La follia bellica Ue e l’arma di Čechov

di mercoledì, Aprile 9, 2025 0 , , , , Permalink

«Il Fatto Quotidiano» ha chiesto a Barbara Spinelli di ampliare il suo intervento alla manifestazione dei 5Stelle contro il riarmo, tenutasi il 5 aprile a Roma. Il testo è stato pubblicato il 9 aprile 2025.

Vorrei parlare del nuovo bellicismo europeo e dei suoi fondamenti: l’ignoranza, la menzogna, l’avidità del complesso militare-industriale. L’ignoranza per prima, abissale e volontaria, di quel che vuole ed è la Russia, di quel che sono gli Stati dell’Est europeo usciti dall’Urss con un pensiero dominante: vendicarsi della Russia.

E se possibile smembrarla, come sostenuto da Kaja Kallas, Alto rappresentante della politica estera dell’Ue, ex premier nota per l’oppressione in Estonia delle minoranze russe.

E ancora: ignoranza della guerra degli ucraini, di come l’hanno persa nonostante fosse stata preparata fin dal 2014, e poi condotta, dai servizi e dai militari Usa. La verità è che Trump sta gestendo la prima grande sconfitta occidentale contro una potenza nucleare (anche la guerra dei dazi è gestione di una sconfitta). L’Occidente intero è alle prese con una disfatta, anche se l’Europa occidentale si benda gli occhi e fa finta di niente.

Certo, all’inizio fu legittima resistenza all’invasore, ma le cose sono cambiate. Si moltiplicano i reportage, anche ucraini, sulle diserzioni dei giovani, su una generazione perduta, sugli arruolamenti forzati: ti acchiappano per strada con un bus e ti sbattono al fronte o ti riempiono di botte (si chiama bussificazione). Nella Resistenza non succedeva. Infine la bugia sull’Ucraina compatta: è invece divisa, col Donbass che parla russo (lingua proibita dal 2019) e anche se non approva Putin resta etnicamente russo.

La guerra in Ucraina, come quella in Georgia del 2008, è un assalto inizialmente difensivo, dovuto a due fattori: l’allargamento provocatorio della Nato fino alle porte della Russia, voluto da Clinton, e la questione irrisolta delle minoranze russe nei Paesi staccatisi dall’Urss (25 milioni, di cui circa 8 in Ucraina).

Chi fustiga la piazza per la pace organizzata sabato a Roma dal Movimento 5 Stelle la chiama in blocco putiniana, o trumpiana, e oppone l’assurdo proverbio: se vuoi la pace prepara la guerra. Intende ben altro: se vuoi la guerra, prepara la guerra. Questa è la verità di tante risoluzioni del Parlamento europeo e del piano di Riarmo della Commissione Von der Leyen.

C’è chi garantisce che riarmarsi fa salire crescita e occupati (parola dell’ex segretario di Stato Blinken, di Draghi nel Rapporto sulla competitività). Noi Europei che ne abbiamo fatte a bizzeffe, di guerre, sappiamo che se dal ’45 abbiamo costruito welfare e diritti sociali è perché abbiamo scelto la pace. L’abbiamo scelta grazie all’ombrello statunitense, dicono. Da quale terribile aggressore ci protegge?

Visto che si parla tanto di Churchill e di Hitler (quanti sosia di Hitler s’è inventato l’Occidente negli ultimi ventiquattro anni!) vorrei ricordare che Churchill, finita l’ultima guerra contro Hitler, nel 1945, voleva ricominciarne subito un’altra, contro l’Unione sovietica. La chiamò Operazione Impensabile. Per fortuna i laburisti vinsero le elezioni e Eisenhower s’oppose alla pazzia. Ma ecco che ricominciamo: Riarmo Europa è un’altra Operazione Impensabile.

Per rassicurarci dicono che non è bellicosità: “è solo deterrenza”. La deterrenza fu Equilibrio del Terrore e parità degli armamenti Est-Ovest. Dobbiamo “pareggiare” seimila testate nucleari russe? Durante l’Equilibrio del Terrore furono avviati negoziati per il disarmo. Oggi no. Né è chiaro se Trump voglia simili negoziati – quando tenta l’accordo con Putin – dato che chiede agli Stati europei di accrescere il riarmo fino al 5% del Pil.

Contrariamente a quanto si afferma nelle piazze Pd (Roma, Bologna), non c’è differenza alcuna fra il riarmo dei singoli Stati e la difesa europea, per il semplice fatto che per una difesa europea ci vorrebbero uno Stato europeo con un esercito europeo. Né l’uno né l’altro esistono. È un’altra grande menzogna. Non solo: il piano Riarmo-Europa è realizzabile in un solo Paese: la Germania. Gli altri Stati sono troppo indebitati. Stramazzerebbero. Se questo è l’obiettivo (la supremazia tedesca sia economica sia militare) il pericolo è vicino. Possiamo immaginare quel che ne pensa la Russia, dopo 27 milioni di morti nella Seconda guerra mondiale.

La marcia della follia smantellerà lo Stato sociale su cui si fondava l’Unione. Solo le spese militari saranno esentate dai vincoli dell’austerità. Non le spese per scuola, sanità, lavoro. Il capo dell’industria militare Leonardo, Roberto Cingolani, afferma senza vergognarsene: “Se ti crolla il tetto della casa, devi ripararlo e magari mangiare meno”. Merz in Germania propone la revisione del sussidio cittadino – il nostro perduto reddito di cittadinanza. Starmer taglia i benefit per i poveri: non si sa perché lo chiamano laburista. Oppure è laburista come Blair, che promosse la Coalizione dei Volenterosi contro l’Iraq. Non so con che faccia tosta quest’indecente denominazione – Coalizione dei Volenterosi – venga resuscitata da Macron e Starmer.

C’è chi ha detto, qualche giorno fa: “L’unico modo per trattare il M5S è cancellarli”. È la Neolingua mediatica e politica: cancelliamo chi chiede la pace, cancelliamo tv e cultura russe così non sappiamo cosa si pensa in un grande Paese europeo accanto a cui vivremo migliaia di anni e con cui potremmo cooperare come nella Conferenza di Helsinki nel 1975.

Ma siccome non siamo qui per cancellare, è uno scrittore russo che vorrei citare, Anton Čechov: “Se in un romanzo compare una pistola, bisogna che spari”. La pistola di Čechov è il riarmo deciso da chi vuole una pace giusta (cioè ancora guerra): non una pace possibile. Il Pd nel Parlamento europeo approva (contro il parere di Elly Schlein) e tanti lamentano l’opposizione divisa. A me pare che su pace e guerra sia difficile il compromesso. È la socialdemocrazia tedesca che ha detto: dobbiamo ridivenire “pronti alla guerra” (kriegstüchtig). Che ha reintrodotto la pistola del romanzo europeo.

I governi europei non hanno fatto nulla per capire le radici della guerra. Per distinguere l’allargamento dell’Unione da quello della Nato. Non hanno mai osato ammettere che la pace in Europa è possibile solo se Ucraina, Georgia, Moldavia sono neutrali come l’Austria nel secondo dopoguerra. Continuano ad armare Israele come Donald Trump (Germania in testa), dicendo che il 7 ottobre riecheggia l’annientamento degli ebrei, ma quel che è venuto dopo a Gaza no, niente a che vedere con lo sterminio.

Alle piazze che favoleggiano di difesa europea andrebbe chiesto: quando mai l’Europa ha lavorato per la pace, tranne negli anni della distensione di Willy Brandt o quando Francia e Germania s’opposero alla guerra in Iraq?

L’Europa di oggi elenca i nemici esistenziali: Russia, Cina, Iran, Corea del Nord. È un po’ tanto, per un continente in declino. È una marcia della follia, simile in tutto e per tutto a quella che precedette la guerra del 1914-’18, che lascerà morire al posto nostro altre migliaia di ucraini con l’idea che chissà, magari stavolta rischiamo la Terza guerra mondiale, ma avremo tenuto a bada Trump.

Il nemico dell’Europa è il riarmo di von der Leyen

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 6 marzo 2025

Dicono molti commentatori che l’Europa si è fatta infine sentire: lo avrebbe fatto riconfortando Zelensky, dopo lo scontro di venerdì fra il presidente ucraino e Donald Trump, e promettendo un fenomenale riarmo e una guerra fredda a guida europea anziché statunitense.

Parigi e Londra sono pronte a schierare truppe in Ucraina, per garantirne la sicurezza dopo la tregua e l’accordo di pace con Mosca. Per ora Putin è contrario: non ha fatto la guerra per avere eserciti di Stati Nato al proprio confine.

Se questa è Europa, ben vengano le opposizioni al Piano di Riarmo, oggi al vertice dell’Unione. Non sono i progetti marziali della Commissione a facilitare la pace, ma le formidabili pressioni di Trump: martedì notte la Casa Bianca ha annunciato la sospensione di ogni aiuto all’Ucraina, compresi gli aiuti dei Servizi segreti, e il giorno dopo Zelensky ha accettato la mediazione Usa e proposto un’interruzione delle operazioni di aria e di mare. È quello che Papa Francesco un anno fa chiamò il “coraggio della bandiera bianca”. Viene l’ora di trattare con Putin, per fortuna non più paragonato a Hitler. L’apertura di Zelensky è giudicata positiva da Mosca.

Non si sa bene cosa si intenda, quando si invoca l’Europa: se i suoi cittadini, o i suoi Stati, o l’Europa parallela che Macron sta costruendo con Londra che non è più nell’Ue, o la Commissione guidata da Von der Leyen che non ha competenze in politica estera. Non si sa neanche fino in fondo il significato della manifestazione che il 15 marzo chiederà che l’Europa “dica qualcosa”, “parli con una voce sola”. Per dire cosa? Per quale politica estera, in un’Unione che su pace e guerra è divisa?

A motivare lo scandalo non è l’inaudita incapacità europea di concepire negoziati di pace con Mosca, ma la brutalità di Trump: è lui il nemico, accusato di umiliare Zelensky e costringerlo alla bandiera bianca. Tanto i morti non sono i nostri. Lo scandalo avrebbe senso se si parlasse di Gaza e degli aiuti Usa a Israele. Ma su Russia e Ucraina cosa si chiede? Che l’Europa negozi con Mosca un comune sistema di sicurezza oppure che inasprisca ancor più la conflittualità, contro la distensione tentata da Trump? E che vuol dire “difesa europea anziché riarmo” (posizione Pd), se manca una comune politica estera e diplomatica?

Venerdì alla Casa Bianca Zelensky si è infilato da solo nella tremenda trappola ripresa in mondovisione. Per capire l’evento tragico va vista l’intera conferenza stampa, e non solo l’esplosione finale. La conferenza non era cominciata male, Trump aveva elogiato l’esercito ucraino, ma Zelensky ha fatto di tutto per scatenare lo scontro. Ha parlato di Putin come di “un killer e un terrorista”, ha ripetuto che Mosca ha violato ben 25 volte gli accordi di tregua. Ha mostrato a Trump le foto di ucraini maltrattati dall’esercito russo e ha provocato il vicepresidente Vance: “Quale tregua?”. Inoltre ha reclamato un’assistenza militare Usa che equivalga di fatto al sostegno garantito dalla Nato.

Trump è un affarista neocoloniale che non esita ad accaparrarsi parte delle ricchezze minerarie ucraine (o russe se il Donbass resta russo) ma ha detto una cosa assennata: io sono al di sopra delle parti – ha ripetuto – non posso insultare Putin e al tempo stesso negoziare sulla fine dei bombardamenti.

Sarebbe stato ben più brutale se avesse detto un’ulteriore verità: l’Ucraina, la Nato e l’Europa hanno perso la guerra, ora si tratta di capire come mai è scoppiata. I continui allargamenti della Nato, la trasformazione dell’Ucraina in un fortilizio, il trattamento oppressivo delle minoranze russe e della loro lingua: tutto questo è vissuto come minaccia esistenziale a Mosca, non dall’invasione del ’22 ma dal 2008. Va ricordato che fu Trump nel primo mandato ad armare Kiev con i temibili missili anticarro Javelin, cruciali nella guerra odierna: Zelensky l’ha giustamente evocato nella conferenza stampa.

Si legge sui giornali che l’Europa si riunisce finalmente per contrastare Trump. E farebbe bene se lo contrastasse su Israele, cosa che non fa. Farebbe bene se difendesse l’Onu vilipesa da Washington anziché la Nato. Fa molto meno bene quando si presenta come Europa atlantista, fingendo d’ignorare la sconfitta storica della Nato e il radicale distacco statunitense dall’Europa.

Fuori posto è anche lo sdegno per il negoziato Washington-Mosca, che in un primo momento esclude Zelensky ed europei. È una lamentazione volutamente smemorata. Quando fu abbattuto il Muro di Berlino e cominciò a prefigurarsi l’unificazione tedesca (in realtà fu un’annessione della Germania Est), furono Bush padre e Gorbaciov a negoziare bilateralmente. Solo in un secondo momento le trattative si estesero alle due Germanie e ai firmatari degli accordi postbellici, Regno Unito e Francia. Allora la procedura apparve naturale. Gli unici che potevano sbloccare le cose erano Washington e il Cremlino. Ora invece si protesta, e non perché l’Europa sia più forte ma perché è diventata più inconsistente, più asservita alle industrie militari, meno addestrata alla diplomazia.

L’Unione è condannata all’irrilevanza se non richiama all’ordine rappresentanti pericolosi per la pace come Von der Leyen o l’estone Kaja Kallas, Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la sicurezza: un personaggio, quest’ultimo, che non ha mai fatto autocritica su quanto disse nel maggio ’24, poco prima d’esser nominata: “Non è una cattiva idea lo smembramento della Federazione russa in tante piccole nazioni”.

Quanto a Von der Leyen, memorabili sono le parole dopo il vertice euro-atlantico di Londra: l’Ue deve trasformare l’Ucraina in un “riccio d’acciaio indigesto a invasori” come la Russia. Il capo dell’esecutivo Ue non spiega come procedere, perché la politica estera e di difesa non è per fortuna di sua competenza. Se parla così è perché si mette al servizio delle industrie militari, non dei governanti e ancor meno dei popoli. Un sondaggio dell’Istituto inglese Focaldata rivela che i cittadini europei sono ostili alla strategia del riccio d’acciaio: una forte maggioranza di elettori francesi, tedeschi e inglesi vuole ridurre le spese militari o almeno mantenerle ai livelli attuali (il 66% in Francia, il 53 in Germania, il 54 nel Regno Unito). Dice James Kanagasooriam, capo dell’istituto di sondaggi: “I poteri politici sono alle prese con un enorme nodo gordiano”. È il nodo gordiano che lega indissolubilmente le politiche neoliberali di austerità alla militarizzazione dell’Unione.

Il “Piano Riarmo Europa” presentato martedì da Von der Leyen conferma in pieno il nodo gordiano. È annunciato un esborso di 800 miliardi di euro entro quattro anni: “Si apre un’era di riarmo. Questo è il momento dell’Europa. Siamo pronti a passare a una velocità superiore”. Una parte dei fondi europei destinati alla coesione sociale, territoriale e ambientale sarà dirottata verso il riarmo. È sperabile che qualcuno fermi la Commissione. Almeno per quanto riguarda i confini orientali d’Europa il pericolo è lei, non Trump.

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Alternanza senza alternativa – L’uomo solo all’Eliseo

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 14 dicembre 2024

Emmanuel Macron ha infine deciso, con l’indolenza che adora mettere in scena e che maneggia senza scrupoli per apparire monarca ombroso, vanitoso, capriccioso, ma pur sempre monarca assoluto. O come ripete da anni: Maestro degli Orologi. Chi sospira le sue insondabili decisioni pende dalle sue labbra: è la postura cortigiana da lui prediletta, reclamata. Dopo le Legislative di luglio nominò Michel Barnier dopo quasi due mesi. Il primo ministro nominato dopo la caduta di Barnier è François Bayrou, presidente di un partitino centrista – il MoDem, Movimento Democratico, 4,5% alle legislative – che appoggia Macron dal 2017.

Ancora una volta il Presidente s’ostina a ignorare le urne, che il 7 luglio avevano dato non la maggioranza assoluta, ma di certo la preferenza alle sinistre unite nel Nuovo Fronte Popolare. Bayrou ha il pregio di condividere la brama costante di Macron e degli oligarchi economici e mediatici che hanno facilitato la sua ascesa all’Eliseo: la brama di sfasciare l’unità delle sinistre, di attrarre nella propria orbita (oggi si chiama “blocco centrale”) i socialisti, gli ecologisti e i comunisti disposti a rinnegare il partito di Mélenchon alla loro sinistra.

Il Partito socialista promette di non sfiduciare Bayrou e per ora resta all’opposizione. Ma alcuni potrebbero tradire il Fronte Popolare. E non è detto che Bayrou terrà fede all’impegno di non ricorrere a decreti e voti di sfiducia come Barnier.

Se si vuol avere un’idea su quel che accade in Francia, tutto bisognerebbe fare tranne informarsi sui media francesi (e italiani a ruota): da tempo distorcono la realtà e la recente storia di Francia. Macron sarebbe alle prese con i “due opposti estremismi” di destra e sinistra che hanno affossato Barnier. Mélenchon, capo della France Insoumise (“Francia Indomita”, primo partito nel Fronte Popolare) è descritto come “mente della crisi”, “tiranno divisivo” e ancor peggio, quando proprio vuoi uccidere politicamente l’avversario: pro-palestinese dunque antisemita. Quanto ai socialisti e agli ecologisti, la qualifica più gettonata è: “ostaggi” delle trame di Mélenchon. Uscire dal Nuovo Fronte Popolare è descritto come una liberazione.

Tutte queste rappresentazioni sono false. Non esiste l’estremismo di sinistra, nella France Insoumise e meno che mai nel suo leader. Il programma che il suo partito ha concordato con socialisti ed ecologisti, quando Macron sciolse d’un colpo l’Assemblea non immaginando che le sinistre si sarebbero unite, è un programma socialdemocratico classico, dove per socialdemocratico s’intende il socialismo prima che venisse stravolto dai secessionismi centristi di Blair, Schröder o Renzi. I punti forti del Fronte Popolare: rilancio della domanda (cioè politica keynesiana), salario minimo, abolizione della riforma macroniana delle pensioni, e soprattutto fisco più giusto, cioè tasse sui più abbienti e sulle grandi corporazioni. Il programma di Mitterrand, nel 1981, era ben più radicale di quello di Mélenchon.

Ma evidentemente non è Mélenchon il punto. In agosto il capo degli Indomiti annunciò che, se era lui il problema, si sarebbe fatto da parte pur di salvare il programma delle sinistre e la candidatura di Lucie Castets. Macron rispose picche e fu un momento di verità. Dall’inizio del secondo mandato nel 2022 il presidente perde un’elezione dopo l’altra, ma non ammette alcuna alternanza che sfoci in una alternativa alla propria agenda. Un’agenda che reintroduca l’Imposta di solidarietà sui patrimoni, che tassi gli oligarchi che gli hanno spianato la strada dell’Eliseo, è per lui inconcepibile e inammissibile. Quel che chiede ai socialisti è l’abbandono della loro agenda elettorale. Tutto digerisce tranne che la sconfessione della propria politica: anche il tacito patto di non aggressione tra Barnier e l’estrema destra, lui che ha vinto due Presidenziali promettendo agli elettori di sinistra di incarnare la barriera contro Le Pen. Il patto Barnier-Le Pen si è infranto perché a respingere il neoliberismo dell’Eliseo non è un fantomatico patto rosso-bruno, come dicono i media anche in Italia, ma la stragrande maggioranza degli elettori.

Non è più democrazia, ma capriccio di un presidente psicologicamente instabile e profondamente di destra, e non a caso si moltiplicano gli studi sulla sua personalità. Il libro più citato è quello del sociologo Marc Joly, che descrive le sistematiche manipolazioni retoriche e i fallimenti mai ammessi in politica estera del presidente (Il pensiero perverso al potere). L’adesione sempre più netta al linguaggio e alla cultura delle destre, la negazione incaponita della realtà, il disprezzo per i movimenti sociali che hanno manifestato settimanalmente, dal 2018 per oltre due anni, contro le sue politiche (Gilet Gialli, movimento sulle pensioni): questo è Macron.

Il suo cammino ha ormai le sue tappe simboliche: le Olimpiadi, la restaurazione maestosa di Notre-Dame. Due Grandi Eventi che il presidente presenta come metafore dell’Amore della Francia, del “superamento di sé”, della Responsabilità che sola può dar vita a un’unità nazionale depurata d’ogni scoria ”estremista”. Solo a queste condizioni “l’impossibile diventa possibile”, declama davanti a un parterre di capi del mondo assiepati a Notre-Dame. Tornano in auge le “radici cristiane” d’Europa, non menzionate nel preambolo del Trattato di Lisbona grazie al veto di Chirac. Unica pietra di inciampo: l’assenza di Papa Francesco, che ha preferito programmare la visita in Corsica, nella periferia di una Francia quasi decristianizzata. “Non è venuto perché predilige gli umili”, così l’arcivescovo di Parigi.

La fatidica parola d’ordine, per convincere i socialisti a “emanciparsi”, è: cultura del compromesso. Tanti socialisti ne hanno appetito. Ségolène Royal, ex candidata all’Eliseo, è giunta sino ad augurarsi in tv una “società senza movimenti sociali”. In passato fu Blair a caldeggiare un’alternanza senza alternative alla politica della Thatcher. Ora il modello è un altro: la democrazia del compromesso praticata nel Parlamento europeo. L’esempio è truffaldino. È caldeggiato da tutti coloro (la quasi unanimità, nei media francesi) che spingono i socialisti a socialdemocratizzarsi, a smettere il vecchio confronto destra-sinistra, a imparare come si fanno i compromessi e si costruiscono coalizioni “in tanti Paesi europei”, ripete Macron da mesi, negando ancora una volta la realtà delle tante coalizioni infrante nel continente, dal governo Draghi a quello tedesco.

L’Ue non ha un governo, ma un Comitato che amministra gli affari discordanti di 27 Stati e, non avendo un governo, non ha mai maggioranze parlamentari che si diano il cambio. Nulla passa in quel Parlamento se non c’è accordo del blocco centrale (Popolari, Socialisti, Liberali, Verdi, Conservatori di Giorgia Meloni). Non c’è alternanza nell’Europarlamento, ma solo continua, soffocante compromissione. Citarlo come modello è non solo scorretto, sgrammaticato. È pensiero perverso al massimo grado.

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Provano a chiamarla “responsabilità”, ma è solo destra

di martedì, Dicembre 3, 2024 0 , , , , Permalink

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 3 dicembre 2024

Dopo il voto favorevole alla seconda presidenza von der Leyen, nel Parlamento Europeo, Elly Schlein s’è ingarbugliata: “Non è la nostra Commissione ma è giusto che parta. […] Non cediamo di un millimetro”. E Zingaretti, eurodeputato: “In noi non c’è alcun cedimento, ma un protagonismo perché la destra non si impadronisca dell’Europa”. Invece il cedimento c’è, e le rassicurazioni se ne vanno in fumo fin da subito. Da quando la sinistra ha cessato di esser tale, c’è un fossato tra quel che dice e che fa: lo chiamano Responsabilità.

Il Pd non solo approva una Commissione spostata a destra, ma assieme alle stesse destre vota il giorno dopo due mozioni neoconservatrici e anti-russe sulle armi a Kiev e sulle elezioni in Georgia, giudicate illegittime senza prove serie. Schlein si esercita in doppiezza, ma è assediata dai centristi del suo partito che da Bruxelles le sparano addosso contando di abbatterla. I 5 Stelle che con Avs sono nel gruppo “Left”, in Europa, hanno votato sia contro Von der Leyen sia contro le due risoluzioni, e per questo è opportuno che almeno loro restino in piedi.

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Guerre e migranti, il diritto è a pezzi

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 23 ottobre 2024

A forza di violarli e ignorarli, il diritto internazionale e quello europeo stanno diventando ininfluenti, inconsistenti come fossero soffioni: basta un soffio e i semi si disperdono nell’aria.

Accade nella guerra in Ucraina, e a Gaza, in Libano, in Cisgiordania. Non c’è convenzione internazionale e risoluzione Onu che sia rispettata, specie a Gaza dove secondo la Corte di giustizia dell’Onu è “plausibile” il genocidio, chiamato alternativamente sterminio o pulizia etnica.

E accade anche per quanto riguarda il diritto europeo, in questi giorni in Italia. Il diritto dell’Unione è preminente sulle leggi nazionali, e resta tale anche con il decreto sui Paesi sicuri che il governo ha varato lunedì come norma non più secondaria, ma primaria. La legge europea sancisce il diritto dei migranti a fuggire dal proprio Paese e a chiedere asilo in Europa, se la nazione di provenienza li perseguita o li minaccia, e dunque non è “sicura”. La Corte di giustizia europea ha confermato il 4 ottobre che i migranti non possono esser rispediti in Paesi che non siano sicuri in tutte le loro parti e per numerose categorie di persone.

È il motivo per cui il Tribunale di Roma, obbedendo alla vincolante legge europea, ha costretto il governo Meloni a riportare in Italia i dodici migranti trasferiti in Albania: i Paesi da cui erano fuggiti sono l’Egitto e il Bangladesh, che il governo italiano continua a ritenere sicuri e che per il diritto europeo non lo sono, né in parte né in toto. I giudici non potevano che disapplicare il trattenimento dei migranti in Albania, dove le procedure di rimpatrio sono accelerate e le tutele minime. Come ricorda giustamente Franz Baraggino sul giornale e il sito del «Fatto» ogni giudice italiano è anche giudice europeo, e “un Paese di provenienza è sicuro per tutti o non lo è per nessuno”.

Non bisogna tuttavia illudersi. Al pari del diritto internazionale, anche quello europeo sta disperdendosi nell’aria, perché il Patto sulla Migrazione e l’Asilo approvato nell’aprile scorso permetterà a partire dal 2026 di respingere con procedure d’urgenza chi fugge da Paesi solo in parte sicuri. Secondo la Commissione Ue, il nuovo sistema “è orientato ai risultati ma ben ancorato ai valori europei” (in inglese la dicitura è più cruda: il management sarà “sostenibile e dignitoso”).

Una serie di Paesi Ue insiste perché il nuovo Patto sia introdotto fin dal 2025. E non pochi governi, con la presidente della Commissione Ursula von der Leyen, elogiano il modello Albania sottacendo la questione Paesi sicuri. D’altronde non sono sicuri la Libia, l’Egitto, la Tunisia, il Sudan, con cui l’Unione ha stipulato costosi accordi di rimpatrio. Inoltre il primato del diritto europeo su quello nazionale è diffusamente contestato: dalla destra ed estrema destra in Francia, dall’estrema destra in Polonia.

Scrive l’avvocato Fulvio Vassallo che il nuovo Patto sulla Migrazione cancellerà gran parte del diritto d’asilo, proprio “nel momento in cui arriveranno i richiedenti asilo frutto delle guerre di cui sono complici gli Stati europei”. Allo svanire del diritto internazionale e delle sue Convenzioni (genocidio, rifugiati, tortura, protezione dei civili nelle guerre, diritto umanitario, diritti dell’infanzia, razzismo) contribuiscono anche gli Stati Uniti, come complici decisivi, che s’allarmano per il carnaio a Gaza e l’invasione del Libano ma facilitano ambedue fornendo bombe a Israele, aiutandolo in Libano e promettendo assistenza contro l’Iran.

Così vengono frantumate sia le leggi europee, sia le istituzioni e le leggi internazionali create dopo l’esperienza nazifascista.

È sotto attacco l’Onu, in prima linea. È ormai usuale trattarla come ostacolo irrilevante, e Netanyahu imita Washington che a partire dall’11 settembre 2001 ha scatenato guerre feroci contro gli “assi del male”, delegittimando e aggirando le Nazioni Unite. Il culmine lo sta toccando Netanyahu, convinto o istigato da ministri neofascisti che desiderano annettere Gaza e Cisgiordania.

L’assalto ai soldati Onu nel Sud Libano (Unifil) ha suscitato grande riprovazione, ma è solo l’ultima di una lunga serie di offensive israeliane contro l’Onu. Vari governi europei hanno definito “inaccettabile” quel che continuano ad accettare, come sempre accade quando si usa questo scabrosissimo aggettivo. “È una guerra contro il mondo”, si rammarica l’ex Presidente del Consiglio Prodi, e aggiunge una frase bizzarra: “Non avrei mai creduto che potesse avvenire”. In realtà tutto è già avvenuto. L’Onu e le sue leggi sono in fiamme da tempo e in particolare dopo l’attentato Hamas del 7 ottobre 2023.

È sotto attacco il Segretario generale Onu, che non si stanca di condannare la punizione collettiva che s’abbatte su un intero popolo (compresi bambini, donne, medici, giornalisti) per gli eccidi commessi da Hamas. A partire dal 2 ottobre, Antònio Guterres è stato dichiarato persona non grata in Israele per non aver subito deplorato la rappresaglia iraniana dopo l’assassinio di Nasrallah, leader di Hezbollah.

È sotto attacco l’Unwra, l’agenzia Onu che dal 1949 assiste i Palestinesi a Gaza e in Cisgiordania, oltre che in Giordania, Libano e Siria. Per il governo israeliano Hamas e Unwra sono la stessa cosa e nel gennaio scorso Netanyahu ha accusato dodici suoi rappresentanti di partecipazione al massacro del 7 ottobre. Il 22 aprile l’accusa è stata giudicata senza fondamento da un’analisi indipendente commissionata dall’On. A Gaza, le sedi Unwra, le sue scuole, i suoi ospedali sono stati rasi al suolo. Più di 230 suoi dipendenti sono stati ammazzati. Parecchi Stati occidentali, tra cui l’Italia, hanno sospeso i finanziamenti, sia pure temporaneamente, dopo la denuncia di Netanyahu.

Non per ultima è sotto attacco la Corte internazionale di giustizia, organo giudiziario dell’Onu. La Corte ha statuito nel gennaio 2024 che il rischio di genocidio a Gaza è plausibile, e ha ordinato a Israele di adottare entro un mese le misure per prevenirlo. La sentenza è denigrata dal governo israeliano.

Nonostante le tante violazioni, l’Occidente si proclama custode del diritto internazionale, specie in Ucraina. Ma anch’esso aggira l’Onu, propugnando un suo ordine basato sulle regole: quelle della Nato e di Washington. La tesi prevalente nei governi e nei media tradizionali è che accettare la sconfitta di Kiev vuol dire avallare le trasgressioni del diritto internazionale e la modifica bellicosa dei confini: cosa che l’Occidente ha già abbondantemente fatto, smantellando militarmente la Jugoslavia e rovesciando i regimi malvisti con soldi e armi. La Russia è malvista, ma è una potenza nucleare, dunque Washington per ora è prudente. Non ci sarà da stupirsi se l’Iran, osservando come vanno le cose, si doterà anch’essa del deterrente atomico, che Israele possiede da mezzo secolo.

In mezzo alle rovine del diritto internazionale ed europeo, non restano in piedi che l’equilibrio del terrore, e il falso progressismo di chi vuole accogliere i migranti solo perché “ci servono economicamente”.

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I giochi proibiti di Macron

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 3 luglio 2024

Macron voleva vedere l’effetto che fa. Il 9 giugno aveva appena sciolto l’Assemblea, per brutale ripicca e senza neanche avvisare il premier Attal, e con sorriso beffardo bisbigliò a un amico finanziere incrociato all’Eliseo: “Certo che sto bene! Gli ho gettato tra le gambe una bomba a mano senza sicura, e adesso vediamo come ne escono”.

Giocava ai soldatini e gli è andata male. Credeva di controllare tutto, e ora controlla giusto il rettangolino di terra su cui poggia i piedi.

Al primo turno delle Legislative ha assistito all’agonia del proprio partito, Renaissance, e alla quasi scomparsa della destra postgollista dei Radicali. Questi ultimi già s’erano disintegrati, l’11 giugno, quando Éric Ciotti, loro presidente, si alleò con i vincitori provvisori del giochetto di Macron: Marine Le Pen e Jordan Bardella. La lotta ora avrà come protagonisti cruciali la sinistra unita, che supera di gran lunga Macron, e un’estrema destra che non ha la maggioranza assoluta, ma che spera al secondo turno di ottenerla. E di trascinare con sé i Repubblicani restati fuori, se la maggioranza sarà parziale.

Torna dunque il conflitto destra-sinistra, solo che non è più destra ma estrema destra (Marine Le Pen tentò di abolire l’aggettivo “estrema”, ma nel marzo scorso il Consiglio di Stato glielo lo vietò). Macron aveva definito arcaico il conflitto, alle Presidenziali del 2017 e 2022. In ambedue le occasioni aveva promesso di sbarrare la strada a Le Pen, e ora è proprio lui ad aprirle i cancelli del potere, in una campagna che lo ha visto usare la sinistra radicale di Mélenchon come principale se non unico bersaglio.

Lunedì è parso svegliarsi. Ora auspica un Fronte Repubblicano per evitare che l’estrema destra ottenga la maggioranza assoluta, e non esclude più la desistenza dei propri candidati che al turno di domenica prossima restano in lizza come terzi (cosiddette triangolari). È giunto sino a ricordare ai ministri che nel 2017 e 2022 furono le sinistre a dargli la maggioranza: “Senza di loro nessuno di voi sarebbe qui”. Neanche lui.

Ben tardiva resipiscenza, che potrebbe raddrizzare le cose ma difficilmente. È mancato l’appello pubblico: dall’Eliseo è arrivato appena un sussurro a redazioni e reti Tv. E manca l’invito esplicito a ritirare tutte le candidature centriste arrivate al terzo posto e a votare per le sinistre, anche quelle calunniate di Mélenchon (“Bisognerà valutare caso per caso”). Per tutta la campagna elettorale, fin quando a sinistra è nato il Nuovo Fronte Popolare, Macron è stato ben più aggressivo con Mélenchon che con Bardella, e così si sono comportati Attal e i ministri. L’estrema destra era un pericolo per l’economia, ma Mélenchon era l’ignominia personificata: dopo il primo turno Macron lo definì antirepubblicano, antiparlamentare e soprattutto – l’accusa più infamante e menzognera – antisemita, per via del sostegno di France Insoumise (“Francia Indomita”) allo Stato Palestinese. Non solo: il costo delle riforme di Bardella ammontava secondo l’Eliseo a 100 miliardi, quello delle sinistre a 300.

La svolta in extremis del presidente pesa poco, per ora. Ben sette ministri ripetono come automi la formula presidenziale delle settimane scorse: “Né Bardella né Mélenchon”. Solo alcuni auspicano una “desistenza incondizionata” a favore di qualsiasi candidato di sinistra capace di vincere nelle triangolari.

Il ripensamento presidenziale, la presa di coscienza di alcuni macroniani, la proposta di Attal di una maggioranza alternativa che comprenda tutta la sinistra, qualora Bardella non avesse la maggioranza assoluta: sono elementi che potrebbero contare, ma è probabile che le scelte degli elettori abbiano ormai messo radici. In primo luogo perché anche se al primo turno non votano maggioritariamente Le Pen, di sicuro la maggioranza detesta Macron. In secondo luogo perché Bardella stesso ha cambiato idea. Aveva detto che avrebbe governato solo con la maggioranza assoluta e ora gli va bene anche quella relativa, sicuro com’è che i Repubblicani non passati all’estrema destra lo sosterranno dopo il secondo turno.

Il fatto è che la vittoria totale o parziale di Bardella/Le Pen non si decide solo tra i partiti e neppure solo tra gli elettori. Essa è oggi favorita da una vasta maggioranza in parte occulta, potente, spregiudicata. Sono i veri poteri che muovono le pedine: i grandi magnati che posseggono giornali e Tv (Vincent Bolloré in prima linea, detto anche Barone Nero perché protettore di Le Pen, Dassault, Bouygues, l’armatore Rodolphe Saadé), e inoltre i poteri finanziari, la Confindustria, le varie lobby industriali che temono come la peste le proposte delle sinistre: la giustizia fiscale progressiva in primis, smantellata da Macron, e le tasse sui redditi alti, le imposte sulle multinazionali e sulle aziende che più hanno profittato della crisi pandemica e inflazionistica (farmaceutica, energia, ecc.). C’è infine la lobby israeliana, sostenuta da intellettuali fossilizzati e tuttavia regolarmente invitati in Tv (Bernard Henri Lévy). Serge Klarsfeld, illustre studioso della Shoah, ha annunciato che in ogni caso meglio Le Pen di Mélenchon.

Per tre settimane c’è stato un coro unanime contro Mélenchon, figura trainante del Nuovo Fronte Popolare. Se si esclude qualche giornalista, nessuna rete radiotelevisiva, pubblica o privata, ha maneggiato senza malafede l’accusa di antisemitismo, lanciata contro chiunque avesse manifestato per i palestinesi decimati a Gaza, pur condannando il pogrom del 7 ottobre. Nessuna che abbia cercato di capire il ruolo di Mélenchon, la sua popolarità nell’elettorato popolare.

Macron e i suoi fedeli fanno capire che si può discutere e governare con “socialdemocratici e moderati” del Fronte Popolare, in caso di vittoria parziale dell’estrema destra. Quello che non calcolano è che Mélenchon esce dal primo turno molto più forte di socialisti, ecologisti e moderati.

In Italia ci sono commentatori – ad esempio al «Foglio» – che non s’allarmano, perché le Borse son calme e “l’instabilità politica non vuol dire automaticamente instabilità economica e finanziaria, in particolare se si tratta della seconda economia dell’Eurolandia”. Forse ci siamo talmente abituati all’estrema destra governante che ci abbiamo fatto il callo. Non a caso Bardella studia l’Italia, ripromettendosi di caldeggiare come Meloni Eurolandia e Nato.

Forse però si trascura il fatto che il piano Bardella ha elementi da noi improponibili. Tra i suoi progetti c’è l’impegno a non assumere in imprecisati “posti sensibili” i cittadini binazionali (3,5 milioni); l’assistenza sanitaria negata a immigrati irregolari, con rischi enormi per la salute di tutti; gli assegni familiari tolti ai genitori di minorenni recidivi. Alle domande scomode di sinistra, Bardella risponde con sorriso agghiacciante: “Eccoci, Jean Moulin è di ritorno!” (resistente morto in deportazione).

I mercati forse apprezzano, mini-comuni e Francia rurale si sentono ascoltati, ma il Paese intero non potrà che soffrirne e spezzettarsi.

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Ue, Meloni e il favore delle tenebre

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 20 dicembre 2023

Non c’è da stupirsi se Giorgia Meloni si mostri soprattutto intimorita dagli attacchi di Giuseppe Conte, e si nasconda dietro polemiche frivole per dissimulare questo timore.

Il leader del Movimento 5 Stelle è l’unico esponente forte, nell’opposizione, a mettere sotto accusa la politica estera del governo, e a chiedere un cambio di rotta sulle due questioni fondamentali: la guerra in Ucraina e quella d’Israele a Gaza. L’unico a intuire, fin dal governo Draghi, che l’acritica subordinazione agli Usa – e dunque alla Nato – produce disastri per l’Italia e l’Ue, screditando ambedue sul piano strategico, economico e morale.

Di qui la domanda di Conte: che lo Stato italiano si faccia sentire, in Ucraina con iniziative diplomatiche, a Gaza minacciando di sanzionare Israele per l’uccisione e espulsione dei palestinesi – in massa – dalla terra di Gaza. Più di 7.000 bambini sono stati ammazzati dall’esercito israeliano, senza alcun rapporto causale con il pogrom sanguinario del 7 ottobre. Si dice che l’Italia non conta nulla, e in gran parte è vero. Ma conta parecchio come Stato esportatore di armi: è tra i primi nel mondo (3,8% delle vendite globali), e alla testa del ministero della Difesa come nel Pd c’è chi cura questo commercio da anni.

Sostiene Giorgia Meloni che Conte approvò la riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes) senza consultare il Parlamento e “con il favore delle tenebre”. Ha mentito ben sapendo come andarono le cose, e roteare irosamente gli occhi non trasforma le bugie in verità. Vero è invece che il suo governo sta muovendosi con il favore delle tenebre nella guerra medio orientale. Lunedì scorso Lloyd Austin, ministro della Difesa Usa, ha delineato quella che è una prima estensione della guerra di Gaza: una coalizione militare di dieci Stati decisi a fronteggiare l’offensiva crescente di guerrieri Houthi nel Mar Rosso contro navi mercantili che servono anche porti israeliani. L’Italia è indicata fra i paesi europei della coalizione, con Francia, Regno Unito, Spagna, Olanda, Norvegia. Di questo non si fa parola, né in dichiarazioni né in Parlamento. Forse manderemo soldati, forse solo armi. Comunque si procede senza spiegare alcunché.

Quanto all’Ucraina, le parole di Palazzo Chigi sfiorano l’oscenità. L’Italia “prova stanchezza” per il protrarsi della guerra e il fallimento della controffensiva ucraina di giugno (telefonata di Meloni con i due comici russi scambiati per dirigenti africani), e non è certo l’unico Stato europeo a dirsi spossato. Niente da eccepire, a prima vista: la “via d’uscita” auspicata da Meloni nella telefonata è urgente e necessaria, se si è consapevoli che via d’uscita significa, oggi, concessioni territoriali a Mosca.

Ma Meloni non completa il ragionamento accennando all’inevitabile compromesso Kiev-Mosca: esponendo prima dell’ultimo Consiglio europeo quel che intendeva nella telefonata rubata, si è permessa una frase grottesca e senza senso: “stanchezza […] non vuol dire non credere nella vittoria dell’Ucraina. Noi ci abbiamo creduto dall’inizio e continuiamo a crederci”.

Fin qui le insensatezze, le incoerenze, la paura di mettere in questione l’allineamento atlantico dell’attuale governo e di quello precedente. Se aggiungiamo l’aggettivo “osceno”, è perché sentirsi “stanchi” di fronte al cumulo di morti ucraini che continua a crescere e crescere senza che i notiziari Tv dicano più nulla (solo su YouTube si vedono brandelli della battaglia: uomini che si rotolano già semi morti nel fango che sta ghiacciandosi) vuol dire nascondere il fatto che è stato l’Occidente collettivo, su ordine statunitense e britannico, a volere il protrarsi di un conflitto che poteva finire poche settimane dopo l’invasione russa, quando Washington e Boris Johnson in persona proibirono a Zelensky di smettere la guerra e gli ordinarono di cestinare l’accordo sulla neutralità militare ucraina, approvato da Kiev e Mosca fra il marzo e l’aprile del 2022.

Stanchi di cosa, allora? Ecco governanti europei che contemplano tutto quel sangue e quel fango che loro stessi hanno voluto si perpetuasse e che lo vogliono ancora. Ecco il Presidente del Consiglio Meloni (ma anche il Presidente Usa, e quasi tutti i capi di Stato e di governo dell’Ue) che sragiona e agisce come Lady Macbeth, complice e aizzatrice del marito che opera alla Casa Bianca: “Le mie mani sono del tuo stesso colore, ma mi vergogno di avere un cuore così bianco”. Il cuore così bianco e tuttavia insanguinato è quello degli Europei e dell’Italia. Stanchezza vuol dire noia, sazietà. Questa è l’oscenità, davanti a tanti morti. Avviene anch’essa col favore delle tenebre.

Altra indecenza: quel che succede a Gaza. Gli europei possono poco, perché solo Washington possiede strumenti di pressione efficaci perché cessino gli eccidi e lo svuotamento di Gaza perpetrati da Netanyahu. Ma potrebbero esercitare a loro volta pressioni sull’alleato statunitense, perché non si limiti a parlare ma agisca. Biden mette in guardia contro la pulizia etnica non solo a Gaza ma anche in Cisgiordania, per opera dei coloni armati dal governo israeliano. Ma s’indigna a parole. Nei fatti continua a aiutare militarmente Israele, e moltiplica addirittura le forniture di missili e munizioni, secondo l’agenzia Bloomberg.

Gli alleati di Israele esprimono sdegno e sbandierano parole d’ordine ormai desuete (“Due popoli in due Stati” è inconcepibile, alla luce degli eccidi e delle deportazioni) e pensano che la soluzione consista nello spodestamento di Netanyahu. Sono menzogne, come quelle proferite sull’Ucraina. Con o senza Netanyahu, lo Stato di Israele è incapace per ora di escogitare un accordo con i Palestinesi. E se oggi i due Stati sono dichiarati a Tel Aviv impossibili, resta in piedi solo l’opzione Grande Israele, cioè l’annessione più o meno esplicita di Cisgiordania e Gaza. A quel punto i numeri di ebrei e palestinesi si pareggeranno (7,3 milioni gli ebrei; 7,3 i palestinesi). Israele potrà sopravvivere come Stato ebraico solo con l’apartheid. Disfarsi di Netanyahu è opportuno ma insufficiente: gran parte della classe dirigente israeliana si è assuefatta alla colonizzazione dei territori e non sa più farne a meno.

Intanto sta accadendo quel che Biden e gli Europei temevano di più: non solo le sistematiche violenze in Cisgiordania, e il definitivo seppellimento dell’Autorità palestinese operato dai coloni (in accordo con le volontà di Hamas), ma l’estensione graduale del conflitto, in Libano e oltre. Gli Houthi che vengono dallo Yemen e l’inattesa forza che possiedono (missili balistici lanciati contro le navi mercantili nel Mar Rosso) sono stati sottovalutati per settimane, e ora nasce l’idea di una coalizione per fronteggiarli. La coalizione in realtà esiste già (la Combined Maritime Force, a difesa del cosiddetto ”ordine internazionale basato sulle regole” che gli Usa tentano invano di imporre), ma nuove coalizioni armate vedono la luce: col consenso degli Europei e dell’Italia, e ancora una volta col favore delle tenebre.

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Perché bluffano sulla pace ucraina

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 4 dicembre 2022

È abbastanza incomprensibile, perché illogica, l’euforia sprigionata per qualche ora, mercoledì, dai colloqui Biden-Macron a Washington.

Si è parlato di mano tesa a Putin; di una conferenza di pace imminente, fissata per il 13 dicembre a Parigi e destinata in origine al sostegno di Kiev. Si è ipotizzato un allineamento di Biden a Macron, più incline alla diplomazia e portavoce anche se timido dei malumori popolari in un’Europa che paga gli effetti economico-sociali della guerra ben più degli Stati Uniti. Perfino nel governo italiano, che di trattative non discute mai – né con Draghi né con Meloni – si comincia a sussurrare, per tema di figurare come Ultimo Mohicano, che pace o tregua sarebbero auspicabili.

Basta ricordare alcune circostanze per capire che si è trattato, almeno per ora, di un fenomenale bluff. Da mesi esistono sotterranee trattative russo-statunitensi, ed è vero che le guerre si concludono spesso con una finale escalation, come in Vietnam. Ma resta il fatto che nelle stesse ore in cui Macron incontrava Biden, Washington annunciava nuovi invii di armi e ripeteva che Mosca dovrà rispondere di crimini di guerra in tribunali internazionali. La stessa cosa diceva Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Ue, mentre il Parlamento europeo accusava Mosca, il 6 ottobre, di “sponsorizzare il terrorismo” (unici italiani contrari i 5 Stelle e tre eurodeputati Pd). Intanto Roma e Berlino approvavano nuovi invii di armi a Kiev: 50 carri antiaerei Gepard la Germania, dell’Italia non sappiamo perché vige scandalosamente il segreto.

Ma soprattutto un dato avrebbe dovuto mitigare l’inappropriata euforia. Appena due giorni prima del viaggio di Macron, il 29 novembre, i ministri degli esteri Nato riuniti a Bucarest avevano emesso un comunicato in cui si “riaffermano le decisioni prese nel 2008 a Bucarest, insieme a tutte le susseguenti decisioni concernenti Georgia e Ucraina” (“Porte Aperte” Nato ai due paesi). Il 25 novembre, il segretario generale della Nato Stoltenberg giudicava “irricevibile il veto russo” sugli allargamenti. Non sono stati sufficienti quindici anni di messe in guardia del Cremlino, più otto anni di conflitto in Donbass, più quasi nove mesi di guerra micidiale in Ucraina, per aprire un po’ le menti di Washington, della Nato, dell’Europa. Per capire che almeno quest’ostacolo a un ordine pacifico paneuropeo andava imperativamente rimosso.

Incomprensibile e illogico è appunto questo: l’illusione, la cocciuta coazione a ripetere che spinge il fronte occidentale a infrangere sistematicamente, con qualche effimero ravvedimento, quella che Putin ha definito invalicabile linea rossa sin dalla Conferenza sulla sicurezza del 2007 a Monaco. Nel vertice Nato di novembre tutti hanno sottoscritto il comunicato, Parigi compresa: dov’è il disallineamento di Macron?

Non meno illogica è la volontà Usa – dunque atlantica, dunque europea – di lasciare che sia Kiev a decidere l’ora del negoziato. Difficile “parlare con Putin”, se lo ritieni uno sponsor del terrorismo e se lasci che a decidere sia Zelensky, che oggi non può più fare marcia indietro senza perdere la faccia e forse la vita. Quanto al processo contro Mosca, l’accusa di violazione del diritto internazionale è giustificata ma a formularla non possono essere Washington o la Nato o alcuni Stati europei, colpevoli di ben più numerose violazioni in una lunghissima serie di guerre, da quella di Corea a quelle in Afghanistan, Iraq, Libia.

Gli Stati Uniti non hanno aderito alla Corte Penale, assieme a Russia e Cina oltre a Israele e Sudan. Washington ha auspicato l’intervento della Corte per Belgrado e Libia, e si è scatenata contro la domanda palestinese di processare l’apartheid israeliano nei territori occupati. Ma gli Stati Uniti, che hanno centinaia di basi militari sulla terra, vanno schermati da qualsiasi incriminazione. È il privilegio di una potenza il cui solo scopo è il mantenimento dell’ordine unipolare (detto anche “ordine basato sulle regole”, tutte nordamericane) che Washington ha riservato a sé stessa dopo la prima guerra fredda. L’Italia ne sa qualcosa, dopo la strage del Cermis nel 1998. Nell’ordine unipolare c’è un unico padrone e il padrone non si processa. Nemmeno il dissenso di giornalisti investigatori è ammesso: Julian Assange ha rivelato crimini commessi da Stati Uniti e alleati in Afghanistan e Iraq, e il giorno in cui sarà estradato negli Usa rischia una pena di 175 anni.

La verità è che c’è del metodo, nella marcata volontà d’ignorare le linee rosse indicate da Mosca. Non è per patologica cocciutaggine che si nega al Cremlino il diritto a spazi pacifici e neutrali ai suoi confini ma perché si ritiene che tali spazi appartengono alla sfera d’interesse Nato, quasi che Ucraina, Georgia o Moldavia fossero paragonabili a Cuba, immerse nell’Atlantico. Per questo la guerra ha da esser lunga e per procura, in modo da sfibrare la Russia in vista dello scontro giudicato prioritario: quello con la Cina. Con un alleato russo sfibrato, Pechino sarà meno forte.

Il problema è che a patirne è l’Ucraina. Il paese sta morendo sotto i nostri occhi, ridotto a un moncone privato dei territori più produttivi a Sud-Est, e a noi sta evidentemente bene così. Sta morendo perché l’invasore ha violato la sua sovranità ma anche a causa di un nazionalismo che Bush senior denunciò fin dal 1991 a Kiev, commentando la fine dell’Urss e l’indipendenza ucraina: “Non appoggeremo chi aspira all’indipendenza per sostituire una remota tirannia con un dispotismo locale. Non aiuteremo chi promuove un nazionalismo suicida fondato sull’odio razziale” (sia detto per inciso: anche la Lettonia che è nell’UE attua politiche segregazioniste verso il 48% dei cittadini, che sono di etnia russa). La guerra di Kiev e delle milizie naziste contro i russofoni del Donbass, iniziata nel 2014, convalida i timori di Bush sr, oggi dimenticato. L’inverno senza elettricità sarà atroce per gli ucraini, e noi guardiamo rapiti l’eroe che stramazza.

Chi esce spezzato dalla tragedia è l’UE: impoverita dalle sanzioni a Mosca, egemonizzata da un Est che ancora regola i conti (Ungheria esclusa) con l’ex Urss. Ursula von der Leyen ama indossare completini colorati di ucraino giallo-blu, sbaglia il numero dei morti ucraini, reclama sempre più sanzioni. Macron prova a differenziarsi ma è debole in patria e nell’UE.

Il governo italiano è allineato a Washington fin dai tempi di Draghi, manda armi ma non ha peso, affetto com’è da afonia. È ancora più afono con Meloni, perché ogni discordanza dalla Nato è fatale per l’estrema destra. Aveva un’occasione con Draghi, visto il prestigio. L’ha persa.

E forse nell’UE siamo uno Stato tra i più torbidi: perché l’unico a chiedere trattative, trasparenza, dibattiti parlamentari chiarificatori su guerra e pace è Giuseppe Conte, leader di un partito cronicamente etichettato come filorusso e filocinese e che tutti – a destra, al centro, nell’ex sinistra, nei media dominanti – desiderano delegittimare, senza riuscirci.

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Chi sono i veri traditori di Gorbachev

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 2 settembre 2022

Sulla stampa italiana e occidentale si piange in questi giorni la morte di Mikhail Sergeevich Gorbachev, indicando in Vladimir Putin colui che lo ha tradito, distruggendo la sua visione pacifica di una “casa comune europea” e riportando la guerra nel cuore del Vecchio continente, in Ucraina.

Molti di questi rimpianti sono intrisi di ipocrisia, oltre che storicamente zoppicanti.

È probabilmente vero che Gorbachev disapprovava la natura avventata e brutale dell’intervento militare in Ucraina. Anche se durante il suo governo non mancarono repressioni mortifere nelle repubbliche secessioniste (ad esempio in Lituania) Gorbachev ritirò pur sempre le truppe dall’Afghanistan, non usò la forza nei Paesi d’Europa centrale che volevano liberarsi del giogo sovietico, scommise con tutte le sue forze sui negoziati di disarmo convenzionale e nucleare fra Est e Ovest.

Non meno probabile è che il suo legame anche affettivo con l’Europa, e con la Germania in particolare, fosse più forte e tenace di quello manifestato oggi dal Cremlino. Ma parlare di un Gorbachev tradito dall’“imperialismo” di Putin è storicamente infondato e fuorviante: non tiene conto della “storia lunga” delle relazioni tra Russia, Europa e Stati Uniti, né dell’origine della nuova guerra fredda che Gorbachev aveva voluto eliminare, senza riuscirci, grazie al duplice scioglimento del Patto di Varsavia e della Nato.

Se si considera la storia lunga, e si include nei ragionamenti l’ultimo trentennio, si arriva infatti a conclusioni diverse, ben più sfumate. A tradire il progetto di “casa comune europea” senza più Nato e Patto di Varsavia, che Gorbachev propose al Consiglio d’Europa il 7 luglio 1989, poco prima che venisse abbattuto il Muro di Berlino, fu di certo Eltsin che lo spodestò sciogliendo l’Urss e il Partito comunista sovietico, ma fu in prima linea l’Occidente, con cui l’ultimo leader sovietico aveva negoziato l’unificazione pacifica delle due Germanie.

La promessa che gli Occidentali fecero al Cremlino tra il ’90 e il ’91, in varie riunioni bilaterali e nel Gruppo 2+4 (i 2 Stati tedeschi e i 4 vincitori della seconda guerra mondiale: Usa, URSS, Francia, Regno Unito), era che la Nato sarebbe rimasta in piedi, contrariamente al Patto di Varsavia, ma avrebbe tenuto debito conto degli interessi di sicurezza russi e non si sarebbe dunque allargata a Est: “neanche di un pollice”, assicurò il segretario di Stato James Baker. Stessa promessa fu unanimemente fatta da Mitterrand, Helmut Kohl, Margaret Thatcher e John Major, Manfred Wörner segretario generale della Nato.

Purtroppo l’inavvertenza di Gorbachev fece sì che l’impegno non venisse scritto nero su bianco. “Fu un’idiozia”, ha dichiarato di recente Roland Dumas, ministro degli Esteri francese che partecipò ai negoziati, “ma tutte le delegazioni tornarono dagli incontri con Gorbachev trascrivendo resoconti in cui la promessa è esplicitamente registrata”.

La promessa fu infranta a partire dal 1993-94 da Bill Clinton, che negò l’impegno preso, suscitò le prime irritazioni russe e impose nel 1999 il primo allargamento a Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria, in piena guerra in Jugoslavia. Pochi anni dopo mise in atto un’ulteriore provocazione, riconoscendo la secessione del Kosovo. Jack Matlock, ex ambasciatore Usa a Mosca, condannò gli allargamenti Nato e gli interventi militari nei Balcani: “Gli effetti sulla fiducia russa negli Usa sono stati devastanti. Nel 1991 l’80% dei russi avevano un’opinione favorevole degli Stati Uniti. Nel 1999, la stessa percentuale ci è ostile”. Nel 2004 l’Alleanza Atlantica aprì ai Baltici, e a Bulgaria, Romania, Slovacchia, Slovenia, sotto l’amministrazione Bush jr. Durante la presidenza Obama entrarono nella Nato Albania, Croazia, Montenegro.

Nel frattempo la mortificazione del Cremlino era diventata risentimento. Nel febbraio 2007, alla Conferenza annuale sulla sicurezza di Monaco, Putin denunciò l’arroganza occidentale e disse che la pazienza russa era giunta al limite. La sordità delle amministrazioni Usa fu totale e si cominciò a promettere l’allargamento Nato a Georgia e Ucraina (Berlino e Parigi si opposero, dunque non fu fissata una data per l’adesione). I progressivi allargamenti Nato agli Stati dell’Est e il loro riarmo costituiscono il vero tradimento della fiducia che Gorbachev aveva risposto nell’Europa e negli Stati Uniti.

Anche Gorbachev, come Putin, considerava tragica la fine dell’Urss, che non aveva saputo gestire né sventare. L’impero multietnico era preferibile, a suo parere, ai nazionalismi etnici che esplosero in Urss e che fecero di lui uno statista grandioso ma perdente. Di per sé, l’impero non è una forma politica negativa: se l’impero austro-ungarico fosse sopravvissuto non ci sarebbe forse stato l’annientamento degli ebrei d’Europa. Quel che Gorbachev avversò fu inoltre lo scioglimento del Partito comunista, che negli ultimi tempi voleva riformare ma sicuramente non abolire (importanti erano stati negli anni 70 gli impulsi degli eurocomunisti italiani o spagnoli, che avevano elaborato alternative al comunismo sovietico).

Prima di essere defenestrato da Eltsin – e da chi a Washington e in Europa sostenne l’usurpatore e impose una “terapia choc” che privatizzò l’economia russa, permise l’insorgere e l’arricchimento degli oligarchi e spinse la Russia sull’orlo della bancarotta – Gorbachev aveva in mente la trasformazione dell’Urss in una confederazione, con ampie autonomie riconosciute alle Repubbliche, specie alle più indipendentiste come i Baltici, la Georgia, l’Ucraina. Al pari di Solženicyn, fu sconcertato dall’indipendentismo ucraino e lo disapprovò apertamente. Approvò di conseguenza l’annessione della Crimea nel 2014.

Nel magnifico documentario-intervista di Werner Herzog (“Meeting Gorbachev”, 2018), l’ultimo presidente dell’Urss risponde con un sorriso come sempre mite ma leggermente sarcastico a una domanda del regista: “Gli Americani pensavano di aver vinto la guerra fredda e questo gli ha dato alla testa. Quale vittoria? Fu una nostra vittoria comune, e tutti abbiamo vinto!”. Una verità che le amministrazioni Usa s’ostinano a rifiutare, convinte come sono che la fine dell’Urss abbia legittimato l’unipolare predominio statunitense nel vecchio continente e nel pianeta, e sconfitto l’idea di una “casa comune europea”.

Sulla propria pietra tombale, Gorbachev confessa a Herzog il desiderio di veder scolpite le parole che Willy Brandt – altro gigante perdente – aveva immaginato per la propria lapide: “Ci abbiamo provato”.

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Gli orrori neonazisti in Ucraina e la guerra senza fine della Nato

di lunedì, Maggio 9, 2022 0 , , , , Permalink

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 9 maggio 2022

Man mano che passano i giorni, i neonazisti che combattono a fianco delle truppe regolari ucraine, e in particolare quelli asserragliati nell’acciaieria Azovstal, sono chiamati con nomi più benevoli: vengono presentati come eroici partigiani, difensori ultimi dell’indipendenza ucraina. Zelensky che inizialmente voleva liberarsi dei neonazisti oggi dipende dalla loro resistenza e li elogia. La loro genealogia viene sistematicamente occultata e anche i giornalisti inviati tendono a sorvolare, ricordando raramente che nel Donbass questa maledetta guerra non è nata nel 2022 ma nel 2014, seminando in otto anni 14.000 morti. Oppure si dice che il battaglione Azov è una scheggia impazzita, certo pericolosa ma non diversa da roba tipo Forza Nuova in Italia.

Invece il battaglione Azov è tutt’altra cosa: è un reggimento inserito strutturalmente nella Guardia Nazionale ricostituita nel 2014 dopo i tumulti di Euromaidan e ha legami organici con i servizi (Sbu, succedaneo ucraino del sovietico Kgb). Così come sono tutt’altro che schegge le formazioni neonaziste o i partiti vicini al battaglione: Right Sector (Settore di Destra), Bratstvo, National Druzhina, la formazione C14, il partito Svoboda oggi in declino, e vari drappelli militarizzati. Sono i partiti su cui Washington e la Nato puntarono durante la rivoluzione colorata di Euromaidan, perché Kiev rompesse con Mosca. Sono strategicamente cruciali perché la guerra per procura Usa-Nato-Mosca continui senza scadenza. Se davvero fosse una guerra locale tra Kiev e Mosca, il segretario della Nato Stoltenberg non avrebbe respinto con tanta iattanza la rinuncia alla Crimea, prospettata qualche ora prima da Zelensky come primo passo verso una tregua.

Oleksiy Arestovych è stato dirigente di primo piano di Bratsvo ed è uno dei consiglieri politici di Zelensky: attore anch’egli, esperto in propaganda, è maggiore nell’esercito ed entrò nei servizi segreti nel 1990. Nel 2014 si unì alla guerra contro i separatisti filorussi delle repubbliche di Donec’k e Luhans’k, partecipando a 33 missioni militari. Il massimo del successo, come blogger, lo raggiunse quando presidente era Porošenko, che più si adoperò per legittimare le destre russofobe e neonaziste inserendole nel sistema militare e amministrativo. Quando Zelensky vinse alle urne, Arestovych fu nominato suo consigliere speciale e portavoce del Gruppo di Contatto Trilaterale di Minsk, creato nel 2014 per negoziare con Mosca sul Donbass. Del Gruppo facevano parte Russia, Ucraina e Osce (l’Organizzazione Onu per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa).

Nel 2015, è all’Osce che la Fondazione per lo Studio della Democrazia (associazione civile russa) invia un rapporto sulle violenze perpetrate dai servizi del Sbu e da paramilitari neo-nazi non solo contro i militanti separatisti ma anche contro i russofoni non-combattenti del Donbass catturati assieme ai combattenti. Il rapporto cita e amplia un primo resoconto, pubblicato il 24 novembre 2014. Nel secondo si menzionano elettrocuzioni, torture con bastoni di ferro e coltelli, waterboarding (simulazioni di annegamento impiegate dagli Usa in Afghanistan, Iraq e a Guantanamo), soffocazione con sacchi di plastica, torture dell’unghia, strangolamenti tramite la garrota (detta anche “garrota banderista” in omaggio a Stepan Bandera, collaboratore dei nazisti nelle guerre hitleriane, eroe nazionale per l’estrema destra e occasionalmente anche per i governi ucraini).

In altri casi i prigionieri venivano sospinti a forza su campi minati o stritolati da carri armati. A ciò ci aggiungano la frantumazione di ossa, le temperature gelide delle prigioni, la sottrazione di cibo, la somministrazione di psicotropi letali. Lo Stato lasciò impuniti tali torture e trattamenti inumani, proibiti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Si trattò di azioni volutamente naziste se è vero che numerosi prigionieri ricevettero, sulla propria pelle, lo stampiglio della svastica o della parola “SEPR” (separatista) inciso con lame roventi sul petto o sulle natiche. La Costituzione ucraina, nell’articolo 37, proibisce l’esistenza di gruppi paramilitari nei partiti e nelle istituzioni pubbliche.

Torture e violenze simili sono evocate anche in documenti successivi, tra cui quello dell’associazione ucraina “Successful Guards” (14 settembre 2018). Il rapporto enumera le atrocità che vedono coinvolti partiti di estrema destra come National Druzhina, Bratstvo, Right Sector, e in particolare il gruppo C14, noto per aver stretto con numerose amministrazioni distrettuali – Kiev compresa – un Memorandum di Partnership e Cooperazione. Il C14 è responsabile non solo di azioni violente nel Donbass ma di pogrom contro i rom e di violenze contro le annuali commemorazioni di eroi antinazisti russi come Anastasia Baburova e Stanislav Markelov. Nel Donbass il C14 compie spesso azioni che il SBU non può legalmente permettersi, scrive il rapporto. Il metodo è sempre quello: l’esercito o il SBU o i ministeri dell’Interno e dei Veterani affidano i prigionieri sospetti di collaborazione con Mosca ai propri bracci torturatori: battaglione Azov o C14.

Queste violenze andrebbero rievocate, nel giorno che commemora la vittoria sovietica del ’45 e quella che Mosca chiama “grande guerra patriottica”. La chiamano così anche i commentatori occidentali, per dissimulare il fatto che fu una vittoria che liberò dal nazismo l’Europa intera, con gli alleati occidentali, e che costò alla Russia almeno 30 milioni di morti.

Da tempo si relativizza, sino a farlo scomparire, il contributo decisivo dell’armata rossa alla liberazione europea. Il contributo viene obliterato, come non fosse mai esistito, perfino dal Parlamento europeo (memorabile una risoluzione del settembre 2019 che attribuisce solo al patto Ribbentrop-Stalin le colpe della guerra e non fa menzione della Resistenza russa).

Il riarmo e l’allargamento a Est della Nato, uniti all’impudenza delle dimenticanze storiche e delle frasi di Stoltenberg, hanno creato tra Russia ed Europa un fossato quasi incolmabile, politico e anche culturale. A questo servono l’“abbaiare occidentale alle porte della Russia” denunciato dal Papa, l’oblio dello “spirito di Helsinki”, la russofobia in aumento. Sono misfatti che non giustificano la brutale aggressione russa del 24 febbraio, ma che certo l’hanno facilitata. Che spingeranno la Russia, per molto tempo, a prender congedo da un’Europa che sempre più crede di progredire confondendo i propri interessi con quelli statunitensi.

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