Lettera al direttore de «La Stampa», 21 ottobre 2014
Caro Direttore,
nei prossimi giorni il Presidente Jean-Claude Juncker presenterà ai parlamentari europei la sua nuova Commissione, chiedendo loro un voto favorevole. Per i singoli Commissari, le ultime settimane sono state faticose, a volte difficili: le audizioni cui ciascuno di essi è stato sottoposto non sono severe come negli Stati Uniti, perché il Parlamento europeo ha un rapporto ancora timido, e soprattutto confuso, con un potere esecutivo assai mal suddiviso fra Stati e organi comunitari. Ma parecchie domande sono state insidiose, le audizioni sono un esercizio democratico che purtroppo non esiste nelle nazioni europee, e ci sono commissari che non hanno superato la prova.
La slovena Alenka Bratušek è stata giudicata del tutto incompetente. L’ungherese Tibor Navracsics non otterrà il dicastero della cittadinanza, che Juncker gli aveva affidato non si sa se per insipienza o per ignoranza volontaria: l’uomo di fiducia di Viktor Orbán è noto per aver appoggiato l’offensiva del proprio governo contro il pluralismo dei mezzi di comunicazione e l’indipendenza di numerose associazioni cittadine, e per aver drasticamente ridotto, come ministro della Giustizia, l’autonomia del potere giudiziario.
Navracsics tuttavia resterà nell’esecutivo, e con lui altri Commissari poco adatti alla funzione che ricopriranno. Restano l’inglese Jonathan Hill e lo spagnolo Arias Cañete, rispettivamente responsabili dei servizi finanziari e di energia e ambiente, nonostante vistosi conflitti di interessi (il 70% delle società Petrolifera Ducar e Petrologis Canarias è tuttora nelle mani della famiglia Cañete, e Hill ha lavorato fino a ieri per la City di Londra). E resta Dimitris Avramopoulos: ex ministro della Difesa, nel 2012 fece costruire, lungo il fiume Evros tra Grecia e Turchia, un muro di filo spinato lungo 12,5 chilometri che ha chiuso le porte d’ingresso in Europa a migranti e fuggitivi, dirottandoli verso le coste italiane dove a centinaia sono morti annegati.
Il film delle audizioni, per chi l’ha guardato fotogramma dopo fotogramma, è molto istruttivo. Fa toccare con mano i modi in cui nasce e si cristallizza la figura del tecnocrate europeo, indipendentemente da quel che accade «fuori», nelle campagne elettorali e nelle discussioni pubbliche nazionali. Ogni commissario si presenta alle audizioni come se solo in quel preciso momento, uscendo dal nulla, si affacciasse alla vita politica. Come se, iniziato a nuova vita, ribattezzato, fosse l’emanazione di uno spirito divino che prodigiosamente cancella tutto quel che veniva prima: curriculum, parole dette o omesse, esperienze di governo e di partito.
Da questo punto di vista le audizioni pur essendo esperimenti democratici di grande valore hanno qualcosa di grottesco. Interrogato dai parlamentari europei sulle sue decisioni di chiudere le frontiere terrestri greche, Avramopoulos non ha avuto bisogno di negare il passato. Si è limitato a dire che domani sarà un altro giorno, perché adesso il suo compito è difendere gli interessi e addirittura i «valori» europei: «Combatterò la fortezza Europa!» ha chiosato, strappando l’applauso di parlamentari non meno immemori di lui. La stessa tattica della tabula rasa è stata adottata da Navracsics. Il suo passato di ministro della Giustizia è opaco, ma a Bruxelles il commissario comincia un’altra esistenza – lui ne è garante – che con le azioni di ieri non ha rapporto alcuno. Il responsabile del mercato unico digitale, l’estone Andrus Ansip, fu ieri un dirigente comunista, poi un premier ultra-liberista. Oggi ammette che lo Stato deve farsi più vigile sulla protezione dati.
Lo stesso Juncker è stato presidente dell’eurogruppo per anni, ma non risponde né del Fiscal Compact né dell’ideologia liberista che ha lungamente e infruttuosamente servito. Anche Jyrki Katainen, vicepresidente addetto a lavoro, crescita e competitività, vede la luce oggi per la prima volta: non è figlio del dogma tedesco delle case nazionali da mettere in ordine a qualsiasi costo prima che possa nascere un New Deal europeo. Così il vicepresidente Frans Timmermans: d’improvviso eccolo federalista, lui che da ministro degli Esteri olandese ha affermato per anni che rispondere alla crisi con più Europa è una chimera. Che nel giugno 2013 ha sostenuto – col premier olandese Mark Rutte – che «l’epoca dell’unione sempre più stretta» tra i popoli d’Europa (art. 1 del Trattato di Lisbona) era «conclusa».
I tecnocrati europei hanno un peso crescente nelle nostre vite, ma sono un libro su cui nulla è scritto. Sono fatti per un pubblico di ciechi, non di vedenti. A Bruxelles vengono immersi nel fiume Lete, come le anime morte destinate a trasmigrare in nuovi corpi. Nella politica statunitense i Born Againhanno avuto un ruolo di primo piano: prima Carter, poi Bush jr. e i neoconservatori evangelici si proclamarono Nati di nuovo, sequestrando a fini di potere le parole che Gesù dice a Nicodemo sulla rinascita dall’alto.
Juncker e i suoi commissari non credono che sia Dio a “parlare attraverso le loro persone”, come disse Bush jr. nel 2004, ma sembrano affidarsi a qualche spirito superiore (vien chiamato «interesse europeo», ma al momento coincide con l’«interesse dei mercati») che ha la virtù di trasformare il loro passato in pagina bianca. Forse perché devono obbedire, secondo l’articolo 17 del Trattato, a tre criteri necessari ma interpretati in maniera sempre più restrittiva (competenza, impegno europeo, indipendenza).
I Rinati di Bruxelles faranno forse bene, ma per molti versi gabbano i cittadini, facendo loro credere che l’Europa grazie a essi cambierà. Che il grande Piano Juncker di 300 miliardi in tre anni sarà l’equivalente di un New Deal comunitario. Se non aumenta le risorse proprie, l’Unione non farà alcun New Deal e continuerà a dipendere da contributi più che aleatori degli Stati, soprattutto se indebitati. Continuerà a produrre simili commissari: programmati per essere robot senza storia né memoria di sé, figure di un’Unione che dopo sei anni di crisi non sa e non vuole rinnovarsi.