«Il Fatto Quotidiano», 23 luglio 2014
La coincidenza delle date è già un segno, ominoso. Il 19 luglio 1992, Paolo Borsellino è trucidato a via D’Amelio, assieme a cinque ragazzi della scorta, per aver osteggiato la trattativa fra Stato e mafia. Ventidue anni dopo, il 18 luglio 2014, Silvio Berlusconi è assolto dai giudici della seconda Corte d’appello di Milano per l’affare Ruby.
La lezione di Borsellino: ci sono assoluzioni comode
I giudici hanno le idee chiare: non c’è stata concussione, dunque non è vero che l’ex presidente del Consiglio esercitò pressioni sui funzionari della Questura di Milano, la notte del 27 maggio 2010, per esigere, forte del potere che gli veniva dalla alta carica ricoperta, il rilascio immediato di Ruby, arrestata per ladrocinio. Le telefonate del premier ebbero come conseguenza il precipitoso affidamento di Ruby a Nicole Mi-netti, che la consegnò poi non ai servizi sociali ma a un’amica prostituta. Nemmeno è colpevole di prostituzione di minorenne, perché non aveva idea dell’età della protetta ed era inoltre convinto – così disse – che fosse la nipote di Mubarak: una balla monumentale, una delle tante che costellano il ventennio berlusconiano, accettata a scatola chiusa da una vasta maggioranza di deputati senza pudore nel febbraio 2011.
Non torna nulla nella sentenza della Corte d’appello, ma tant’è: grazie anche alla legge Severino, che attenua le responsabilità in casi di concussione per induzione e non per costrizione, impedendo ai giudici di derubricare il secondo e più grave reato nel primo e più lieve, vengono azzerate le colpe di un premier spinto a intervenire da sentimenti caritatevoli, e non per salvare una sua favorita, frequentatrice delle oscenità avvenute nella villa di Arcore, pagata regolarmente per le sue prestazioni sessuali, e dunque persona altamente pericolosa per quello che sapeva e che avrebbe potuto confessare a polizia e magistrati.
Il legame tra l’eccidio di via D’Amelio e l’assoluzione in secondo grado di Berlusconi non è incongruo. Non dimentichiamo che la battaglia di Borsellino, e prima di lui di Giovanni Falcone, non fu solo giudiziaria. Già da tempo, e con più insistenza poco prima di essere trucidato, Borsellino aveva deciso di smascherare una degenerazione più fondamentale nei rapporti tra politica e giustizia. Aveva detto che non sempre i giudici possono mettere ordine nei palazzi della politica: “La magistratura può fare soltanto un accertamento di carattere giudiziale, può dire che ci sono sospetti anche gravi”, ma non sempre “c’è certezza giuridica”. Sicché, quando certezza giuridica non c’è, sono “altri organi, altri poteri, cioè i politici, le organizzazioni disciplinari delle varie amministrazioni, i consigli comunali, a dover trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e mafiosi che non costituiscono magari reati veri e propri ma che rendono il politico inaffidabile nella gestione della cosa pubblica”. In altre parole: il politico sospettato che si “nasconde dietro lo schermo della sentenza” non può accampare la pretesa, sillogistica, di essere uomo onesto per il solo fatto che il Tribunale nell’incertezza l’assolve: “Il sospetto dovrebbe indurre soprattutto i partiti politici quantomeno a fare grossa pulizia, e non soltanto a essere onesti, ma ad apparire onesti facendo pulizia al loro interno di tutti coloro che sono raggiunti comunque da episodi o da fatti inquietanti anche se non costituenti reati”.
Nascondere dietro i cavilli le frequentazioni oscene
Credo che queste parole disvelino il vero significato della vicenda Ruby: la politica doveva fare una grossa pulizia al proprio interno, espellere quel che l’intossicava e la corrompeva, e non l’ha fatto, complice un centrosinistra disabituato da decenni al mestiere di opposizione. Non è vero che le procure e la giustizia usurpano uno spazio politico che non è loro, sprezzandone l’autonomia. Sono i corrotti della politica a usare la giustizia e ad affidarsi esclusivamente a essa, sperando di sfuggire con cavilli e leggi ad personam le condanne e l’estromissione dalle stanze del comando. I veri giustizialisti – se giustizialisti sono coloro che puntano tutte le loro carte sulle procedure giudiziarie – sono loro. Sono i politici che stanno acquattati in angoli oscuri senza muoversi (“Càlati giunco ché passa la piena” ), senza mai mettere in questione se stessi, e aspettando più o meno zitti che si muovano avvocati e giudici. Così Berlusconi con le sue storie di escort invitate alle feste di Arcore o a palazzo Grazioli. E prima ancora con la sua ininterrotta amicizia-complicità che lo lega a Marcello Dell’Utri, condannato per concorso in associazione mafiosa in via definitiva e attualmente detenuto nel carcere di Parma. O con lo stalliere Vittorio Mangano, che solo apparentemente era impiegato come stalliere e baby-sitter ad Arcore e in realtà lo teneva sotto controllo per conto della Cupola. È perseguibile penalmente un’amicizia pericolosa, una dipendenza, una complicità occulta? Non lo è, ma la colpa resta: questo diceva Borsellino, profeticamente anticipando le rovine italiane e la propria morte.
Non c’è miglior politico di quello ricattabile
Resta la colpa del politico perché il suo curriculum è contaminato da amicizie pericolose, da dipendenze che lo indeboliscono fino a minacciarlo irrimediabilmente. Per questo il dovere di “disciplina e onore” è iscritto nella Costituzione (articolo 54). E l’ex premier è contaminato non perché abbia aperto a Ruby o altre escort le porte di casa sua e di quel semi-pubblico palazzo Grazioli che per anni ha preso il posto di Palazzo Chigi. È contaminato perché, a partire dal momento in cui la casa viene aperta senza alcun controllo, il politico diventa persona ricattabile, in ogni momento e in maniera non prevedibile ma inevitabile.
Giustamente si è parlato di colpo di Stato, a proposito dell’estromissione di Berlusconi nel novembre 2011 e della sua sostituzione con Mario Monti. Colpo di Stato preannunciato dagli interscambi ridacchianti fra Nicolas Sarkozy e Angela Merkel, ai margini di un vertice europeo il 23 ottobre 2011. Ma se c’è stato colpo di Stato è perché Berlusconi, perseguitato non dalla giustizia ma dagli effetti di una privatizzazione sistematica della politica, si era reso già anticipatamente persona non affidabile, oltre che non grata, in Europa e oltre l’Europa. Perché era, appunto, ricattabile.
C’è chi contesta queste interpretazioni, e difende il libertinismo del politico contemporaneo. Ci sarebbe del fascino in chi trasgredisce ogni regola della decenza. In chi bandisce le regole e le convenzioni dallo spazio della Res Publica e vi installa – regina assoluta – la forza primeva della natura. Non stupisce che tra i difensori del libertinismo si ritrovi chi fa addirittura l’elogio della ricattabilità. Qui sarebbe l’originalità del politico astuto, la chiave del suo successo (Giuliano Ferrara a «Micromega», I-2002: in politica “devi essere ricattabile, (…) disponibile a fare fronte, a essere compartecipe di un meccanismo comunitario e associativo attraverso cui si selezionano le classi dirigenti. La politica italiana, come tutta la politica europea di ieri, di oggi e di domani, non può perdere del tutto questa caratteristica, e il giudice che decide del livello e della soglia di tollerabilità di questi comportamenti è il corpo elettorale”).
La questione non è solo costituzionale (il corpo elettorale non può prevalere sul potere giudiziario). La questione è insieme antropologica e politica. Il libertinismo ha una lunga storia, e ha come punto di riferimento due personaggi definiti divini per paradosso: l’Aretino nel XVI secolo, e poi il “divin marchese” che fu De Sade. Sade avrebbe potuto far proprie letterariamente le parole di Ferrara, e in genere la condotta di Berlusconi, anche se quest’ultimo non torturava ma blandiva favorite e concubine.
Chi oltraggia la natura ora riscrive la Costituzione
Lo spirito di negazione, l’idea che esista un superuomo che nega Dio in nome della natura, e sfida poi la natura stessa negando l’uomo (e la donna): Sade rappresenta tutto questo, non perché l’incarni ma perché lo mette in scena, sotto forma di rappresentazione votata all’estrema provocazione. Raffigurando teatralmente la negazione dell’uomo e di Dio, Sade è lo scandaloso demistificatore che nel ’700 abbatte tutti i tabù e le morali costituite. Che “narra” il trionfo del cinismo su un’etica divenuta ossificata convenzione e ipocrisia: “È la natura che voglio oltraggiare: voglio perturbare i suoi piani, contrastare il suo cammino, fermare il corso degli astri” (La Nuova Justine).
Ma Sade è uno scrittore. Lavora con la fantasia e la penna. Nelle sue opere erige il diritto del più forte a dogma assoluto e lo descrive, ma non è mai sceso in politica. Le sue fantasticherie erano paradossali e notturne. Il giorno era dominio degli altri. Perfino la Ragione, che la Rivoluzione francese proclamerà Dea, è nel suo mirino.
Il marchese De Sade installato a PalazzoChigi è dinamite non letteraria o artistica o naturale, ma pericolo pubblico che ha degradato e in parte distrutto l’Italia. Ancora oggi ne paghiamo il prezzo, se è vero che Berlusconi, rallegrato dall’assoluzione, si appresta con l’aiuto di Renzi a divenire, anche se tuttora condannato per frode fiscale, il padre rifondatore – e sovvertitore – della nostra Costituzione.