una finale escalation, come in Vietnam. Ma resta il fatto che nelle stesse ore in cui Macron incontrava Biden, Washington annunciava nuovi invii di armi e ripeteva che Mosca dovrà rispondere di crimini di guerra in tribunali internazionali. La stessa cosa diceva Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Ue, mentre il Parlamento europeo accusava Mosca, il 6 ottobre, di “sponsorizzare il terrorismo” (unici italiani contrari i 5 Stelle e tre eurodeputati Pd). Intanto Roma e Berlino approvavano nuovi invii di armi a Kiev: 50 carri antiaerei Gepard la Germania, dell’Italia non sappiamo perché vige scandalosamente il segreto.
Ma soprattutto un dato avrebbe dovuto mitigare l’inappropriata euforia. Appena due giorni prima del viaggio di Macron, il 29 novembre, i ministri degli esteri Nato riuniti a Bucarest avevano emesso un comunicato in cui si “riaffermano le decisioni prese nel 2008 a Bucarest, insieme a tutte le susseguenti decisioni concernenti Georgia e Ucraina” (“Porte Aperte” Nato ai due paesi). Il 25 novembre, il segretario generale della Nato Stoltenberg giudicava “irricevibile il veto russo” sugli allargamenti. Non sono stati sufficienti quindici anni di messe in guardia del Cremlino, più otto anni di conflitto in Donbass, più quasi nove mesi di guerra micidiale in Ucraina, per aprire un po’ le menti di Washington, della Nato, dell’Europa. Per capire che almeno quest’ostacolo a un ordine pacifico paneuropeo andava imperativamente rimosso.
Incomprensibile e illogico è appunto questo: l’illusione, la cocciuta coazione a ripetere che spinge il fronte occidentale a infrangere sistematicamente, con qualche effimero ravvedimento, quella che Putin ha definito invalicabile linea rossa sin dalla Conferenza sulla sicurezza del 2007 a Monaco. Nel vertice Nato di novembre tutti hanno sottoscritto il comunicato, Parigi compresa: dov’è il disallineamento di Macron?
Non meno illogica è la volontà Usa – dunque atlantica, dunque europea – di lasciare che sia Kiev a decidere l’ora del negoziato. Difficile “parlare con Putin”, se lo ritieni uno sponsor del terrorismo e se lasci che a decidere sia Zelensky, che oggi non può più fare marcia indietro senza perdere la faccia e forse la vita. Quanto al processo contro Mosca, l’accusa di violazione del diritto internazionale è giustificata ma a formularla non possono essere Washington o la Nato o alcuni Stati europei, colpevoli di ben più numerose violazioni in una lunghissima serie di guerre, da quella di Corea a quelle in Afghanistan, Iraq, Libia.
Gli Stati Uniti non hanno aderito alla Corte Penale, assieme a Russia e Cina oltre a Israele e Sudan. Washington ha auspicato l’intervento della Corte per Belgrado e Libia, e si è scatenata contro la domanda palestinese di processare l’apartheid israeliano nei territori occupati. Ma gli Stati Uniti, che hanno centinaia di basi militari sulla terra, vanno schermati da qualsiasi incriminazione. È il privilegio di una potenza il cui solo scopo è il mantenimento dell’ordine unipolare (detto anche “ordine basato sulle regole”, tutte nordamericane) che Washington ha riservato a sé stessa dopo la prima guerra fredda. L’Italia ne sa qualcosa, dopo la strage del Cermis nel 1998. Nell’ordine unipolare c’è un unico padrone e il padrone non si processa. Nemmeno il dissenso di giornalisti investigatori è ammesso: Julian Assange ha rivelato crimini commessi da Stati Uniti e alleati in Afghanistan e Iraq, e il giorno in cui sarà estradato negli Usa rischia una pena di 175 anni.
La verità è che c’è del metodo, nella marcata volontà d’ignorare le linee rosse indicate da Mosca. Non è per patologica cocciutaggine che si nega al Cremlino il diritto a spazi pacifici e neutrali ai suoi confini ma perché si ritiene che tali spazi appartengono alla sfera d’interesse Nato, quasi che Ucraina, Georgia o Moldavia fossero paragonabili a Cuba, immerse nell’Atlantico. Per questo la guerra ha da esser lunga e per procura, in modo da sfibrare la Russia in vista dello scontro giudicato prioritario: quello con la Cina. Con un alleato russo sfibrato, Pechino sarà meno forte.
Il problema è che a patirne è l’Ucraina. Il paese sta morendo sotto i nostri occhi, ridotto a un moncone privato dei territori più produttivi a Sud-Est, e a noi sta evidentemente bene così. Sta morendo perché l’invasore ha violato la sua sovranità ma anche a causa di un nazionalismo che Bush senior denunciò fin dal 1991 a Kiev, commentando la fine dell’Urss e l’indipendenza ucraina: “Non appoggeremo chi aspira all’indipendenza per sostituire una remota tirannia con un dispotismo locale. Non aiuteremo chi promuove un nazionalismo suicida fondato sull’odio razziale” (sia detto per inciso: anche la Lettonia che è nell’UE attua politiche segregazioniste verso il 48% dei cittadini, che sono di etnia russa). La guerra di Kiev e delle milizie naziste contro i russofoni del Donbass, iniziata nel 2014, convalida i timori di Bush sr, oggi dimenticato. L’inverno senza elettricità sarà atroce per gli ucraini, e noi guardiamo rapiti l’eroe che stramazza.
Chi esce spezzato dalla tragedia è l’UE: impoverita dalle sanzioni a Mosca, egemonizzata da un Est che ancora regola i conti (Ungheria esclusa) con l’ex Urss. Ursula von der Leyen ama indossare completini colorati di ucraino giallo-blu, sbaglia il numero dei morti ucraini, reclama sempre più sanzioni. Macron prova a differenziarsi ma è debole in patria e nell’UE.
Il governo italiano è allineato a Washington fin dai tempi di Draghi, manda armi ma non ha peso, affetto com’è da afonia. È ancora più afono con Meloni, perché ogni discordanza dalla Nato è fatale per l’estrema destra. Aveva un’occasione con Draghi, visto il prestigio. L’ha persa.
E forse nell’UE siamo uno Stato tra i più torbidi: perché l’unico a chiedere trattative, trasparenza, dibattiti parlamentari chiarificatori su guerra e pace è Giuseppe Conte, leader di un partito cronicamente etichettato come filorusso e filocinese e che tutti – a destra, al centro, nell’ex sinistra, nei media dominanti – desiderano delegittimare, senza riuscirci.
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