Meloni, l’album di famiglia

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 29 ottobre 2022

Fortuna ha voluto che nei dibattiti sulla fiducia a Giorgia Meloni, mercoledì al Senato, intervenisse per il M5S Roberto Scarpinato, ex magistrato, per parlare non tanto del ventennio fascista, ma della nostra storia recentissima e di quel che il neo-fascismo ha detto e fatto per decenni dopo l’avvento della Repubblica, in combutta con segmenti oscuri dello Stato e parte dei poteri forti.

L’ex magistrato ha ricordato le trame nere, la cui esistenza non è oppugnabile, e il ruolo svolto dai neofascisti nella strategia della tensione (strage di Piazza Fontana, di Piazza della Loggia, del treno Italicus, di Bologna). Ha connesso il presente col passato tutto intero. Ha ricomposto una biografia della nazione che per due giorni, in Parlamento, era stata presentata da Meloni come storia a pezzi, simile alla guerra mondiale a pezzi descritta da Papa Francesco.

Si può capire l’ira di Meloni, che s’esprime volentieri col linguaggio urlante del corpo (movimento della bocca che scaglia improperi, sguardo fosco). Lo squarcio inferto al velo nel quale s’avvolge l’ha visibilmente seccata. Tanto è bastato perché il microfono venisse spento nell’attimo in cui Scarpinato, evocando i legami fra destre eversive e mafia, pronunciava il nome di Marcello Dell’Utri. Abbiamo notato stizza nei banchi di destra, silenzio nel Pd ancora draghiano, applausi solo di 5 Stelle e Giuseppe Conte, che oggi appare l’unico vero leader dell’opposizione. La storia a pezzetti si è così scontrata, per qualche minuto, con un discorso di verità. Accadde qualcosa di simile quando Rossana Rossanda, il 28 marzo 1978, nel pieno del sequestro Moro, lanciò un macigno nello stagno del Pci: “In verità, chiunque sia stato comunista negli anni 50 riconosce di colpo il nuovo linguaggio delle Br. Sembra di sfogliare l’album di famiglia”. Ancora aspettiamo chi, a destra, sfogli il proprio album di famiglia e smetta di tacere sul neofascismo postbellico nell’ora in cui quest’ultimo si presenta – parla ancora Scarpinato – come “l’ultimo travestimento che nella patria del Gattopardo consente al vecchio di celarsi dietro le maschere del nuovo, creando l’illusione del cambiamento”. Da quando ha giurato sulla Costituzione, Meloni è circondata da sorrisi e acclamazioni fin qui riservati a Draghi (è impressionante il trasformismo di una stampa dimentica del proprio mestiere di cane da guardia). I sorrisi di Mattarella e Draghi innanzitutto, talmente larghi da divenire sospetti (perché è donna? giovane? underdog “meritevole”?). “Una cosa emotivamente un po’ impattante” è stato per lei il salire le altrui scale a Palazzo Chigi, al termine delle quali l’attendeva raggiante il predecessore, insigne rappresentante in Occidente dei poteri forti. Sono emotivamente impattati anche i commentatori: ecco infine una donna, addirittura una “fuoriclasse”, modello di passione mescolata a competenza, e magari il Pd ne avesse una così. I Gattopardi s’affollano sulla scena e dietro le quinte.

Intanto il capo di governo annuncia false “rivoluzioni copernicane”, quasi tutte nel segno della continuità: in politica economica (condoni, indulgenza verso gli evasori), sull’energia, l’ambiente, il lavoro (strali contro il Reddito di cittadinanza). E in politica estera – fedeltà atlantica incondizionata nella guerra in Ucraina, attacchi alla Cina, sostegno ai maxi-profitti delle industrie militari – tanto da suscitare il fondato sgomento di Conte: “Ma non è che alla fine l’agenda Draghi, presidente Meloni, la vuol scrivere Lei?”. È fondato lo sgomento, perché in filigrana già s’intravedono futuri possibili: crisi della coalizione di destra, alleanze con i draghiani Renzi e Calenda.

Non che siano scomparsi dubbi e sospetti sul passato di Fratelli d’Italia, anzi: fioriscono, i dubbi, sotto forma di copiose produzioni di libri su Mussolini e Marcia su Roma, nel caso li avessimo scordati. Per la verità non abbiamo dimenticato, non c’è bisogno che nei talk ci ripetano un giorno sì uno no (Sapevatelo su Rieducational Channel!) che la Marcia fu un abominio. Si sta bene quando la storia di una nazione o un individuo si riduce a una serie di fotogrammi rimaneggiati – prima il Risorgimento, poi la Marcia e le leggi razziali, poi l’America che ci libera e resta unica perenne stella polare visto che antifascismo e Resistenza non sono nominati, infine la palingenesi con il duetto La Russa-Liliana Segre accampati sugli schermi che chiudono il cerchio. È come se tra la fine della Repubblica di Salò e oggi ci fosse il nulla, e non: le congiure e i tentativi di colpo di Stato, Portella della Ginestra, assassinio di Mattei, Gladio, Piano di rinascita democratica della P2, assassinio di Moro, stragi di mafia, ecc. Quanto all’antifascismo, Meloni l’ha evocato solo per ricordare gli “anni più bui della criminalizzazione e della violenza politica, quando nel nome dell’antifascismo militante, ragazzi innocenti venivano uccisi a colpi di chiave inglese”. Già, questo fu l’antifascismo, non ci avevamo pensato: ammazzamenti con chiavi inglesi. Non c’è da stupirsi se questa riscrittura della storia, che implicitamente riconosce solo agli Stati Uniti il merito di Liberazione dai nostri mostri, sia perfettamente funzionale ai dogmi neoliberisti e neocon, in continuità gattopardesca col governo precedente e il volere dei mercati. Anche questo governo rallenterà le trasformazioni ecologiche, e per questo incorpora ex ministri come Cingolani, che oltre al nucleare difende il fossile, il carbone e il gas liquido Usa da comprare a caro prezzo (esentandolo da rigidi tetti del prezzo: mica è gas russo!) proprio quando il rapporto Onu pubblicato mercoledì certifica che il riscaldamento terrestre sta toccando il punto di non ritorno. Impossibile che il pianeta fronteggi un simile disastro quando infuria una guerra per procura tra Occidente e Russia e s’infiamma il conflitto Usa-Cina.

Come neoliberista/illiberale, infine, il capo del governo teorizza il laissez-faire, le deregolamentazioni, e una democrazia non più “interloquente ma decidente” (“Il motto di questo governo sarà: ‘Non disturbare chi vuole fare’”). Motto plurisecolare, che Keynes criticò fin dal 1926: “(Il laissez-faire) presuppone che non vi sia grazia né protezione per quanti indirizzino il loro capitale o il loro lavoro nella direzione sbagliata. È un metodo che porta verso l’alto i ricercatori di guadagno a cui arride il successo, grazie a una spietata lotta per la sopravvivenza, attraverso la quale si seleziona il più efficiente per mezzo del fallimento del meno efficiente. (…) Se lo scopo della vita è quello di cogliere le foglie dagli alberi fino alla massima altezza possibile, il modo più facile di raggiungere questo scopo è di lasciare che le giraffe dal collo più lungo facciano morire di fame quelle dal collo più corto”. È passato quasi un secolo e ancora c’è – da Meloni a Renzi a Calenda – chi difende le giraffe con collo più alto.

La guerra contro i poveri è cominciata e la chiamano Ritorno della Politica e Meritocrazia.

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I sonnambuli dell’atomica

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 12 ottobre 2022

Circolano molte formule sconsiderate sul conflitto in Ucraina, da qualche tempo. “Siamo già nella terza guerra mondiale”, annuncia qualche commentatore con aria compiaciuta più che inquieta.

“L’Armageddon è possibile”, constata Biden, per poi ravvedersi e domandarsi spaventato quale possa essere la “rampa d’uscita” che “permetta a Putin di non perdere né la faccia né il potere”. Altro mantra tutt’altro che rincuorante, specie per noi europei: “L’uso delle armi tattiche nel teatro di battaglia è un opzione non paragonabile all’uso di quelle strategiche, devastante per il pianeta”. Il 23 agosto scorso Liz Truss, allora ministro degli Esteri, si disse “pronta a impiegare” le atomiche tattiche in difesa di Kiev (“con occhi smorti e un’espressione priva di emozioni”, osservò il «Guardian»), ben prima che Mosca accennasse alle proprie armi non convenzionali.

Minimizzazione dei danni già inferti dalla guerra; banalizzazione dell’atomica; perdita di memoria sull’uso che Washington già ne ha fatto, in Giappone nel ’45: questi gli elementi dominanti nel discorso pubblico, diviso fra oltranzisti e spaventati a Washington come a Mosca e Kiev. L’ultima parola è spettata a Zelensky: il 4 ottobre –due giorni dopo l’appello del Papa a negoziare subito– ha vietato per decreto di trattare con Putin. Bergoglio “foraggia i nostri sensi di colpa” perché “poco occidentale”, scrive il direttore del «Foglio».

Si scivolò barcollando come sonnambuli nell’inedito assoluto che fu la guerra del ’14-’18, scrive lo storico Christopher Clark. E così oggi, ma con qualche variante: stavolta è in gioco il pianeta, che già sta messo male per i danni crescenti che gli stiamo infliggendo, grazie al revival del combustibile fossile, del carbone, all’acquisto di gas naturale liquefatto Usa (detto anche “killer del clima”) e al moltiplicarsi di centrali nucleari che i nostri governi s’ostinano a definire innocue (innocue come Three Mile Island, Cernobyl, Fukushima, ecc.).

Altra variante rispetto al 1914: oggi sembra esserci del metodo nel barcollare sonnambolico. È come se l’escalation e la banalizzazione dell’atomica fossero un’esercitazione consapevole, come lo furono Hiroshima e Nagasaki, usate non già per vincere il Giappone – era già sconfitto – ma per “testare” la bomba sulle popolazioni civili. Infatti da giorni si parla di test nucleari, quasi fossero un rischio da calcolare.

La sperimentazione concepita dai sonnambuli potrebbe avere tre obiettivi. Primo: si tratterebbe di separare meglio le atomiche tattiche (impiegabili nel campo di battaglia) e strategiche (missili con bersagli a lunga distanza). Il campo di battaglia è chiaro: è l’Ucraina dunque l’Europa, non gli Stati Uniti. Il generale Fabio Mini ha spiegato su questo giornale come le odierne armi tattiche siano in grado di distruggere un’area che comprende 10 città (sono ben più potenti della bomba di Hiroshima, di 15 kilotoni. Quelle moderne oscillano fra 0,3 e 170 kilotoni). Chi dice ancora che i nostri interessi sono identici a quelli statunitensi o dorme in piedi o mente sapendo di mentire.

In secondo luogo si tratta di mettere in questione il tabù che fonda la deterrenza. In teoria il ricorso all’atomica è impossibile: chi volesse usarla per primo viene dissuaso perché sa che verrà a sua volta annientato da eguale e quasi simultanea potenza. Il paradosso della deterrenza (il catch-22 dell’atomica) consiste tuttavia nel fatto che la tua capacità di attacco deve essere “credibile”: la bomba è al tempo stesso usabile e non usabile. Ecco perché Putin dice che la sua minaccia non è un bluff. Ecco perché l’atomica tattica usata nel teatro di battaglia è banalizzata, non prefigurando ancora l’Armageddon. La dottrina che vieta il primo colpo fa acqua da tempo, sia a Washington sia a Mosca.

Il terzo test concerne le medie potenze che divenute nucleari si trasformano in “santuari”, cioè inviolabili, grazie alla deterrenza. L’obiettivo è l’indebolimento selettivo del concetto di santuario. Stati come la Corea del Nord o l’Iran (insidiati sia dagli Usa sia dall’atomica israeliana) si sentono talmente minacciati dalle guerre tendenti a cambi di regime che finiscono col desiderare una sola cosa: divenire santuari. Il test metterebbe in questione tale desiderio.

Difficile avviare un negoziato di pace senza capire che nell’era nucleare è improponibile il paragone con la guerra totale contro Hitler. La linea oltranzista in Usa, Russia, Ucraina, Europa non tiene conto che l’atomica cambia tutto: non si può tirare la corda a meno di non volere il suicidio parziale e/o totale. Bisogna trattare proprio ora che infuriano i bombardamenti se non si vuole l’Armageddon, come chiesto dal Papa, da politici e movimenti che indicono manifestazioni per la pace e da gran parte dell’Africa, dell’America Latina e dell’Asia.

Per ottenere almeno una tregua non si potrà evitare di riesaminare le radici della rottura russa con l’Europa (probabile scopo degli Usa), e riconoscere gli errori occidentali senza nulla togliere alle massime colpe del Cremlino. Bisognerà bandire le guerre di regime change, perché è ormai accertato che i regimi destabilizzati faranno di tutto per dotarsi dell’atomica e divenire santuari. Non si può continuare a ignorare che se la Russia ha invaso l’Ucraina (e prima la Georgia) è anche perché Nato e Usa “abbaiano” da anni alle sue porte, avendo esteso l’Alleanza a Est e violato le promesse fatte a Gorbachev nel ’91.

Soprattutto, occorrerà dire a Zelensky che abbiamo voce in capitolo visto che riempiamo l’Ucraina di armi e di miliardi, e indicargli i limiti da non oltrepassare o già oltrepassati (uccisione della figlia di Dugin, distruzione del ponte verso la Crimea). Ha oltrepassato la linea rossa anche il 6 ottobre, quando ha auspicato “attacchi preventivi della Nato (preventive strikes) per vanificare qualsiasi ricorso russo alle atomiche”.

Purtroppo la Nato e Washington si fingono ciechi, tanto da prospettare l’installazione in Polonia delle basi nucleari chieste da Varsavia, ai confini con Bielorussia e l’enclave russa di Kaliningrad, sul modello della “condivisione nucleare” instaurata nella guerra fredda con 5 Paesi europei tra cui l’Italia. Né sembrano aver appreso molto della crisi di Cuba del ’62. Allora il negoziato fra Kennedy e Kruscev durò appena 35 giorni, e si concluse con lo smantellamento dei missili sovietici a Cuba e di basi Usa in Turchia, e la creazione di un canale di comunicazione permanente Usa-Urss (la hotline o Telefono Rosso).

Oggi si va al rilento e la hotline è accesa ma non sempre. Si grida imbambolati “Non ci faremo intimidire!”, come se lo spavento davanti al rischio atomico non fosse, oggi, la sola rampa d’uscita chiaroveggente.

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Meloni deve scegliere o Draghi o Merkel

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 30 settembre 2022

Giorgia Meloni certamente lo sa: a partire dal momento in cui sarà designata presidente del Consiglio e si accingerà a formare il governo, dovrà fare i conti non solo con la supervisione di Mattarella, ma anche con le linee tracciate da Draghi, dal presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, dai vertici della Nato. Le iniziative eterodosse concesse alla minuscola Ungheria di Orbán (9,7 milioni di abitanti), o alla Turchia in seno alla Nato, sono malviste da sempre in un Paese proiettato nel Mediterraneo come l’Italia.

Draghi ha smentito fortunatamente le voci su una sua personale supervisione-monitoraggio, che si appaierebbe in modo costituzionalmente scorretto a quella del Quirinale, ma le sue scelte e non-scelte continueranno a pesare, soprattutto in ambito atlantico.

In altre parole, è come se gli italiani dopo il voto avessero un presidente visibile e un invisibile convitato di pietra, campione dell’ortodossia atlantica ed economica e imprescindibile punto di riferimento all’estero. La posizione di Draghi sulla guerra in Ucraina è stata al tempo stesso inflessibile e indolente fino a sfiorare l’immobilità, dunque l’irrilevanza: ha sostenuto senza mai batter ciglio le posizioni di Biden e del Segretario generale della Nato Stoltenberg, anche quando questi ultimi hanno bloccato tra marzo e aprile una bozza d’accordo Mosca-Kiev; ha fatto approvare dalla propria maggioranza sanzioni e invii di armi; si è guardato dall’appoggiare Parigi, quando Macron ha messo in guardia contro “l’umiliazione della Russia” e mantenuto un dialogo con Putin. La politica che potrebbe aver consigliato alla Meloni durante la campagna elettorale è un impasto di passività e subordinazione riassumibile nella parola d’ordine: non lasciarsi coinvolgere in iniziative che Washington disapprova, a cominciare dal gasdotto Nord Stream 2. Limitarsi, giusto per una photo opportunity, al viaggio in treno con Macron e Scholz a Kiev, il 16 giugno.

Questi precedenti possono rivelarsi nefasti, perché prolungano una guerra sempre più mortifera per gli ucraini, e che sconquassa l’Europa ben più degli Stati Uniti. Incoraggiano, inoltre, l’adesione acritica a un’Alleanza militare non più solo Atlantica ma estesa al Pacifico, pronta a schierarsi con Washington contro Pechino su Taiwan.

L’imperturbabile atlantismo di Draghi e Mattarella non sembra tener conto della svolta epocale avvenuta in Ucraina e al Cremlino subito dopo le nostre elezioni: nel referendum del 27 settembre, quattro regioni del Sud-Est ucraino (equivalenti al 15% del Paese) hanno scelto l’adesione alla Russia, e quale che sia il giudizio degli occidentali (il referendum sarebbe illegale, come quello del 2014 in Crimea) le province potrebbero da questo venerdì collocarsi in Russia. Conseguenza: qualsiasi tentativo di riconquistare Crimea e Sud-Est annesso sarà considerato come aggressione diretta della Nato e di Kiev alla Federazione russa indebolita, al punto da implicare il ricorso all’atomica come ventilato nei giorni scorsi da Putin e dall’ex presidente Medvedev.

L’uso delle atomiche tattiche – probabilmente più potenti di quelle sganciate su Hiroshima e Nagasaki – è sempre più banalizzato, dai dirigenti russi e anche statunitensi, dalla stampa Usa e dalla nostra, e la banalizzazione sta addormentando le menti dei leader occidentali, Europa compresa, invece di svegliarle e spingerle a mutare strategie. L’escalation si intensifica – si aggiunga il sabotaggio di Nord Stream 1 e 2, a prima vista non nell’interesse russo – come se nessuno volesse prender sul serio le parole di Mosca.

Ha fatto eccezione il 27 settembre Angela Merkel, in un discorso alla Fondazione Kohl. Ricordando la figura del predecessore, l’ex Cancelliera si è domandata quel che farebbe oggi l’artefice della riunificazione tedesca negoziata con Gorbaciov: in una situazione simile a quella odierna, ha detto, non perderebbe mai di vista “il giorno dopo”. Farebbe di tutto per restaurare la sovranità e l’integrità dell’Ucraina, “ma parallelamente non smetterebbe mai di pensare quel che al momento è del tutto impensabile, inconcepibile: come sviluppare di nuovo le relazioni verso e con la Russia”. Ha poi aggiunto che “prendere le parole di Putin sul serio, non considerarle un bluff ma confrontarsi con esse non è segno di debolezza o pacificazione, ma di intelligenza politica”. Infine ha elencato “tre principi dell’arte politica” appresi dal predecessore: “L’importanza in politica della personalità, la volontà incondizionata di dar forma alle cose, il pensare dentro contesti storici”.

Più chiara di così la Merkel non poteva essere. La «Süddeutsche Zeitung» parla di discorso “velato”, ed è vero che dietro il velo di Kohl l’ex Cancelliera critica le condotte di Washington e della Nato, incapaci di “pensieri storicamente contestualizzati”, di “pensare l’impensabile” e di ascoltare lo spiraglio aperto da Putin nel discorso minaccioso del 21 settembre: un accordo con Kiev era quasi pronto a marzo, incentrato sulla neutralizzazione ucraina, e Londra e Washington l’affossarono.

L’annessione alla Russia di una parte dell’Ucraina (non ancora ratificata dalla Duma) vede il peso dell’Italia ridotto a zero, ed è evidente ormai che dalla minaccia atomica si può uscire solo con un negoziato diretto fra le tre superpotenze: Usa, Russia e Cina. Vista tuttavia la riluttanza di Biden a una trattativa che sancirebbe la fine dell’egemonia unipolare Usa e del tentativo di separare l’Ue dalla Russia, gli europei potrebbero avviare un primo tentativo di “pensare l’inconcepibile” e conquistarsi l’autonomia strategica di cui parlano da anni inutilmente. Potrebbero smettere di puntare solo su Erdogan, che si presenta come intermediario pur di ottenere il diritto a distruggere impunemente, nel Nord-Est siriano, la democratica Repubblica curda di Rojava che ha sconfitto per noi lo Stato islamico (Isis). Il mediatore potrebbe essere proprio la Merkel, anche se gli appoggi sono tenui: sono restii i Verdi tedeschi, è contrario il suo partito, e l’Ue è divisa.

Molti avversari delle sanzioni e dell’invio di armi l’hanno indicata in passato come possibile mediatore. Adesso potrebbe diventarlo, anche se la prospettiva sembra utopica. Ha la personalità adatta, conoscendo Putin, la lingua russa, la Cina meglio dei governanti odierni. Ha saputo dar forma ai propri progetti (se si esclude l’arroganza verso la Grecia piegata dalla troika). E conoscendo Mosca e l’Est europeo, non le manca di sicuro il senso della storia.

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L’amico americano e l’Anticristo

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 18 settembre 2022

Enrico Letta è stato il primo a evocare le elezioni dell’aprile 1948, prendendo la parola in direzione Pd subito dopo la caduta di Draghi, e a paragonarle con il voto del 25 settembre prossimo. Paragone osceno, perché il ’48 fu l’elezione più isterica, più falsa, più manipolata nella storia postbellica italiana.

Iniziò allora l’uso dei cartelloni elettorali, e il fronte composto da comunisti e socialisti venne ritratto con immagini agghiaccianti: per esempio, un enorme scheletro in uniforme dell’Armata Rossa. Stalin era alle porte: finanziava i comunisti di Togliatti e i socialisti di Nenni, avrebbe calpestato anche da noi ogni libertà. Padre Lombardi tuonava, in nome di Pio XII: “Nell’ora grave che volge, e dinanzi ai prossimi eventi ancora più gravi, il Papa ha lanciato una formula: ‘Con Cristo o contro Cristo’; non c’è che una scelta da fare ed è una scelta religiosa […]. Guai a chi non si pronunzia con Cristo, egli è contro Cristo, e Cristo lo atterrerà”.

Ma fu soprattutto l’amministrazione Usa a manipolare e sovvertire quella campagna elettorale. L’ingerenza fu vistosa: la Nato non aveva ancora visto la luce e le elezioni italiane furono un esercizio ante litteram in diplomazia egemonico-coloniale. Furono promesse forniture di alimentari e medicinali per 300 milioni di dollari se la DC avesse prevalso, mentre in caso di vittoria social-comunista i nostri emigranti non sarebbero più stati accolti negli Stati Uniti e l’Italia sarebbe stata esclusa dal Piano Marshall (l’equivalente del PNRR). L’indecenza di quell’intromissione sta ripetendosi.

Poco prima del ’48 ci fu la strage di Portella della Ginestra, il 1° maggio 1947 (11 morti). Responsabile ufficiale: Salvatore Giuliano, il bandito. Responsabili non ufficiali, rivelati quando la CIA desecretò gli atti relativi all’eccidio: i servizi dell’Office of Strategic Services (OSS), il servizio segreto Usa comandato in Italia dal capitano Angleton, che agì in combutta con la Decima Mas, sbirri fascisti e Giuliano. Le ingerenze Usa son continuate per anni. Per la loro posizione strategicamente scabrosa nel Mediterraneo, Italia e Grecia sono stati i due Paesi che più ne hanno patito (o approfittato, a seconda dei partiti o di settori dell’esercito).

Che Letta non abbia rispolverato a caso il ’48 è confermato da quel che accade in questi giorni: l’allarme emergenziale lanciato nei grandi giornali, nei partiti di centro, nel Pd, sulle ingerenze russe nella campagna; le accuse di finanziamenti di Putin a destre ed estreme destre; e per l’ennesima volta, i rapporti dei servizi Usa sui politici di vari Paesi che dal 2014 riceverebbero soldi dal Cremlino. Nell’ultimo decennio, quasi tutte le elezioni e i referendum occidentali sarebbero stati oggetto delle brame di Putin: la vittoria di Trump, il referendum sul Brexit del 2016, le presidenziali e legislative francesi del 2017 e 2022. I partiti perdenti non avevano mai nulla da rimproverarsi, visto che a orchestrare la disfatta era stato, da Mosca, il Destabilizzatore per eccellenza.

Tutto questo era moneta corrente nella guerra fredda, e in Italia sin dai giorni della Liberazione, quando l’esercito Usa sbarcato in Sicilia cominciò a congiurare con le mafie. Citato da magistrati come Roberto Scarpinato e Nino Di Matteo, Sciascia descrisse così una Liberazione che aveva prodotto la Costituzione ma anche inoculato veleni duraturi: “La prima cosa che fecero gli americani sbarcati in Sicilia fu nominare uomini di mafia nei comuni più grossi del palermitano, dell’agrigentino e del trapanese”. Seguirono poi le pressioni Usa su De Gasperi perché cacciasse dal governo l’alleato comunista, nel ’47.

Uno spiraglio di autonomia si aprì negli anni della distensione – con Nenni, Moro, Andreotti – presto chiuso dall’assassinio di Moro, nel quale i servizi Usa svolsero ruoli non secondari. La guerra fredda si riaccese in coincidenza con i primi allargamenti della Nato a Est e le intromissioni Usa nei movimenti colorati a Tbilisi in Georgia e a Kiev, per culminare nella scomposta aggressione di Putin contro l’Ucraina. Da allora europeismo e atlantismo hanno smesso di essere distinti, com’erano ai tempi di Brandt, Genscher o Kohl.

Alla vigilia del 25 settembre, il linguaggio stesso è scivolato verso l’allarmismo, a proposito dei prezzi del gas e delle ingerenze russe nelle elezioni. Col passare dei mesi si è passati dal “Siamo accanto all’Ucraina” a un più istintivo, truce: “Siamo in guerra”. Inutile ricordare insieme le intrusioni Usa e quelle russe: se siamo in guerra, quella statunitense non è intrusione ma legittima intercessione alleata.

Per la verità non lo sapevamo che eravamo “in guerra”, non l’ha dichiarata nessuno, eppure tutti lì a dire – nei giornali, in Tv – che l’ingerenza russa è la tappa di una guerra anche nostra. E lo si dice con orgoglio, da quando Kiev ha riconquistato città e territori. Ancora non ci si rende conto che la riconquista è magari un’ottima notizia per gli ucraini (non forse per quei cittadini russofoni che dal 2014 lottano contro l’ucrainizzazione linguistica delle zone orientali), ma potrebbe essere fugace, preludio di catastrofi. Il giorno che Putin dovesse passare dall’Operazione Militare Speciale alla mobilitazione generale e dunque alla guerra vera a propria – su spinta dei falchi che ne criticano la mollezza, dell’Unione europea in gran parte appiattita su Washington, di Biden che vuole una resa dei conti che sganci definitivamente l’Europa dalla Russia (70 miliardi di dollari in armi consegnate a Kiev in 6 mesi: e c’è chi nega la guerra per procura), capiremo che quest’ingranaggio è infernale più per gli europei che per gli Usa. Capiremo anche, forse, che gli italiani non credono nella dicotomia dualistica – il Rosso con l’Europa, il Nero con Putin e Orbán, con Cristo o contro Cristo – che ignora le assicurazioni del sottosegretario Gabrielli: l’Italia non è nella lista dei sospetti.

Il Partito Democratico, così aggressivo quando denuncia il M5S per la volontaria caduta di Draghi, dimentica che i finanziamenti esteri dei partiti furono vietati dal primo governo Conte grazie alla legge spazzacorrotti, nonostante gli emendamenti, respinti, dell’alleato leghista. Di Maio, che reclama commissioni d’inchiesta sui soldi russi, potrebbe occuparsi di diplomazia invece di agitare spauracchi.

“Preferiamo la pace o i condizionatori d’aria accesi?” ci chiese Draghi il 7 aprile. La risposta l’abbiamo. Spegneremo climatizzatori e termosifoni, e di pace e diplomazia non si parla più.

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Chi sono i veri traditori di Gorbachev

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 2 settembre 2022

Sulla stampa italiana e occidentale si piange in questi giorni la morte di Mikhail Sergeevich Gorbachev, indicando in Vladimir Putin colui che lo ha tradito, distruggendo la sua visione pacifica di una “casa comune europea” e riportando la guerra nel cuore del Vecchio continente, in Ucraina.

Molti di questi rimpianti sono intrisi di ipocrisia, oltre che storicamente zoppicanti.

È probabilmente vero che Gorbachev disapprovava la natura avventata e brutale dell’intervento militare in Ucraina. Anche se durante il suo governo non mancarono repressioni mortifere nelle repubbliche secessioniste (ad esempio in Lituania) Gorbachev ritirò pur sempre le truppe dall’Afghanistan, non usò la forza nei Paesi d’Europa centrale che volevano liberarsi del giogo sovietico, scommise con tutte le sue forze sui negoziati di disarmo convenzionale e nucleare fra Est e Ovest.

Non meno probabile è che il suo legame anche affettivo con l’Europa, e con la Germania in particolare, fosse più forte e tenace di quello manifestato oggi dal Cremlino. Ma parlare di un Gorbachev tradito dall’“imperialismo” di Putin è storicamente infondato e fuorviante: non tiene conto della “storia lunga” delle relazioni tra Russia, Europa e Stati Uniti, né dell’origine della nuova guerra fredda che Gorbachev aveva voluto eliminare, senza riuscirci, grazie al duplice scioglimento del Patto di Varsavia e della Nato.

Se si considera la storia lunga, e si include nei ragionamenti l’ultimo trentennio, si arriva infatti a conclusioni diverse, ben più sfumate. A tradire il progetto di “casa comune europea” senza più Nato e Patto di Varsavia, che Gorbachev propose al Consiglio d’Europa il 7 luglio 1989, poco prima che venisse abbattuto il Muro di Berlino, fu di certo Eltsin che lo spodestò sciogliendo l’Urss e il Partito comunista sovietico, ma fu in prima linea l’Occidente, con cui l’ultimo leader sovietico aveva negoziato l’unificazione pacifica delle due Germanie.

La promessa che gli Occidentali fecero al Cremlino tra il ’90 e il ’91, in varie riunioni bilaterali e nel Gruppo 2+4 (i 2 Stati tedeschi e i 4 vincitori della seconda guerra mondiale: Usa, URSS, Francia, Regno Unito), era che la Nato sarebbe rimasta in piedi, contrariamente al Patto di Varsavia, ma avrebbe tenuto debito conto degli interessi di sicurezza russi e non si sarebbe dunque allargata a Est: “neanche di un pollice”, assicurò il segretario di Stato James Baker. Stessa promessa fu unanimemente fatta da Mitterrand, Helmut Kohl, Margaret Thatcher e John Major, Manfred Wörner segretario generale della Nato.

Purtroppo l’inavvertenza di Gorbachev fece sì che l’impegno non venisse scritto nero su bianco. “Fu un’idiozia”, ha dichiarato di recente Roland Dumas, ministro degli Esteri francese che partecipò ai negoziati, “ma tutte le delegazioni tornarono dagli incontri con Gorbachev trascrivendo resoconti in cui la promessa è esplicitamente registrata”.

La promessa fu infranta a partire dal 1993-94 da Bill Clinton, che negò l’impegno preso, suscitò le prime irritazioni russe e impose nel 1999 il primo allargamento a Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria, in piena guerra in Jugoslavia. Pochi anni dopo mise in atto un’ulteriore provocazione, riconoscendo la secessione del Kosovo. Jack Matlock, ex ambasciatore Usa a Mosca, condannò gli allargamenti Nato e gli interventi militari nei Balcani: “Gli effetti sulla fiducia russa negli Usa sono stati devastanti. Nel 1991 l’80% dei russi avevano un’opinione favorevole degli Stati Uniti. Nel 1999, la stessa percentuale ci è ostile”. Nel 2004 l’Alleanza Atlantica aprì ai Baltici, e a Bulgaria, Romania, Slovacchia, Slovenia, sotto l’amministrazione Bush jr. Durante la presidenza Obama entrarono nella Nato Albania, Croazia, Montenegro.

Nel frattempo la mortificazione del Cremlino era diventata risentimento. Nel febbraio 2007, alla Conferenza annuale sulla sicurezza di Monaco, Putin denunciò l’arroganza occidentale e disse che la pazienza russa era giunta al limite. La sordità delle amministrazioni Usa fu totale e si cominciò a promettere l’allargamento Nato a Georgia e Ucraina (Berlino e Parigi si opposero, dunque non fu fissata una data per l’adesione). I progressivi allargamenti Nato agli Stati dell’Est e il loro riarmo costituiscono il vero tradimento della fiducia che Gorbachev aveva risposto nell’Europa e negli Stati Uniti.

Anche Gorbachev, come Putin, considerava tragica la fine dell’Urss, che non aveva saputo gestire né sventare. L’impero multietnico era preferibile, a suo parere, ai nazionalismi etnici che esplosero in Urss e che fecero di lui uno statista grandioso ma perdente. Di per sé, l’impero non è una forma politica negativa: se l’impero austro-ungarico fosse sopravvissuto non ci sarebbe forse stato l’annientamento degli ebrei d’Europa. Quel che Gorbachev avversò fu inoltre lo scioglimento del Partito comunista, che negli ultimi tempi voleva riformare ma sicuramente non abolire (importanti erano stati negli anni 70 gli impulsi degli eurocomunisti italiani o spagnoli, che avevano elaborato alternative al comunismo sovietico).

Prima di essere defenestrato da Eltsin – e da chi a Washington e in Europa sostenne l’usurpatore e impose una “terapia choc” che privatizzò l’economia russa, permise l’insorgere e l’arricchimento degli oligarchi e spinse la Russia sull’orlo della bancarotta – Gorbachev aveva in mente la trasformazione dell’Urss in una confederazione, con ampie autonomie riconosciute alle Repubbliche, specie alle più indipendentiste come i Baltici, la Georgia, l’Ucraina. Al pari di Solženicyn, fu sconcertato dall’indipendentismo ucraino e lo disapprovò apertamente. Approvò di conseguenza l’annessione della Crimea nel 2014.

Nel magnifico documentario-intervista di Werner Herzog (“Meeting Gorbachev”, 2018), l’ultimo presidente dell’Urss risponde con un sorriso come sempre mite ma leggermente sarcastico a una domanda del regista: “Gli Americani pensavano di aver vinto la guerra fredda e questo gli ha dato alla testa. Quale vittoria? Fu una nostra vittoria comune, e tutti abbiamo vinto!”. Una verità che le amministrazioni Usa s’ostinano a rifiutare, convinte come sono che la fine dell’Urss abbia legittimato l’unipolare predominio statunitense nel vecchio continente e nel pianeta, e sconfitto l’idea di una “casa comune europea”.

Sulla propria pietra tombale, Gorbachev confessa a Herzog il desiderio di veder scolpite le parole che Willy Brandt – altro gigante perdente – aveva immaginato per la propria lapide: “Ci abbiamo provato”.

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Le armi spuntate contro Meloni

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 24 agosto 2022

Niente luna di miele per Giorgia Meloni, se diverrà presidente del Consiglio: neanche se le destre otterranno una maggioranza parlamentare di due terzi e potranno cambiare la Costituzione senza dover ricorrere a referendum.

Basta attenersi al principio di realtà: il successo previsto dai sondaggi non sarà per nulla invidiabile, gli sforzi cui i vincitori si dovranno sottoporre saranno immensi, e la candidata n. 1 delle destre sembra esserne consapevole. Dell’economia italiana parla senza ottimismi. Gli esperti del suo campo – da Giulio Tremonti a Guido Crosetto – ripetono che il futuro sarà durissimo, in sintonia con l’Authority per l’Energia che pronostica per l’autunno il raddoppio delle bollette già oggi triplicate e un “rischio di tenuta del sistema elettrico”. Crosetto chiede un “patto con le opposizioni” per fronteggiare “momenti di difficoltà spaventosa” e conflitti sociali prossimi a guerre civili. A malapena Meloni tiene a freno Lega e Forza Italia, che promettono tagli inauditi alle tasse e Natale tutti i giorni.

A ciò si aggiunga la diffidenza con cui Meloni sarà osservata – meglio dire: sorvegliata – nell’Unione europea, nella Nato e in patria. Si sa che son sorveglianze umilianti: la Grecia le ha subite per 12 anni e ne esce impoverita e meno sovrana. Anche di questo la leader di Fratelli d’Italia è forse cosciente, visto che sulla guerra in Ucraina si è subito schierata a fianco della Nato, condividendo l’escalation verbale e militare di Biden. Ogni giorno le viene rinfacciata la vicinanza a Orbán, ma quest’ultimo ha scelto una neutralità sulla Russia che l’Italia non si permette più dagli anni di Moro e Andreotti, come dimostrato dal vistoso atlantismo di Draghi. L’Ungheria ha 9,7 milioni di abitanti e pesa infinitamente meno di un’Italia proiettata nel Mediterraneo dei conflitti permanenti.

Queste considerazioni sono assenti nella campagna condotta da chi avversa le destre, specialmente nel partito corposo di Enrico Letta oltre che nel quarto polo di Calenda e Renzi (chiamato terzo perché il M5S, essendo stato scomunicato, è escluso e anzi dato per morto). L’argomento principale dell’ex sinistra centrista è la contiguità di Fratelli d’Italia con il neofascismo, con la Fiamma nel simbolo: improbabile che Meloni perda per questo i voti operai tolti alla sinistra. Le rimproverano anche l’opposizione a Draghi, fingendo di non sapere che sono stati i metodi centralizzatori e le politiche di Palazzo Chigi a gonfiare, come in Francia, le vele della destra estrema.

Meloni è anche sospettata di puntare sull’immagine femminile senza essere femminista: un’accusa grottesca (le conservatrici femministe son rare), e non di rado fuori luogo. Meloni ha detto per esempio che la legge sull’aborto va pienamente rispettata, ma che va meglio applicata “la prima parte della legge, relativa alla prevenzione, per dare alle donne che lo volessero una possibilità di scelta diversa da quella, troppo spesso obbligata, dell’aborto”. Non vedo cosa ci sia di maligno nella volontà di aiutare le donne che non vorrebbero abortire, e lo fanno non per libera scelta ma per necessità, economica o familiare.

L’unico che guarda con lucidità al rischio Meloni, evitando il controproducente allarme fascismo, è Conte, secondo cui le destre al comando si riveleranno una “tigre di carta”, visto che saranno obbligate a “smontare le loro ricette” una dopo l’altra: “In una fase così delicata, che risposte può dare una coalizione che ha ritenuto prioritario trovare la quadra sulla spartizione dei collegi prima che sul programma? Salvini e Berlusconi giocano a chi la spara più grossa sulla Flat tax che è una presa in giro, mentre Meloni ancora non si è capito se la voglia” («Avvenire», 11 agosto). E a proposito del presidenzialismo aggiunge: “L’ipotesi di un centrodestra che cambia la Carta costituzionale è sicuramente preoccupante; la questione però è capire come scongiurarlo. […] non si può pensare di vincere rispolverando l’incubo dell’orda nera che marcia su Palazzo Chigi: è un refrain che non ha mai funzionato. Bisogna vincere sui temi, sull’idea di Paese che si propone”. Anche l’Unione Popolare di De Magistris, se vuol crescere, farà bene a battersi sulla questione sociale e la riconversione ecologica, evitando l’insidioso refrain sul fascismo.

Intanto Letta (che avendo perso Calenda ha ingaggiato Carlo Cottarelli, e ha ammesso la sinistra di Fratoianni “solo per ottenere l’adesione dei Verdi”) resta aggrappato a Draghi, scommettendo sul suo ritorno se le destre si sfasciassero, nella convinzione che il banchiere centrale abbia risanato l’Italia e innalzato il suo prestigio, in patria e fuori. Purtroppo le cose stanno diversamente. Nell’ultima conferenza stampa, Draghi ha vantato “una crescita straordinaria”, vedendo giusto “nuvole all’orizzonte” quando invece son tempeste. Non ha contato nulla nel conflitto russo-ucraino. Ha gestito male il ritorno del Covid in primavera. Non ha fatto nulla per negoziare un adeguamento del PNRR all’economia di guerra cui siamo condannati.

L’opposizione sarebbe efficace se smitizzasse l’agenda Draghi, neoliberista e inadatta ai tempi di povertà, razionamento dell’energia, precariato. Da mesi il ministro Cingolani echeggia l’ottimismo di Palazzo Chigi, ripetendo la stessa bugia: che possiamo star tranquilli, che abbiamo gas a sufficienza.

Un’altra pecca rinfacciata a Meloni è il blocco navale dei migranti, giudicato “antieuropeo”. Accusa giusta, se non fosse intrisa di menzogne e ipocrisie. Fu il governo Gentiloni a stringere accordi con la Libia, nel 2017, perché bloccasse i fuggitivi anche con la violenza. È l’Unione europea che finanzia le guardie costiere della Libia chiudendo gli occhi sui suoi Lager di tortura e morte. È l’Unione che dai tempi del governo Renzi, nel 2016, paga la Turchia perché freni la fuga di siriani e afghani (6 miliardi di euro, estesi nel giugno 2021 sotto il governo Draghi). È sempre l’Ue che da giugno finanzia le guardie costiere egiziane (80 milioni di euro) per contrastare le migrazioni in Italia.

Tra i ministri Salvini e Minniti (Pd) la differenza non è grande, per quanto riguarda i patti con Stati autoritari o falliti. Ben prima del Memorandum italo-libico l’Onu aveva dichiarato, nel 2016: “La Libia non è un Paese sicuro e i rimpatri sono dunque illegali”. Ma l’Onu conta poco se paragonata alla Nato: nelle molte guerre occidentali, in quelle russe e sull’immigrazione. Una tragedia che precede la possibile vittoria di  Giorgia Meloni.

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Perdere le elezioni: l’operazione Letta

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 7 agosto 2022

Prima ancora che cominci la campagna elettorale possiamo dare per scontate due cose: la vittoria delle destre e con essa lo stravolgimento presidenzialista della Costituzione, ottenibile con una maggioranza di due terzi senza bisogno di referendum.

Tutto fa pensare che il guazzabuglio elettorale confezionato da Enrico Letta lo sappia, l’accetti, forse perfino lo voglia. Che il Pd finga di voler vincere, quando invece si è tramutato non solo in partito centrista ma in un ufficio di collocamento che spartisce seggi con partitini affamati di posti e visibilità in TV. Come nel 2008 quando Veltroni affossò il governo Prodi e oppose all’Ulivo la “vocazione maggioritaria” del Pd, con l’intento/speranza di divenire primo partito italiano ma perdendo clamorosamente le elezioni.

Se così non fosse, se esistesse una coalizione dotata di un minimo di realismo e decisa a combattere seriamente le destre, la storia del dopo-Draghi non sarebbe sfociata nelle scemenze di questi giorni, che alcuni nobilitano chiamandole suicidio. Innanzitutto Letta avrebbe ripreso i contatti con Conte, non insisterebbe nel giudicare imperdonabile un atto di sfiducia che senza lo strappo di Lega e Forza Italia non avrebbe privato Draghi della maggioranza, non avrebbe adescato con qualche seggio Bonelli e Fratoianni (il quale di sfiducie ne ha espresse cinquantacinque) dando a credere che incorporando Fratoianni si allarga a sinistra. Dal vicolo cieco di veti e controveti si poteva uscire imboccando la via di un’alleanza elettorale fra diversi, Conte compreso, e però unita da un pensiero dominante: proteggere la Costituzione da sovvertimenti più volte bocciati dagli italiani. Nel guazzabuglio mancano sia il principio di realtà sia il pensiero dominante.

Ma soprattutto, il Pd non avrebbe scritto con Calenda il patto politico-ideologico che vede un partitino e un leader dai toni sguaiati esercitare un’inaudita egemonia culturale sul Pd. Ora si capisce come mai Letta si sia incaponito per mesi a definire “largo” il campo con 5 Stelle, rifiutando l’aggettivo “progressista” preferito da Conte o Bersani. Perché già lavorava a un neocentrismo che non contemplasse più la divaricazione fra destra e sinistra (fra Agenda Draghi e Agenda Sociale) ma introducesse uno spartiacque perdente: lo scontro di civiltà.

Lo spartiacque di Letta e Calenda si adatta alla seconda guerra fredda: da una parte gli “europeisti-atlantisti”, che abbracciano incondizionatamente il riarmo anti-russo deciso da Washington e Nato; dall’altra i “putiniani”, di destra e 5 Stelle, che secondo Letta e Calenda si accingerebbero anche a disfare un’UE già parecchio disfatta per conto suo. Draghi sarebbe stato addirittura silurato dal Cremlino, come ha scritto «La Stampa» per via di una domanda piuttosto banale rivolta da un funzionario dell’ambasciata russa a un rappresentante leghista (“La Lega intende uscire dal governo Draghi?”).

Non a caso Letta ha evocato come riferimento le elezioni dell’aprile 1948. Riferimento ominoso, visto che anche allora si sbandierò uno scontro di civiltà: i comunisti italiani, con cui fino a gennaio si era scritta la Costituzione, venivano dipinti nei manifesti elettorali come scheletri vestiti con l’uniforme dell’Armata Rossa.

Un altro elemento dello spartiacque centrista è rappresentato dall’apologia dell’Agenda Draghi. Subito dopo la caduta del governo il PD l’evocò con prudenza, ma su spinta di Calenda l’Agenda è ora il nerbo del patto fra i due autoproclamati frontmen della campagna (Letta e Calenda), accendendo paturnie ininfluenti in Fratoianni che entra nel cartello spacciandolo per centro-sinistra. Saranno draghiani “il metodo e l’azione” – dice il patto con Calenda – e l’adesione incondizionata alla Nato contro Russia e Cina.

La scommessa di Letta, e ovviamente di Calenda, è che il mini-partito Azione diventi maxi pescando voti a destra. Scommessa inane: le destre sarebbero forse indebolite, almeno al Senato, all’unica condizione di un fronte con 5 Stelle. A Calenda Letta ha regalato uno spazio un po’ meno sproporzionato nei collegi uninominali (24% invece dei 30 promessi) e i camaleonti Di Maio, Gelmini, Carfagna ricevono regalucci. Fratoianni e Bonelli, ottusamente inghiottendo i controsensi di Letta (“Siamo separati ma compatibili… questo patto non è di governo”) si sono infine accontentati di porticine di servizio. “Senza intesa parliamo con Conte”, suonava per qualche ora il ricatto di Fratoianni, non seguito da Bonelli che è fervente atlantista come tutti i Verdi europei.

Col passare dei giorni appare probabile che Draghi sia stato il vero artefice dei presenti garbugli, avendo voluto dimettersi a ogni costo nonostante disponesse di una maggioranza solida e assecondato da Mattarella. I motivi, scrive Giovanni Di Corato nel blog Econopoly, sono sia geopolitici sia economici. Sempre più italiani son contrari all’invio di armi all’Ucraina, dunque meglio andare al voto subito invece che fra un anno, specie se la guerra continua e se Washington apre un secondo fronte contro Pechino, dopo la dissennata visita di Nancy Pelosi a Taiwan.

Intrecciata con la geopolitica c’è poi l’economia: Draghi prevede nuvole, ma sarà uragano. Perfino Giorgia Meloni è in allarme, dice che Draghi “è fuggito”, chiede tramite Guido Crosetto patti anti-crisi con l’opposizione futura. L’Agenda Draghi è fedele al neoliberismo; liberalizza i contratti precari sottopagati; ha scritto riforme della giustizia che intaccano l’autonomia della magistratura e accorciano arbitrariamente i processi; smantella le misure sociali introdotte dai governi Conte (reddito di cittadinanza, decreto dignità, superbonus per l’edilizia). Quanto al salario minimo, il ministro Pd Orlando non fissa cifre e chiede accordi preliminari con le parti sociali, fin qui contrarie o riluttanti. Il disegno di legge sulla concorrenza, infine, liberalizza senza vincoli normativi, a cominciare dai trasporti Uber e dalla privatizzazione dell’acqua, respinta in tre referendum. L’aumento delle spese militari colpisce settori come sanità, scuola, ricerca, e il Welfare inviso alle destre. Nessuna considerazione, infine, per le proteste bipartisan contro il rigassificatore a Piombino, piazzato alle banchine del porto e non a 22 km dalla costa come a Livorno.

Calenda arriva a dire: sì a rigassificatori e termovalorizzatori, “se necessario militarizzando le aree”. Se questi sono i piani e il linguaggio del neo-centro, a opporsi da sinistra non resta che il “campo giusto” di Conte.

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Letta, tutti i silenzi del centrismo Pd

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 27 luglio 2022

Prendendo la parola ieri nella direzione del Partito democratico, Enrico Letta ha evitato di menzionare l’Agenda Draghi, intuendo forse che il termine non raccoglie i consensi inizialmente immaginati: non significa nulla, per la contraddizione che nol consente.

L’Agenda Draghi è sostanzialmente vuota perché l’ex presidente del Consiglio guidava una coalizione tra posizioni a tal punto contraddittorie che ogni riforma progressista era impossibile, a cominciare dalla giustizia fiscale. Le uniche “riforme” sono state quelle della giustizia: un regalo a chi piange in pubblico Falcone e Borsellino e dietro le quinte si adopera per distruggerne l’eredità. Secondo l’Unione europea le due riforme mettono a rischio “l’efficacia del sistema giudiziario”, specie “in relazione alla lotta alla corruzione”, e rischiano di “compromettere l’indipendenza del sistema giudiziario”.

Ma l’omaggio alle virtù di Draghi è ricorrente e accanito, nel discorso di Letta: quando accusa il “trio dell’irresponsabilità” di “tradimento dell’Italia” (il M5S accomunato a Lega e Forza Italia); quando dice che per colpa del trio i lavoratori italiani non riceveranno la mensilità in più che Draghi prometteva (ma che può ancora garantire), non otterranno misure contro la precarietà né i diritti civili (di cui peraltro il governo non si occupava, come ha rivendicato lo stesso Draghi in Parlamento). Non otterranno nemmeno il piano Orlando sul salario minimo, che però non fissa cifre ed è un mezzo imbroglio. Precariato e povertà non figurano nell’Agenda Draghi. Se ne era occupato in passato il governo Conte – col decreto Dignità e il Reddito di cittadinanza, che ha salvato un milione di persone dalla povertà e ne ha aiutate in tutto oltre 4,5 milioni – ma le misure sono state deturpate. Finito Draghi, per il Pd è la caduta nell’abisso: fa impressione l’adesione di chi pretende di rappresentare le classi popolari a un governo che per 17 mesi ha gestito compromessi al ribasso tra Pd, 5 Stelle, sinistra bersaniana e destra (anche sull’ultima ondata del Covid: un funesto fallimento di Draghi).

La compromissione con le destre è il programma dell’ex-sinistra rappresentata da Letta, che non casualmente invita i militanti a guardare al futuro anziché “salvaguardare il patrimonio del passato”. Anche perché lui, venendo da Dc e Margherita, quel patrimonio l’ignora. Come potrebbe d’altronde condividerlo, visto che annuncia la fine del campo largo (ha sempre schivato l’aggettivo progressista, preferito da Conte e Bersani) e promette un nuovo campo, contrassegnato da “liste aperte ed espansive”. Ogni alleanza è preclusa con i tre Traditori: Conte in primis, Salvini e Berlusconi. Braccia apertissime invece a ogni sorta di centristi – soprattutto Calenda, forse Renzi che però rischia di fargli perdere voti, e gruppetti in bilico fra destra e centro tra cui i disillusi di Berlusconi come Brunetta e Gelmini, da sempre neoliberisti in economia. Braccia aperte inoltre a Bersani o Fratoianni, che non osano prendere le distanze da quella che era sinistra ed è ora palesemente ex-sinistra (ma Fratoianni, rispetto al governo Draghi, era all’opposizione: altra bella contraddizione…).

La parola d’ordine di Letta sembra netta: “Noi contro Loro” (cioè contro Meloni). “Come nel 1948”, aggiunge, facendo propria la demonizzazione isterica dell’avversario comunista che caratterizzò quelle elezioni. Ma l’occhio di tigre e i colori netti di Van Gogh che prefigura, anche facendo grandi sforzi non si riesce a percepirli. L’esclusione tassativa di Conte dal campo progressista gli costerà parecchi voti, in collegi uninominali dove vince chi arriva primo. Forse meglio così (entrambi perderebbero voti), ma il No di Letta toglie comunque nerbo alla sua campagna. D’altronde come scorgere il nerbo – l’occhio di tigre – in un discorso programmatico che evita di indicare nel dettaglio i pericoli di una vittoria di Meloni-Salvini-Berlusconi, eludendo l’essenziale: le questioni sociali, l’astensionismo delle classi più povere, infine la politica di distensione e di pace che costituiscono il patrimonio delle sinistre di cui Letta vuol sbarazzarsi. L’abbandonato campo di sinistra potrebbe trovare oggi una rappresentanza in Conte, smuovere astensionisti e delusi del Pd, e fare quello che preannuncia Letta: “Risvegliare la politica”. È un cammino difficilissimo e tardivo per il M5S, ma tentare la risalita vale la pena.

Il pericolo di una destra vittoriosa – per ora a guida Meloni– è in primissimo luogo la riscrittura della Costituzione, come giustamente osservato da Antonio Floridia sul «manifesto», che suggerisce non già il campo progressista definitivamente affossato, ma almeno un accordo tecnico Pd-5 Stelle. Una volta al governo con una forte maggioranza, la destra riuscirebbe a ottenere il consenso di due terzi dei parlamentari (compresa una consistente porzione del centrismo raccolto attorno a Letta) e cambiare a sua guisa la Carta costituzionale senza nemmeno dover ricorrere al referendum. A questo rischio – il più grave – Letta non ha fatto minimamente accenno, non nominando mai la Costituzione per non urtare Renzi, Calenda e i tanti Pd che votarono sì alla “riforma” Renzi-Boschi.

Stesso silenzio sulle riforme della giustizia criticate dall’Unione europea e un accenno del tutto sommario alla guerra in Ucraina, dopo aver accusato tutti i “traditori” di Draghi –nei giorni scorsi– di essere putiniani. Letta resta profondamente atlantista, da mesi usa toni decisamente neo-con e non ha mai visto l’Unione europea come un soggetto autonomo i cui interessi non coincidono con quelli statunitensi e atlantici. Culturalmente non è legato alle battaglie socialdemocratiche per la distensione con la Russia: una tradizione che ancora sopravvive in alcuni esponenti tedeschi (tra cui il presidente della Repubblica Steinmeier). Nella campagna elettorale, il Pd tornerà a chiedere più aiuti militari all’Ucraina, in contrasto con quello che vuole la stragrande maggioranza degli italiani nei sondaggi.

Infine la questione sociale, su cui Letta si è opportunamente soffermato, ma senza specificare quel che pensa sul Reddito di cittadinanza, sull’aumento della povertà assoluta e relativa ripetutamente evocata da Domenico De Masi, sul precariato che non cessa di crescere, sulla giustizia fiscale mai attuata. Senza criticare, infine, le nebulose proposte di Draghi sul salario minimo.

Letta prospetta una vittoria del suo campo espansivo e incita a “scrivere una pagina dove nessun destino è già scritto”. È vero, nessun destino lo è. Ma una campagna che demonizza Giorgia Meloni senza spiegare in cosa precisamente consista il pericolo per la Costituzione e per la società rischia di ingessare il destino senza poterlo scuotere.

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Gli appelli a Draghi e il populismo delle élite servili

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 21 luglio 2022

Chiedendo al Parlamento un “nuovo patto di fiducia”, ieri al Senato, Mario Draghi ha usato toni talmente sprezzanti verso i partiti (5 Stelle in primis, ma anche Lega e Forza Italia) che alla fine ha subito una vistosa sconfitta. Non è chiaro se fosse questo il calcolo, se la sua proposta di rifondazione del patto fosse un bluff. È una decisione che Draghi ha motivato con un’argomentazione al tempo stesso singolare e insolente verso il Parlamento. Chiedendo ai parlamentari se fossero pronti a una ricostruzione del patto ha concluso il suo intervento così: “Sono qui, in quest’aula, solo perché gli italiani lo hanno chiesto. Questa risposta a queste domande non la dovete dare a me, ma la dovete dare a tutti gli italiani”.

Parlamento e partiti servono per la fiducia ma le loro esigenze sono svilite, sia quelle dei 5 Stelle sia quelle della Lega. I molti appelli (sindaci, accademici, imprenditori) che hanno implorato il presidente del Consiglio di non andarsene si sostituiscono nella mente di Draghi al suffragio universale, ai sondaggi, perfino al voto delle Camere. Il rapporto di fiducia Draghi ha immaginato di poterlo stringere direttamente col quello che ritiene essere il popolo italiano nella sua interezza, come fanno i capi di Stato nelle monarchie repubblicane. Alcuni parlano di populismo delle élite. Sembra un ossimoro ma non lo è. Il populismo delle élite ripete da anni che la politica è un disastro e il suffragio universale un azzardo pericoloso. La scommessa sugli omaggi di sindaci e imprenditori è stata contrassegnata da dismisura ed è naufragata.

Quel che più colpisce, negli appelli pro-Draghi, è la totale indifferenza alle richieste avanzate da Giuseppe Conte in nome del Movimento 5 Stelle. Erano richieste che avevano un filo conduttore: la questione sociale e la riconversione ecologica. Erano domande essenziali che esigevano risposte concrete e non i dinieghi rabbiosi offerti ieri dal presidente del Consiglio (su Reddito di cittadinanza, Superbonus, salario minimo, precarietà).

Spesso sono domande e critiche espresse anche dall’Ue, come l’introduzione del salario minimo, le politiche contro la precarietà e la povertà, la riforma della giustizia che introduce l’improcedibilità dei processi e che secondo il procuratore Gratteri “risponde agli auspici del papello di Riina”.

Ma chi ha firmato gli appelli non ha contemplato neppure da lontano la necessità di risposte chiare di Draghi sui drammi sociali menzionati da Conte: non era questo che domandavano, ma un regolamento dei conti che frantumasse e togliesse di mezzo i destabilizzatori che fanno capo a Conte. Nel mirino di Draghi non c’era solo il M5S: tutti i partiti che si preoccupano dei propri elettori sono stati oggetto di biasimo da parte dell’effimero monarca di Palazzo Chigi, a cominciare da Lega e Forza Italia che avevano puntato su una coalizione completamente nuova, senza 5 Stelle. Sotto tiro sono la dialettica democratica e i partiti in quanto tali che ancora una volta – come quando Conte fu silurato, o Mattarella rieletto presidente – vengono giudicati rovinosi, soprattutto quando vogliono esistere. Stiamo per perdere il tecnico mondialmente più rinomato, piangevano gli appelli e gran parte della stampa, e il buio era alle porte.

Il colmo lo ha raggiunto Antonio Scurati, in una lettera a Draghi sul Corriere del 17 luglio: lo scrittore gli ha chiesto di “umiliarsi”, e di “scendere a patti con la misera morale che spesso, troppo spesso, accompagna la condizione umana dei politicanti”. Gli ha chiesto di scendere dalle “vette inarrivabili” della “vertiginosa responsabilità” esercitata in passato e di “battersi nelle fosse della politica politicante dove il combattimento è quasi sempre brutale, rozzo, sleale e meschino”. La diagnosi conclusiva: Draghi è “spinto alle dimissioni da un accanito torneo di aspirazioni miserabili, da sudicie congiure di palazzo, da calcoli meschini, irresponsabili e spregiudicati di uomini che, presi singolarmente, non valgono un’unghia della Sua mano sinistra”. Nessun altro appello ha raggiunto tali vette di impudenza, ma tutti chiedono fra le righe l’uomo forte che – nelle crisi multiple che viviamo – sgomini la fossa dei dissensi e delle obiezioni. Forse l’eguaglia solo l’appello del vicepremier ucraino Iryna Vereshchuk: “Con leader come Mario Draghi vinceremo questa guerra che si consuma non in Ucraina ma nel continente europeo”.

Con l’eccezione di alcuni rappresentanti del Pd, e di politici come Bersani, il partito di Letta e gran parte della stampa hanno condiviso questa strategia di occultamento della questione sociale-ecologica e della battaglia contro ulteriori invii di armi all’Ucraina, che sono al centro delle richieste di Conte. Confermano quello che i più avveduti sanno: il Pd non è più sinistra, ma ex-sinistra. La sinistra è un campo disabitato che Conte potrebbe occupare, se non fosse una formazione gravemente frantumata e se si fosse staccata prima dal governo.

L’elenco di quel che potrebbe accadere dopo Draghi è copioso e inaudito, secondo gli appelli: sfracello del Piano di ripresa e resilienza innanzitutto (i motivi non sono mai indicati), caos e allarme dei mercati, inflazione e prezzi dell’energia alle stelle (verrebbe meno il tetto ai prezzi energetici chiesto dal governo, non approvato dall’Ue) e non per ultimo, disallineamento dell’Italia dall’Unione europea e dalla Nato.

Anche qui abbondano calunnie e disinformazioni. Conte avrebbe il sostegno di Putin, che manovra per destabilizzarci. Nessuna risposta viene data alla domanda centrale di Conte: “La nostra partecipazione a questi consessi (Nato-Ue) si inscrive nella logica esclusiva di uno ‘stare allineati’, oppure c’è la determinazione a rendere l’Italia protagonista, insieme agli alleati, di una linea geopolitica che impedisca una insanabile frattura, con un mondo diviso in due blocchi: da un lato i Paesi occidentali, dall’altro lato il resto del mondo?”. È una domanda legittima, se si considera che Draghi è sempre accostato a Parigi e Berlino, nonostante il suo abissale silenzio sulle riserve e preoccupazioni di Macron e Scholz.

La “sudicia congiura” denunciata da Scurati non era dunque contro Draghi, ma contro Conte. Ha finito col mandare in rovina anche il consenso del centrodestra, e ora mette in forse il campo progressista fra Pd e 5Stelle, Articolo 1, Leu. A Letta rimangono per ora Renzi e Calenda, come alleati sicuri. Anche i suoi calcoli, elaborati assieme a Draghi, sembrano sfociare in disastro.

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Conte e il partito unico articolato

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 9 luglio 2022

In poche pagine dove ogni parola pesa, Giuseppe Conte illustra nella lettera a Mario Draghi la grave crisi democratica e di rappresentanza che l’Italia (e non solo l’Italia) sta traversando. Non si limita a elencare i nove punti programmatici che per il suo Movimento sono cruciali, e non possono di conseguenza essere sviliti.

È come se si tuffasse più in profondità, per meglio percepire quel che si è incrinato nel funzionamento della nostra democrazia rappresentativa. Come se avesse assorbito il ragionamento di Luciano Canfora sulla “Democrazia dei Signori” confezionata dal duo Mattarella-Draghi, e avesse fatto propria una delle conclusioni cui giunge il libro dello storico-filologo: “Una forma di assetto politico non resta ‘democratica’ anche quando il ‘demo’” – il popolo – “se n’è andato”.

Canfora descrive con acutezza l’avvento e il consolidarsi di un “partito unico articolato” (il termine, riferito al fascismo, è di Gramsci) che regna senza contrappesi e senza neppure il popolo, sospettato ormai sistematicamente di avere pulsioni “populiste”. Solo le “ali governiste” dei partiti trovano legittimità e riparo nel potere centrale, e rifuggendo ogni vera dialettica e confronto sanno perfettamente che l’estensione del loro territorio presuppone l’estensione del terreno astensionista. Il “profondo disagio politico” espresso da Conte in nome dei Cinque Stelle nasce da disfunzioni acute della democrazia: il Parlamento è “impoverito e mortificato” da decisioni che regolarmente lo scavalcano; la partecipazione al governo è un atto di responsabilità che “rischia di coincidere con un atteggiamento remissivo e ciecamente confidente rispetto a processi decisionali di cui, purtroppo, veniamo messi al corrente solo all’ultimo”. È molto tempo che Conte lo ripete a Draghi: “Le abbiamo più volte rappresentato, invano, come non sia accettabile che il Consiglio dei Ministri sia relegato al ruolo di mero consesso certificatore di decisioni già prese, con provvedimenti normativi anche molto complessi che vengono portati direttamente in Consiglio o, quando va bene, con un anticipo minimo, comunque inidoneo a consentirne un’analisi adeguata”.

Infine, l’attacco alla natura oligarchica del partito unico articolato: “Non possiamo rinunciare all’idea di un sistema democratico ‘aperto’, che contrasti l’involuzione verso derive elitarie e permetta a tutti i cittadini – attraverso l’intervento promozionale dello Stato impegnato a rimuovere ogni sorta di ostacolo – di poter concorrere, a pieno titolo, alla vita politica, economica, sociale e culturale del nostro Paese”. La lettura della norma costituzionale sui partiti (art. 49) si affina: i partiti non sono articolazioni del potere ma strumenti che i cittadini possono usare se vogliono “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Se i partiti dimenticano che il metodo democratico è scontro pacifico di idee perdono senso oltre che elettori. Nella lettura di Conte sono i cittadini, tramite i partiti, a “determinare la politica nazionale”.

È partendo dalla critica dell’assetto politico che Conte evoca i punti decisivi per il M5S. È infatti chiaro che il governo Draghi è nato per uccidere il lascito di Conte: reddito di cittadinanza (1 milione di poveri in meno secondo l’Istat), salario minimo, decreto dignità, giustizia. E superbonus (che andrebbe però vincolato al reddito, come giustamente osserva Chiara Saraceno). Ed è più che chiaro che la remissività ha “sfibrato e eroso” il Movimento, fino a secernere la defezione di Di Maio e il fascino del potere senza più popolo.

La grande stampa (scritta e parlata) soggiace allo stesso fascino, smette di essere il quarto potere. Ogni volta che un partito evoca obiettivi importanti per i propri elettori i giornalisti s’allarmano, dicono che senza Draghi avremo la troika. Ecco che i partiti si riprendono lo spazio! – lamentano in coro– ecco che “mettono bandierine”, “cavalcano ideologie” (come se l’ideologia non fosse un patrimonio di idee e progetti). E voluttuosamente sbeffeggiano Conte: “In un incontro con Draghi non ci si presenta con una lettera!” (con cosa ci si presenta? Inchinandosi come davanti all’oracolo di Delfi?).

Quali che siano le prossime mosse (uscita o non uscita dal governo) una cosa appare certa: con la sua lettera Conte inizia la campagna elettorale, offre un orizzonte non tanto alle cerchie governiste ma agli elettori che vorrebbe riconquistare. È un orizzonte che coincide spesso con quello della sinistra classica: l’appello a fermare la guerra smettendo l’invio di armi all’Ucraina; la lotta alla povertà “in un momento in cui aumentano le distanze tra il privilegio e il disagio, tra il lusso e l’indigenza”, l’ecologia, la guarigione infine della democrazia. Senza il demos non resta infatti che il cratos: il “dominio” di forze non elette che deliberatamente spingono verso il suffragio ristretto riservato alle zone urbane a traffico limitato (ZTL).

L’atteggiamento sulla guerra in Ucraina è fondamentale. Il punto – spiega Conte – non è stare o no nell’Ue e nella Nato: “È come si sta in queste sedi: con dignità e autonomia, consapevoli di essere una delle prime democrazie al mondo, oppure si svolge il ruolo di terminali passivi di decisioni assunte da altri? La nostra partecipazione a questi consessi si inscrive nella logica esclusiva di uno ‘stare allineati’, oppure c’è la determinazione a rendere l’Italia protagonista, insieme agli alleati, di una linea geo-politica che impedisca una insanabile frattura, con un mondo diviso in due blocchi: da un lato i Paesi occidentali, dall’altro lato il resto del mondo?”. Anche questo passaggio colloca i 5 Stelle a sinistra.

Naturalmente l’alleanza con il Pd è essenziale, per diminuire la possibilità di una vittoria delle destre. Ma il Pd è ormai nucleo stabile del partito unico articolato, specie sulla guerra e la pace, e possiamo tranquillamente chiamarlo ex-sinistra, anche quando si finge antagonista combattendo per ius scholae e cannabis. Il M5S ha davanti a sé una strada impervia. Non può dire del Pd che è ex-sinistra. Non ha una classe dirigente preparata a lunghe e coerenti battaglie. Non ha elaborato sulla migrazione un’alternativa alla politica dei respingimenti confezionata successivamente da Minniti e Salvini. E ha un fondatore che non è padrone di sé nei rapporti telefonici con Draghi. Anche per questo Conte non telefona ma scrive lettere: a cospetto della Democrazia dei Signori le parole sono assassine e volano, ma scripta manent.

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