di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 9 ottobre 2021
Lo ha proclamato Carlo Bonomi, pochi giorni prima delle amministrative, ed è probabile ne sia ancor più convinto dopo il primo turno di lunedì: questo non è tempo di sperimentazioni, di politiche del possibile, di populismi e sovranismi. Tanto meno di rivoluzioni e assalti ai Palazzi del potere.
Urge – ha specificato nell’ultima assemblea di Confindustria orchestrando la smaniosa ovazione che ha incensato Mario Draghi prima ancora che questi aprisse bocca – “un terzo tipo di uomini: gli Uomini della Necessità”.
Nel regno della Necessità la storia si chiude, la scelta è obbligata, lo scrutinio universale è un esercizio irrilevante, le astensioni al voto diventano addirittura una risorsa (come scrive Travaglio), e il tecnico sostituisce il politico perché l’obiettivo non è di scegliere tra linee diverse su cui il popolo si è espresso ma di applicare l’unica legge (economica, finanziaria, climatica ecc.) rivelatasi universalmente valida. Rigore e produttività, crescita e stabilità: nel quadrangolo perfetto indicato da Bonomi non figurano né la giustizia sociale né il superamento delle disuguaglianze abnormemente dilatate, non sia mai detto che dal quadrangolo si passi a geometrie più complesse e gradite.
La sovranità è un capitolo a parte: solo porsi la questione di chi ha il potere di decidere e a quale livello (nazionale, europeo, Alleanza Atlantica su guerra e pace) ti tramuta in idra sovranista. Quando sono interrogati, gli uomini della Necessità ammiccano benevoli, assicurano che naturalmente ci pensano tanto: alla giustizia sociale, ai costi sociali della transizione ecologica. Ma dirlo spontaneamente meglio no, e farlo non sia mai. Quanto alla sovranità, è materia incandescente che non si nomina. “Un ange passe”, dicono i francesi: pare passi un angelo muto, ma è imbarazzo d’un attimo.
Nasce così la vulgata secondo cui le amministrative avrebbero sgominato populisti e sovranisti: due termini imprecisi escogitati per screditare chiunque si prefigga di dar voce e rappresentanza alle classi popolari, al loro scontento, alla loro rabbia, e soprattutto alle loro attese; o si proponga di sollevare il problema della sovranità, cruciale in tempi di globalizzazione, pandemie, disastri ambientali. C’è molto compiacimento nella cerimonia nera che dichiara moribondi i Cinque Stelle e tramontato il sovranismo inaccuratamente usato da Salvini, anche se Fratelli d’Italia sta prendendo il posto della Lega.
È un compiacimento chimerico, come sempre accade quando si proclama la prevalenza del regno della necessità su quello della libertà. Non si calcolano i milioni di cittadini che avevano puntato sul Possibile – l’assalto al Palazzo evocato da Giuseppe Conte, “che inizialmente non si può fare col fioretto”– e che non smettono di immaginare scommesse anche quando disertano la gara.
Gli astensionisti oltrepassano nelle grandi metropoli il 50%, Bologna esclusa: sono soprattutto elettori delle periferie, delle zone colpite dalle crisi del 2008 e del Covid. Stando all’Istituto Cattaneo sono voti sottratti non tanto a Cinque Stelle e al Sud, stavolta, ma al Nord e alla Lega, che subisce un’emorragia compensata a stento da Giorgia Meloni (un’eccezione è il Veneto di Zaia, sempre in disaccordo con Salvini sul Covid). Gli astensionisti sono tutti coloro che non si sentono rappresentati nel quadrangolo di Bonomi. Chiedevano giustizia sociale e non l’ottengono. Chiedevano forze politiche che osassero il cambiamento, e per questo avevano votato Cinque Stelle nel 2018. Si sono trovati con partiti afoni, dediti alla schiavitù volontaria, messi ai margini come inutili rimasugli dall’Uomo della Necessità che è l’attuale Presidente del Consiglio attorniato da una cerchia di tecnici/consiglieri e sorretto – tramite il ministro del Tesoro Daniele Franco – dalla Banca d’Italia (divenuta, non improvvisamente, attore politico italiano di primo piano).
Draghi non aspirava forse a tanto. Si limita a contemplare le peripezie così spesso suicide dei partiti. Nel frattempo ha fatto capire che le decisioni intende prenderle lui, in una maggioranza spuria, presumendo che i vari partiti e specie i più riottosi si sbriciolino. A forza di ribadire tale intenzione, e di darle l’approssimativo nome di pragmatismo (o realismo, o moderatismo), l’elettore lo ha preso sul serio e ha concluso che il suffragio universale è roba che non vale la fatica, almeno per ora.
Il Partito Democratico di Enrico Letta ha avuto buoni risultati, soprattutto a Napoli e Bologna. A Roma e Torino si vedrà. A Torino è sceso rispetto alle elezioni europee (16,4% invece di 19,8%), e il suo candidato ha ottenuto il 43,8% grazie a molti elettori Cinque Stelle (e perfino a un certo numero di leghisti). Lo stesso a Napoli, dove l’apporto di Cinque Stelle all’elezione di Gaetano Manfredi, fortemente voluto dal suo ex premier Conte, è stato consistente. In attesa del secondo turno si comincia a discutere del rapporto di forze fra Partito Democratico e Cinque Stelle. L’egemonia sembra esser passata al Pd, ma non si sa ancora in vista di quale alleanza strategica, una volta appurato che da solo il Pd va a sbattere. Letta lo sa ma brancola ancora nel buio, perché vorrebbe mettere insieme Calenda, renziani, Bersani, Conte e 5 Stelle, sempre in nome del pragmatismo e delle sue necessità.
Questi tuttavia non sono i tempi del pragmatismo e della Necessità descritti da Bonomi. Sono tempi di trasformazione, di tormenti sociali enormi, di indispensabile ritorno dello Stato nell’economia, dunque della ricerca di uomini del Possibile. Sono tempi in cui occorrerà rivoluzionare le vecchie certezze economiche e i parametri che per mezzo secolo esse hanno imposto.
Per questo fa bene Conte a sottolineare, ogni volta che lo interpellano, che lui non è affatto moderato come viene generalmente descritto ma uno statista con ambizioni radicali di cambiamento.
Chi dà per morto il populismo – cioè il bisogno di rappresentare le classi popolari, oggi in gran parte astensioniste – è come un signore molto miope che per vanità o supponenza si rifiuta di inforcare gli occhiali. Non vedendo la società che ha davanti, dunque non vedendo la realtà, dichiara l’una e l’altra irrilevanti, anzi inesistenti (come Margaret Thatcher nell’87).
La società che ha davanti resta però quella che è: anche se non vota, proprio perché non vota, è un “mondo di sotto” abitato da classi popolari e ceti medi impoveriti che non scompaiono per il solo fatto che per rabbia, stanchezza o noia (spesso è la stessa cosa) non votano più 5 Stelle o non votano più Lega.
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