di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 18 giugno 2021
Quando illustrò in Parlamento il suo programma di governo, a febbraio, Mario Draghi non disse nulla su politica estera e difesa, ma si limitò a proclamarsi “convintamente europeista e atlantista”. Era un po’ di tempo che i due aggettivi non s’accoppiavano con tanta disinvoltura, e d’un tratto ecco che l’equivalenza veniva ribadita quasi fosse legge di natura.
Essere europei significa automaticamente essere più attivi nella Nato, e viceversa. Nessun bisogno di spiegare il perché di quest’apodittica certezza. Basta dire che Trump è finito e che Biden ha iniziato la felice retromarcia.
In realtà Biden non ha cambiato marcia nei rapporti con Putin, ma incontrando quest’ultimo a Ginevra ha solo evitato il surriscaldamento delle tensioni. Nei giorni precedenti in Cornovaglia i governi Nato avevano in effetti chiarito quel che nel discorso di Draghi restava velato: la guerra fredda ricomincia, e la Nato ha di nuovo i nemici che le servono per vivere e operare. Ne ha addirittura due: Cina e Russia. Ambedue sono dichiarati “minacce per la sicurezza dell’Occidente”. Ambedue svolgono il ruolo, prezioso per le industrie militari-industriali, di “nemici esistenziali” o “sistemici”.
L’euforia è di rigore, non solo nei governi ma anche – in Italia – nei giornali che applaudono l’armonia atlantica ritrovata (eufemismo per egemonia statunitense). Rilanciare la Nato vuol dire riaccendere gli animi, giustificare guerre che hanno ucciso civili, non imparare alcunché dai fallimenti in Afghanistan, Iraq, Somalia, Siria, Libia, e per quanto riguarda Parigi nel Sahel e nel Sahara. All’inizio di giugno l’operazione francese Barkhane, cui si erano associati nel 2018 alcuni Paesi Ue, è stata sospesa.
Restano da indagare gli impegni di riarmo assunti nell’epoca Conte, ma di certo il successore ha impresso una svolta nella politica estera italiana. Si moltiplicano le critiche di Palazzo Chigi alla strategia cinese dei governi Conte: nel mirino l’adesione alla Via della Seta, invisa negli ambienti Nato. I tecnici più fedeli a Draghi incitano a un indurimento dei rapporti con Mosca, anche quando non hanno alcuna esperienza diplomatica (è il caso del banchiere Franco Bernabè, intervistato a Otto e Mezzo). Completano l’opera la promessa di ulteriori aiuti alle guardie costiere libiche, e l’appoggio incondizionato a quella che Biden chiama la “sacra obbligazione” dell’Alleanza atlantica (alleanza che “consente agli Stati Uniti di avere un posto a tavola anche quando si tratta di affari europei”, scrive opportunamente Sergio Romano sul «Corriere»).
Per la verità è da tempo che i governi dell’Unione europea partecipano alla resurrezione dell’Alleanza, del tutto anomala se si considera che la Nato nacque per contenere l’Urss e che quest’ultima s’è dissolta nel 1991 assieme al Patto di Varsavia. Nei Trattati è scritto che l’Ue “promuove la pace” (articolo 3), ma il rappresentante della sua politica estera Josep Borrell ha detto nel 2020 che “per silenziare i fucili abbiamo sfortunatamente bisogno di fucili […] La sicurezza dei nostri amici africani è la nostra sicurezza”.
Biden ha riscoperto la centralità strategico-militare dell’Europa e quel che le chiede è chiaro: resistenza all’espansione commerciale o militare di Cina e Russia; allineamento incondizionato a future iniziative statunitensi di regime change a Est dell’Unione (Ucraina, Bielorussia, Georgia); partecipazione a missioni antiterrorismo dopo il ritiro dall’Afghanistan. Draghi sembra deciso ad assecondare la nuova guerra fredda, dopo aver appeso nel vuoto i suoi due “pilastri”: europeismo e atlantismo.
Lo strumento cui l’Ue ricorrerà per contribuire a queste strategie di allineamento si chiama European Peace Facility (EPF), adottato il 22 marzo dal Consiglio europeo. L’investimento iniziale ammonta a 5 miliardi di euro. Si tratta, scrive Michael Peel sul «Financial Times», dell’“espansione più significativa sin qui operata negli sforzi europei di proiettare hard power e influenzare i conflitti alle frontiere dell’Est e in Africa”.
I giornali e i notiziari tv non possiedono neanche un grammo di memoria e di prudenza politica, dunque esultano davanti alla doppia resurrezione: quella della Nato, data per “cerebralmente morta” da Macron nel 2019, e quella dei nemici “sistemici” di cui la Nato ha bisogno per continuare a esistere, cioè Russia e Cina. Per adattarsi a quest’ennesima restaurazione il Movimento 5 Stelle che in passato aveva criticato la Nato si ravvede, e quasi quotidianamente si proclama europeista e atlantista.
Eppure non era sempre questo il clima, quando finì la prima guerra fredda. Nel 1998, 10 senatori Democratici e 9 Repubblicani americani si opposero ai primi allargamenti della Nato a est dell’Europa. Washington e Berlino avevano promesso a Gorbaciov di non estendere l’Alleanza, in cambio della pacifica riunificazione tedesca, ma i patti furono presto violati. Fu la prima goccia di veleno iniettata nei nostri rapporti con il Cremlino. Un veleno che oggi non serve ad altro che a rafforzare l’alleanza Mosca-Pechino.
Russia e Cina sono osteggiate per diversi motivi: la Cina è la seconda potenza economico-finanziaria del pianeta, la Russia ha perfezionato i propri armamenti dopo l’espulsione dal G-8 e l’interventismo occidentale ai propri confini, in Georgia e Ucraina. A ciò si aggiunga la selettiva offensiva Nato sui diritti umani (la persecuzione dei musulmani Uiguri in Cina è un crimine, ma non lo è quella dei musulmani nel Kashmir indiano). Russia e Cina sono inoltre accusate di interferire nei processi democratici – elezioni Usa, Brexit – come se la vittoria di Trump e dei Brexiteers fosse colpa di hacker russi e cinesi e non frutto inevitabile del declino delle democrazie e di precisi fallimenti dell’Ue.
I nemici esistenziali servono a molte cose, anche se promettono più insicurezza per tutti. Tra il 1989 e il 1990, Georgij Arbatov, consigliere diplomatico di molti governi sovietici, ci minacciò: “Vi faremo, a voi occidentali, la cosa peggiore che si possa fare a un avversario: vi toglieremo il nemico”. Aveva visto giusto. Il complesso militare-industriale in Europa e Stati Uniti boccheggiò, disperò. Alcuni governi – tra cui il Conte-2 – trovarono il coraggio di smettere l’invio di armi all’Arabia Saudita, per frenare la guerra in Yemen. Ma la parentesi di “morte cerebrale” non era tollerabile per la Nato e per Washington. I popoli ovviamente non vengono consultati, visto che i cosiddetti populisti sono per ora neutralizzati, almeno in Italia.
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