Tsipras, la divina sorpresa

di martedì, Gennaio 27, 2015 0 , , , Permalink

«Il Fatto Quotidiano», 27 gennaio 2015

Nella storia francese, quel che è accaduto domenica in Grecia ha un nome: si chiama “divine surprise”. Il maggio 68 fu una divina sorpresa, e prima ancora – il termine fu coniato da Charles Maurras – l’ascesa al potere di Pétain. La storia inaspettatamente svolta, tutte le diagnosi della vigilia si disfano. Fino a ieri regnava l’ortodossia, il pensiero che non contempla devianze perché ritenuto l’unico giusto, diritto. L’incursione della sorpresa spezza l’ortodossia, apre spazi ad argomenti completamente diversi.

La vittoria di Alexis Tsipras torce la storia allo stesso modo. Non è detto che l’impossibile diventi possibile, che l’Europa cambi rotta e si ricostruisca su nuove basi. Non avendo la maggioranza assoluta, Syriza dovrà patteggiare con forze non omogenee alla propria linea. Ma da oggi ogni discorso che si fa a Bruxelles, o a Berlino, a Roma, a Parigi, sarà esaminato alla luce di quel che chiede la maggioranza dei greci: una fondamentale metamorfosi – nel governo nazionale e in Europa – delle politiche anti-crisi, dei modi di negoziare e parlarsi tra Stati membri, delle abitudini cittadine a fidarsi o non fidarsi dell’Unione. Ricominciare a sperare nell’Europa è possibile solo in un’esperienza di lotta alla degenerazione liberista, alla fuga dalla solidarietà, alla povertà generatrice di xenofobie: è quel che promette Tsipras. I tanti che vorrebbero perpetuare le pratiche di ieri proveranno a fare come se nulla fosse. I partiti di centrodestra e centrosinistra continueranno a patteggiare fra loro – son diventati agenzie di collocamento più che partiti – ma la loro natura apparirà d’un tratto stantia; per esempio in Italia apparirà obsoleto qualunque presidente della Repubblica, se i nomi vincenti sono quelli che circolano negli ultimi giorni. Dopo le elezioni di Tsipras, anche qui sono attese divine sorprese che scompiglino i giochi tra partiti e oligarchie. Non si può naturalmente escludere che Tsipras possa deludere il proprio popolo, ma il pensiero nuovo che impersona è ormai sul palcoscenico ed è questo: non puoi, senza il consenso dei cittadini che più soffrono la crisi, decretare dall’alto – e in modo così drastico – il cambiamento in peggio della loro vita, dei loro redditi, dei servizi pubblici garantiti dallo Stato sociale. Non puoi continuare a castigare i poveri, e non far pagare i ricchi. Non esiste ancora una Costituzione europea che cominci, alla maniera di quella statunitense, con le parole “Noi, popoli d’Europa…”, ma quel che s’è fatto vivo domenica è il desiderio dei popoli di pesare, infine, su politiche abusivamente fatte in loro nome.

L’establishment che guida l’Unione è in stato di stupore. Meglio sarebbe stato, per lui, che tra i vincitori ci fosse solo l’estrema destra di Alba Dorata, e che Syriza avesse fatto un’altra campagna: annunciando l’uscita dall’Euro, dall’Unione. Non è così, per sfortuna di molti: sin dal 2012, Tsipras ha detto che in quest’Europa vuol restare, che la moneta unica non sarà rinnegata, ma che l’insieme della sua architettura deve mutare, politicizzarsi, “basarsi sulla dignità e sulla giustizia sociale”. La maggioranza di Syriza – da Tsipras a eurodeputati come Dimitrios Papadimoulis o Manolis Glezos  – ha scelto come propria bandiera il Manifesto federalista di Ventotene.

Dicono che Syriza sfascerà l’Unione, non pagando i debiti e demolendo le finanze europee. Non è vero. Tsipras dice che Atene onorerà i debiti, purché una grossa porzione, dilatata dall’austerità, sia ristrutturata. Che gli Stati dell’Unione dovranno ridiscutere la questione del debito come avvenne nel ’53, quando furono condonati – anche con il contributo della Grecia, dell’Italia e della Spagna – i debiti di guerra della Germania (16 miliardi di marchi). Che l’Europa dovrà impegnarsi in un massiccio piano di investimenti comuni, finanziato dalla Banca europea degli investimenti, dal Fondo europeo degli investimenti, dalla Bce: è la “modesta proposta” di Yanis Varoufakis, l’economista candidato di Syriza in queste elezioni. Quanto al dissesto propriamente greco, Tsipras ne ha indicate le radici anni fa: i veri mali che paralizzano la crescita ellenica sono la corruzione e l’evasione fiscale. “È un fatto che la nostra cleptocrazia ha stretto un’alleanza con le élite europee per propagare menzogne, sulla Grecia, convenienti per gli eurocrati ed eccellenti per le banche fallimentari” (Tsipras al Kreisky Forum di Vienna, 20-9-2013). Questi anni di crisi hanno trasformato l’Unione in una forza conflittuale, punitiva, misantropa. Hanno svuotato le Costituzioni nazionali, la Carta europea dei diritti fondamentali, lo stesso Trattato di Lisbona. Hanno trasformato i governi debitori in scolari minorenni: ogni tanto scalciano, ma interiorizzano la propria sottomissione a disciplinatori più forti, a ideologi che pur avendo fallito perseverano nella propria arroganza. Quel che muove Tsipras è la convinzione che la crisi non sia di singoli Stati, ma sistemica: è crisi straordinaria dell’intera eurozona, bisognosa di misure non meno straordinarie. Tsipras rimette al centro la politica, il negoziato tra adulti dell’Unione, la perduta dialettica fra opposti schieramenti, il progresso sociale. L’accordo cui mira “deve essere vantaggioso per tutti”, e resuscitare l’idea postbellica di una diga contro ogni forma di dispotismo, di riforme strutturali imposte dall’alto, di lotte e falsi equilibri tra Stati centrali e periferici, tra Nord e Sud, tra creditori incensurati e debitori colpevoli.

I Cie, zoo per umani ma senza erba

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Articolo pubblicato su «La Stampa», 23 dicembre 2014

Il 19 dicembre, come deputato europeo, sono andata in visita al Cie (Centro di identificazione ed espulsione) di Ponte Galeria presso Roma. Ero accompagnata da rappresentanti di alcune associazioni che si prendono cura della disperazione impotente di tanti migranti finiti in queste gabbie penitenziarie. Ho constatato quel che denuncio da mesi, e che è il fulcro della mia attività a Bruxelles: man mano che l’immigrazione aumenta in Europa, man mano che la sua natura muta (i più fuggono oggi da guerre o disastri climatici: per forza sono senza documenti), s’afferma nell’Unione un diritto emergenziale, che sospende leggi iscritte non solo nelle Costituzioni, ma nella Carta europea dei diritti fondamentali.
Così l’immigrazione diventa la nostra comune parte buia: buia perché inaccessibile all’informazione, buia per le ferite inflitte alla dignità della persona. Ogni giorno abbiamo notizie di violenze che colpiscono i migranti, nello spazio Schengen: a Melilla in Spagna, a Sangatte in Francia, e in Grecia, in Italia. Ogni giorno crescono partiti che raccolgono consensi trasformando il profugo in capro espiatorio: penso a Marine Le Pen e Salvini in Francia e Italia, a Dresda avamposto di islamofobi e neonazisti (Npd, Die Rechte). Penso all’Ukip inglese. Ovunque, i conservatori sono in competizione mimetica con l’estrema destra: da Cameron in Inghilterra a Rajoy in Spagna.
La visita a Ponte Galeria è tappa cruciale della battaglia che conduco dal primo giorno in Europa: contro la chiusura di Mare Nostrum e la rinuncia esplicita ai salvataggi in alto mare; in favore del riconoscimento reciproco dell’asilo nell’Ue e di corridoi umanitari che tolgano alle mafie il controllo sui fuggitivi; contro il disumano regolamento di Dublino che obbliga i migranti a chiedere asilo nel primo paese dove approdano, anche se la destinazione è un altro paese europeo.
Quel che ho visto nel Cie eccolo: uno zoo per umani, ma senza erba né alberi come quelli che oggi sono concessi agli animali. Una spianata di cemento e, anziché gli alberi, una fitta foresta di sbarre che delimita gli spazi dove i detenuti dormono, escono nelle gabbie antistanti le camerate, deambulano nel corridoio centrale, anch’esso cintato da barriere. Tutto a Ponte Galeria è grigio-ferro: le sbarre, il plexiglas che impedisce ai detenuti di salire sui tetti, le graticole che fasciano le finestre dei dormitori. Qui l’osceno si disvela per quello che è: un campo di concentramento per migranti non in regola con il permesso di soggiorno, di richiedenti asilo, di stranieri che hanno scontato pene ma non hanno documenti. Italia e Europa esibiscono la propria verità concentrazionaria senza pudore. E senza memoria.
Con alcuni militanti di associazioni che proteggono i migranti son qui a certificare l’orrore. Fuori dai cancelli, volanti e blindati. Dentro il Centro: un corridoio dove si susseguono stanze per gli incontri con i parenti, con i legali che convalidano detenzioni ed espulsioni, poi l’ambulatorio, poi lo psichiatra che però non c’è – è stato licenziato dai nuovi gestori.
Subito dopo, gli spazi geometricamente suddivisi del carcere-lager, a sinistra gli uomini a destra le donne: la geometria delle sbarre altissime, cui stanno aggrappati… come li chiamiamo? Il vocabolario dei custodi tentenna e scivola come liquido, senza solidificarsi. Li chiamano a volte detenuti, o perfino «utenti», «ospiti», più di rado «trattenuti».
Prima di entrare nei recinti chiedo ai custodi: «Si può parlare con loro?» – «Un momento, i capibanda sono altrove» – «I capibanda?». Sì, capibanda. Così sono interpellati i rappresentanti dei detenuti. Il lessico a Ponte Galeria s’impregna di malavita. «Comunque non entrate, sono agitati, pericolosi.» Da lunedì 15 dicembre il Cie è amministrato dalla francese Gepsa, specializzata in carceri. L’agenzia ha vinto la gara perché ha promesso tagli al personale e diarie decurtate ai detenuti (2,5 euro al giorno). I prigionieri parlano ossessivamente di spending review: un vocabolo appreso in fretta. Da lunedì manca quasi tutto, nel Cie: vestiti caldi, biancheria, calze, lenzuola di ricambio, spazzolini e dentifricio, assorbenti per le donne. I nuovi gestori dicono: sono inconvenienti temporanei.
Ma in realtà le norme sono le stesse: l’emergenza genera queste zone d’incessante non diritto. Ai reclusi è proibito tenere matite o penne, per evitare che inghiottendole finiscano in ambulatorio. È vietata carta da scrivere, per motivi arcani. Hanno il telefonino, ma non la connessione internet. Non hanno accesso a giornali. I gestori smentiscono, ma i detenuti sono esasperati perché di notte le luci al neon sono sempre accese. Di qui – anche – l’alto uso di sonniferi. Le tensioni s’alzano e scendono come maree, e a seconda del loro livello si dispiegano le forze d’ordine, manganelli in vista e pistole alla cinta.
Entriamo nelle camerate, dove ci sono 8-10 letti in uno spazio che ne dovrebbe contenere quattro. Dentro fa freddo come fuori; il riscaldamento è intermittente. I reclusi indicano le poche cose che ricevono: lenzuola di carta sbrindellate, una coperta, cibo scarso. Un detenuto ci mostra di nascosto un pettinino sbocconcellato: i pettini sono proibiti, vai a sapere perché. I più calzano sandali infradito, anche se fa freddo. Sono vietati i lacci delle scarpe. Un migrante ride dell’insensatezza: i lacci no, ma una cintura di spago per i pantaloni troppo larghi, «quella sì la possiamo portare e eventualmente impiccarci».
Tutti sono angosciati dall’igiene: sono giorni che non ricevono sapone, che non possono andare alla «barberia» (son vietate le lamette). Si vergognano molto di quest’incuria. Sono giorni che non hanno vestiti di ricambio: «Non ci piace puzzare, ma ecco puzziamo».
Tutti i buoni propositi di un eurodeputato vanno a sbattere inani contro quei volti di supplica disperata, che chiedono quel che dovrebbe essere normale: poter uscire dall’inferno in cui precipitano tutti, incensurati e non; avere informazioni (ma mancano gli interpreti); poter raggiungere i parenti che a volte non sono fuori Europa ma a due passi da qui; essere assistiti (il barbiere e lo psicologo sono le figure più anelate). E soprattutto: scongiurare il respingimento che l’Unione in teoria vieta, il rimpatrio lì dove la morte li aspetta.
Ho passato un pomeriggio con loro, e alla fine avevo l’impressione che fosse un anno fatto di impotenze. Continueremo a batterci per loro, è certo. Ma con quale prospettiva d’essere ascoltati da autorità nazionali ed europee? Una cosa so: quale che sia la nostra azione, in Europa e nelle associazioni, tutti ci stiamo macchiando d’una colpa. Perché questi zoo li abbiamo fabbricati noi. Perché li definiamo inaccettabili, allontanandoci da quei volti che chiedono risposte fino all’ultimo minuto – insopportabile – in cui incroci i loro sguardi. Ma anche questo sappiamo: nello stesso istante in cui dici «inaccettabile» e poi prendi il treno per tornare a casa, già hai accettato. Già sei sceso a patti con il tremendo.


Per ulteriori approfondimenti:

“Respinti dal Cie di Ponte Galeria. Noi che volevamo essere trattenuti!”: la lettera dei membri della delegazione organizzata dalla campagna lasciateCIEntrare, che non hanno avuto il permesso di entrare a Ponte Galeria, il 19, pubblicata su «Micromega».

Ponte Galeria, “La Guantanamo italiana”, la situazione al Cie dopo il cambio gestione, reportage di Veronica Di Benedetto Montaccini e Giacomo Zandonini su Repubblica.it.

Ue, i Commissari e il passato da cancellare

Lettera al direttore de «La Stampa», 21 ottobre 2014

Caro Direttore,

nei prossimi giorni il Presidente Jean-Claude Juncker presenterà ai parlamentari europei la sua nuova Commissione, chiedendo loro un voto favorevole. Per i singoli Commissari, le ultime settimane sono state faticose, a volte difficili: le audizioni cui ciascuno di essi è stato sottoposto non sono severe come negli Stati Uniti, perché il Parlamento europeo ha un rapporto ancora timido, e soprattutto confuso, con un potere esecutivo assai mal suddiviso fra Stati e organi comunitari. Ma parecchie domande sono state insidiose, le audizioni sono un esercizio democratico che purtroppo non esiste nelle nazioni europee, e ci sono commissari che non hanno superato la prova.

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I referendum delle società spezzate

Lettera al direttore de «La Stampa», 4 ottobre 2014

Caro direttore,

o per vizio ormai congenito, o per rimorso inconfessato, i governi europei tendono a far finta di niente, quando i propri cittadini esprimono malcontento e chiedono che l’Unione cambi alle radici. E accaduto dopo il voto del 25 maggio: la Commissione Junker è una non-risposta alle domande dell’elettorato. Ed è accaduto ancora una volta dopo il referendum scozzese del 18 settembre. Gli «unionisti» hanno vinto a malapena, e subito governo e laburisti giudicano la questione «risolta per una generazione»: il divorzio non s’ha da fare, dunque performativamente non si farà. Gli autonomisti hanno ottenuto la promessa di una devoluzione, ma il giuramento di Cameron è irto di tranelli. Primo fra tutti: se gli inglesi, che sono la stragrande maggioranza nel Regno, non potranno influire sui parlamenti regionali, allora anche questi ultimi dovranno smettere di sindacare sulle leggi decise dai deputati inglesi.

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Gli strabismi sulla guerra in Ucraina

Lettera al direttore de «La Stampa», 15 settembre 2014

Caro direttore,

fin dal marzo scorso, Helmut Schmidt mise in guardia i governi europei e Washington, su Ucraina e Russia: troppo grande era l’«agitazione» occidentale. Troppo pericoloso mimare la riedizione della guerra fredda con Putin, troppo vasta l’ignoranza della storia e di quel che essa dovrebbe insegnare. Ci insegna che si entrò così nella Prima guerra mondiale: barcollando come ubriachi che non vogliono quel che fanno, ma lo fanno lo stesso. E si precipitò nella catastrofe anche quando le guerre furono volute, pianificate: quando Napoleone invase la Russia nel 1811-12, quando Hitler ripeté la spedizione nel 1941.

La terza guerra mondiale che oggi stiamo rischiando nasce dagli stessi vizi: incompetenza, forme di ignoranza militante, scarsa prudenza, infine sterile agitazione. Lo stato di concitazione cui allude l’ex Cancelliere ha come principale conseguenza la disinformazione su quel che veramente accade sul terreno, e responsabili sono quindi non solo i governi ma, forse in prima linea, la stampa. Mancano autentici reportage sull’Est ucraino (sul Donbass essenzialmente, regione industrial-mineraria a prevalenza russofona; sul pogrom antirusso a Odessa del 2 maggio; sull’aereo abbattuto della Malaysia Airlines); come mancano sul governo di Kiev e come è nato: non da moti di piazza filoeuropei (il famoso Euromaidan fu presto catturato da nazionalisti russofobi). Lo sguardo di giornali e governi è affetto da grave strabismo, mettendosi di fatto al servizio di chi vuole disseppellire la guerra fredda. «Fuck the EU!», disse a febbraio il vice segretario di Stato Victoria Nuland, e i dirigenti europei hanno eseguito, accettando di negoziare il futuro di Kiev con Mosca e anche con Washington, che con l’Ucraina ha poco a che vedere. C’è un tono, nella stampa mainstream, che ricorda l’euforica depravazione semplificatrice che Karl Kraus mette in bocca ai giornalisti, descrivendo la Prima guerra mondiale negli Ultimi giorni dell’umanità.

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La falsa coscienza dell’Europarlamento

Lettera al direttore de «La Stampa», 23 agosto 2014

Caro direttore,

poco più di un mese e mezzo di lavori al Parlamento europeo sono un tempo breve, se si vogliono conoscere sino in fondo i meccanismi di funzionamento dell’Unione e soprattutto se si prova a immaginare quale possa essere la via per uscire – con una visione che sia operosa oltre che intellettualmente precisa – dallo stato di prostrazione, apatia, regressione nazionalista in cui versa il progetto di unificazione. Ma fin d’ora alcune cose importanti si possono dire.

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Così Berlusconi portò De Sade a Palazzo Chigi

di mercoledì, Luglio 23, 2014 0 No tags Permalink

«Il Fatto Quotidiano», 23 luglio 2014

La coincidenza delle date è già un segno, ominoso. Il 19 luglio 1992, Paolo Borsellino è trucidato a via D’Amelio, assieme a cinque ragazzi della scorta, per aver osteggiato la trattativa fra Stato e mafia. Ventidue anni dopo, il 18 luglio 2014, Silvio Berlusconi è assolto dai giudici della seconda Corte d’appello di Milano per l’affare Ruby.

La lezione di Borsellino: ci sono assoluzioni comode

I giudici hanno le idee chiare: non c’è stata concussione, dunque non è vero che l’ex presidente del Consiglio esercitò pressioni sui funzionari della Questura di Milano, la notte del 27 maggio 2010, per esigere, forte del potere che gli veniva dalla alta carica ricoperta, il rilascio immediato di Ruby, arrestata per ladrocinio. Le telefonate del premier ebbero come conseguenza il precipitoso affidamento di Ruby a Nicole Mi-netti, che la consegnò poi non ai servizi sociali ma a un’amica prostituta. Nemmeno è colpevole di prostituzione di minorenne, perché non aveva idea dell’età della protetta ed era inoltre convinto – così disse – che fosse la nipote di Mubarak: una balla monumentale, una delle tante che costellano il ventennio berlusconiano, accettata a scatola chiusa da una vasta maggioranza di deputati senza pudore nel febbraio 2011.

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Barbara Spinelli: «All’Ue serve una Costituzione fatta dai cittadini»

Intervista di Antonietta Demurtas, Lettera43.it, 27 giugno 2014

Barbara Spinelli di solito le interviste le fa, non le dà. Ma da quando è diventata europarlamentare nel gruppo della sinistra europea (Gue) con la lista Tsipras, ha accettato ogni sfida, compresa quella di dismettere i panni della giornalista e raccontarsi.

Da due settimane è arrivata a Bruxelles e al suo ingresso al parlamento europeo è stata accolta con grande affetto e curiosità da tutti coloro che più che Barbara conoscevano il padre: Altiero Spinelli, uno dei fondatori dell’Europa, a cui è dedicata anche l’ala più importante dell’aula. Ed è qui che Lettera43.it la incontra mentre corre da una riunione di gruppo a un’altra.

Capelli corti bianchi, vestiti lunghi neri e scarpe rosse, si aggira circondata dai suoi assistenti che la scortano nei grandi corridoi dove tutti i neo deputati camminano spaesati: «Questa macchina del parlamento europeo è mastodontica, un po’ mi spaventa», racconta.

Momenti di smarrimento, ma anche di grande euforia: «È un’avventura bellissima e sconosciuta per me. Non ho mai fatto politica tranne che per questa campagna elettorale». Ma la voglia di fare è tanta: «Mi sento battagliera».
Un sentimento che le ha dato anche la forza di lasciarsi alle spalle tutte le polemiche dovute alla sua scelta di accettare l’incarico parlamentare anziché rinunciarvi, come dichiarato all’inizio, in favore del secondo della lista, il vendoliano Marco Furfaro. Nessun senso di colpa, ma solo il desiderio di lavorare bene.

DOMANDA. Sente il peso dell’eredità di suo padre?

RISPOSTA. In gioventù l’ho sentito di più, ora è più un esempio, uno stimolo a fare delle belle battaglie. Anche se rimane il timore di non essere all’altezza, ma speriamo bene. Io mi sono buttata.

D. Aspira a lavorare nella commissione Costituzionale, che cosa vuole cambiare?
R. Penso che il trattato di Lisbona vada praticamente riscritto perché consacra soprattutto i rapporti di forza tra gli Stati.

D. Ha un modello in mente?
R. Come è successo per gli Stati Uniti dobbiamo avere una costituzione che sia fatta dai cittadini non dai governi degli stati membri dell’Unione.

D. Una vera federazione?
R. Sì, in cui i cittadini eleggano davvero il capo del governo ovvero il presidente della Commissione. E non come è successo in queste ultime elezioni.

D. Che cosa non le è piaciuto?
R. Ci si è esercitati per la prima volta a fare delle candidature ed è stato interessante, ma il Trattato dice chiaramente che la presidenza della Commissione appartiene, come proposta iniziale, agli Stati.

D. Quindi vorrebbe togliere questa parte?
R. Vorrei riconvocare una convenzione di parlamentari europei nazionali per democratizzare la Costituzione europea e dare molto più spazio ai cittadini prima che sia troppo tardi.

D. Suo padre aveva scritto il manifesto di Ventotene contro una guerra che divideva l’Europa. Oggi che cosa rischia di spaccare l’Ue?
R. La guerra economica: questa crisi ha separato profondamente gli Stati gli uni dagli altri, ha creato un enorme fossato tra Nord e Sud e ha risvegliato diffidenze profondissime, in particolare verso la Germania.

D. Che cosa la preoccupa di più?
R. Che la Germania sia vista in molte Nazioni come un nemico di vecchia data. È come se questo Paese fosse costretto o fosse portato a ripetere le egemonie che ha esercitato in passato.

D. Una volontà di potenza?
R. La cosa impressionate è che si ripetono gli errori precedenti all’ascesa di Hitler, come la politica recessiva insopportabile per i tedeschi e per grande parte degli europei dopo la Grande crisi. Questo ha buttato un intero popolo nelle mani del Führer.

D. Teme la ciclicità della storia?
R. Purtroppo si sta ripetendo la stessa politica tra la Prima e la Seconda Guerra mondiale e si dimentica invece la saggezza che c’è stata dopo l’ultimo conflitto.

D. Quale?
R. Quella di imparare la lezione: nel 1953 fu indetta una Conferenza in cui gran parte dei debiti tedeschi furono condonati. E quella parte non condonata che dovevano dare ai Paesi che avevano occupato, era legata alla ripresa economica della Germania.

D. Quello che si potrebbe fare adesso con i Paesi europei in difficoltà?
R. Sì, sarebbe una questione di giustizia storica e sociale. Ricordiamoci che alla Conferenza del debito abbiamo contribuito noi italiani che stavamo messi malissimo e i greci che vivevano in un Paese occupato dai nazisti.

D. Il semestre italiano è l’occasione per dare un’altra volta l’esempio?
R. Sono fiduciosa, anche se leggendo i vari documenti che il governo sta preparando e il discorso di Matteo Renzi fatto alla Camera il 24 giugno, vedo un divario potenziale tra una retorica molto europeistica e i fatti.

D. Cioè?
R. Le parole vanno tutte nella direzione: «Ci vuole un cambiamento radicale, una svolta, bisogna cambiare verso perché altrimenti l’Europa muore». Però poi quando si guardano le politiche concrete, non ci sono rotture di continuità rispetto al passato.

D. Più che la rottamazione bisognerebbe fare la rivoluzione?
R. La rivoluzione non ha più niente a che fare con la sinistra. E intendo la rivoluzione buona, quella che permette di cambiare radicalmente le cose. Di riprendere in mano la bandiera dell’uguaglianza, l’unica caratteristica che secondo Norberto Bobbio divideva davvero la sinistra e la destra. Io quella sinistra non la vedo più, non è certo quella che sta al governo.

D. Il suo collega eurodeputato Curzio Maltese dice, però, che bisognava dialogare con il Pd, lei ci sta provando?
R. Con i social democratici un dialogo è possibile, così come con i Verdi, con i Liberali. Ma quando parlo dei socialisti intendo quelli che sono capaci di mettere in discussione questa eterna grande coalizione che regna nel parlamento europeo ormai da anni e che li lega ai popolari.

D. Non le piace la Große Koalition?
R. No, perché è esattamente la stessa coalizione che ha approvato tutte le politiche di austerità a cominciare dal 2007-08 quando la crisi è cominciata.

D. I socialisti hanno perso la propria anima?
R. Sì, sono diventati quasi come una seconda destra.

D. Per questo auspica a una Syriza italiana: un partito radicale non identitario, alternativo al Pd?
R. Spero che qualcosa del genere nasca davvero, farebbe bene anche al Pd perché sono tante le forze dentro il partito che sono scontente di questo appiattimento.

D. Per esempio?
R. Molti sono profondamente scontenti di perdere un’identità alternativa socialmente, penso per esempio al gruppo di Civati. Ma anche a Fabrizio Barca, anche se non so quali siano ora i suoi programmi futuri, nessuno sa più che cosa vuole fare.

D. Barca si è imbarcato senza approdare da nessuna parte, verrebbe da dire.
R. Però le volte in cui l’ho sentito parlare nel suo giro d’Italia diceva cose interessanti molto in sintonia con Civati, che ha votato alle primarie. Gli darei la parola molto più spesso.

D. Con Renzi one man show è difficile…
R. Sì, ma non cadiamo di nuovo negli errori del passato. Di one man show ne abbiamo già avuto uno per 20 anni.

D. Meglio Beppe Grillo?
R. Oddio, Grillo ha scelto di stare in un gruppo talmente xenofobo e chiuso (l’Efdd di Nigel Farage, ndr) che, nel parlamento europeo, a meno che non ci siano defezioni di deputati del M5s, sarà molto difficile parlare con lui.

D. Le fa paura Renzi?
R. No, ma non mi piace il divario totale tra le parole e le azioni: dire ‘riporto il lavoro ai giovani’ e poi condannarli a un precariato che è ancora più pesante di quello che avevamo prima. Un pochino di congruenza sarebbe gradita. E poi nel partito lo trovo anche molto autoritario, ho l’impressione che non ascolti davvero il dissenso. Che abbia molta fretta.

D. La cosiddetta fretta dei giovani?
R. No, aveva fretta anche Berlusconi. Tutto questo correre, questo dare subito i risultati, 80 euro, facciamo qui, buttiamo giù il Senato, più che una voglia giovanilistica di fare le cose rapidamente, mi pare una cifra molto berlusconiana.

D. Teme di vedere messa in scena una fiction sul passato?
R. Speriamo che non sia una fiction, che non sia solo retorica, ma anche realtà. Il semestre non è ancora cominciato, vediamo che succede.

L’Altra Europa. A colloquio con Barbara Spinelli

Intervista di Vittorio Bonanni, «La Costituente», 01.2014

Barbara Spinelli è, senza tema di smentita, una delle firme più autorevoli e colte del giornalismo italiano. Nata a Roma il 31 maggio del 1946 dal padre Altiero e dalla madre, Ursula Hirschmann, è stata tra i fondatori del quotidiano La Repubblica, dal quale si è allontanata per passare prima al Corriere della Sera e poi alla Stampa, tornando nel 2010 a scrivere per il giornale di Ezio Mauro ed Eugenio Scalfari.

Con quest’ultimo si è recentemente scontrata sui temi cruciali della politica italiana, come il rapporto con l’Europa, il giudizio sul governo delle larghe intese e la critica al discutibile operato del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Questa sua crescente insofferenza nei confronti di questo quadro politico deprimente l’ha spinta, come è noto, a farsi promotrice, insieme ad altri intellettuali, della lista “L’altra Europa con Tsipras”, con riferimento al leader del principale partito della sinistra greca Syriza, candidato alla presidenza della Commissione europea. Lista alla quale hanno poi aderito altre numerose realtà nate sui territori e legate a determinati problemi o conflitti, e partiti politici come Rifondazione comunista e Sel, che si sono così ritrovati per la prima volta, dopo la scissione, seduti allo stesso tavolo.

Con lei abbiamo ricostruito le varie tappe che hanno portato, dal dopoguerra fino ad oggi, alla costruzione di un’Europa purtroppo ben diversa da quella che avrebbero voluto i suoi genitori.

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La fattoria degli animali

Dal sito de L’Altra Europa con Tsipras, 21 marzo 2014

Davvero ci sono situazioni in cui la parole sono dette per fingere grandi pensamenti e ripensamenti, dietro i quali sta in agguato il nulla. Per esempio Matteo Renzi: «I parametri di Maastricht sono anacronistici», ha tuonato prima di incontrare il Presidente della Commissione Barroso. Lo disse Romano Prodi più di dieci anni fa («Le soglie automatiche di Maastricht sono stupide»), e poi lo ripeté con ancor più forza nel novembre scorso: «È stupido che si lascino i parametri immutati 20 anni. Il 3% di deficit/Pil ha senso in certi momenti, in altri sarebbe giusto lo zero, in altri il 4 o il 5%. Un accordo presuppone una politica che lo gestisca, e la politica non si fa con le tabelline». E prima ancora Craxi, nel 1997: «Bisogna riflettere su ciò che si sta facendo: la cosa più ragionevole sarebbe stato richiedere e anzi pretendere, essendo noi un grande paese, la rinegoziazione dei parametri di Maastricht”.

Non sono mancati dunque gli aggettivi acerbi, i bei gesti disubbidienti. Ma basta una parola di Barroso, e l’attuale Presidente del consiglio si corregge, anche se nel più contorto dei modi. Restano anacronistici, i parametri, l’Italia chiede che i fondi strutturali siano esclusi dal calcolo delle soglie, ma comunque «saranno rispettati tutti i vincoli». Un bel salto mortale, per dire che tutto resta com’è.

Quanto all’Europa, non le si chiede alcunché: non un aumento del bilancio (il governo Monti accettò che venisse per la prima volta ridotto), non gli eurobond, non un piano di rilancio comunitario che sia finanziato dalla tassa sulle transazioni finanziarie e da quella sull’emissione di anidride carbonica, come sta per proporre un’Iniziativa Cittadina che cercherà firme in tutta l’Unione.

Eccoli, i gattopardi d’Europa. Dicono che vogliono combattere l’antieuropeismo, e lo rinfocolano. Dicono che vogliono raddrizzare l’Unione, e la storcono. Dicono che non sono alunni somari che si fanno dettare lezioni dagli Stati più forti, ma poi lo sanno, lo accettano: tutti i gattopardi sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri. Infatti Germania e Francia hanno sforato le soglie senza grandi problemi, nel 2003. E la Francia le sfora di nuovo quest’anno. Nella fattoria degli animali non c’è una sola idea che si muova, tra la bomba delle parole e il nulla dell’azione.