La “Succession” parigina: Macron punta sul caos

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 12 ottobre 2025

A prima vista sembra inspiegabile, la testardaggine capricciosa con cui Emmanuel Macron sforna un primo ministro dopo l’altro – l’ultimo è Sébastien Lecornu, fedelissimo, incaricato ben tre volte – pur di non ammettere l’evidenza: i partiti di centro che lo sostengono sono sempre più striminziti, la sua politica è stata sconfitta alle elezioni del giugno 2024, le ore del suo soggiorno all’Eliseo sono contate. Lunedì Lecornu spiegherà quel che l’Eliseo vuole e concede, ma presto cadrà anche lui, come i due premier (Michel Barnier, François Bayrou) che l’hanno preceduto. Invece la testardaggine e i capricci sono spiegabili. Se Macron resta abbarbicato al potere è perché non vuole in alcun modo che le proprie scelte neoliberiste vengano disfatte: in particolare la scelta di proteggere dal fisco le grandi ricchezze e la riforma delle pensioni che gli elettori di estrema destra e di sinistra respingono, chiedendone una più giusta.

Macron è “solo davanti alla crisi”, affermano giornali e reti tv, ma così solo non è. Lo appoggiano i grandi patrimoni, le multinazionali, le imprese raggruppate nella confindustria francese (Medef). È a loro che Macron promette regali fiscali da quando fu eletto nel 2017. Con loro si identifica, mentre la sua popolarità crolla al 13-14%.

Il dramma Succession è iniziato e nessun candidato presidente vuol essere contaminato dal macronismo, anche se sono rari quelli se ne discosteranno davvero. Giornali e televisioni insistono sulla riforma delle pensioni che sinistra ed estrema destra vorrebbero abrogare, e su finte mini-concessioni del binomio Macron-Lecornu. La riforma non sarebbe abrogata ma dilazionata o perfino sospesa, in attesa che passi quando sarà eletto il nuovo presidente, in teoria nel 2027 ma forse prima se Macron dovrà dimettersi. Ma ancor più temuta dall’establishment economico-finanziario è la tassa sugli ultraricchi – detta anche tassa Zucman, dal nome dell’economista Gabriel Zucman. Un’imposta minima, applicata ai patrimoni di chi ha redditi annui superiori a 100 milioni di euro: aiuterebbe a salvare lo stato sociale e anche le pensioni, grazie a un introito 15-25 miliardi. Ma la confindustria erige un muro massiccio a difesa dei regali fiscali di Macron e preme in prima linea sui deputati socialisti. L’organizzazione imprenditoriale ha diffuso nelle settimane scorse un opuscolo confidenziale – un kit di mobilitazione – che spiega ai singoli deputati la catastrofe che potrebbe derivare dalla tassa Zucman o tasse somiglianti: fuga di capitali, instabilità, caos infine. Il kit cita l’esodo dei capitali in Norvegia, quando fu approvata una tassa simile. Omette di dire che quell’imposta colpiva i redditi annui superiori a 1,7 milioni di euro, non i 100 milioni annui indicati da Zucman. La tassa viene descritta come diabolica “predazione della ricchezza”. Anche in questo caso la maggioranza dei francesi la sostiene (86%), mentre la classe politica sopisce, tronca e ascolta le lobby.

Per capire qualcosa del caos francese occorre andare indietro nel tempo e individuare il momento in cui l’idea di democrazia “rappresentativa” ha vacillato non solo sotterraneamente, ma in maniera palese. È accaduto poco prima della nascita dell’euro. Nel 1998, il presidente della Banca centrale tedesca, Hans Tietmeyer, se ne uscì con una dichiarazione dirompente: a decidere è il “plebiscito permanente dei mercati”, oltre a quello degli elettori. Nel 2007 Greenspan disse la stessa cosa: grazie alla globalizzazione sono i mercati mondiali a prendere le decisioni politiche. Monti espose tesi analoghe, da presidente del Consiglio, quando disse che non poteva negoziare il salvataggio dell’euro a Bruxelles “tenendo pienamente conto” del proprio Parlamento (Spiegel, intervista del 6.08.2012). Da allora l’appello alla sovranità popolare viene assimilato al populismo o sovranismo. Nella strategia di Macron la sinistra francese doveva essere sfasciata, e il tentativo di unione nelle Legislative del 2024 andava affossato. È quello che è accaduto.

Oggi il Partito socialista è un intruglio, ma su un punto è sicuro: la criminalizzazione dell’ex alleato Mélenchon, che propugna idee redistributive della socialdemocrazia classica e avversa l’economia di guerra in Francia e Europa. Accusato delle peggiori nefandezze – antisemitismo, filo-putinismo, radicalismo – Mélenchon è ben più temuto e ostracizzato dell’estrema destra di Le Pen-Bardella. Il Partito socialista rischia di imboccare la strada centrista proprio quando il centrismo vive in Francia un declino spettacolare. È la strada che esalta la “cultura del compromesso e dell’umiltà”, abusivamente chiamata socialdemocratica. Di fatto non è più sinistra. E la terza via di Blair, naufragata da tempo in Inghilterra. O di Keir Starmer, sull’orlo del naufragio.

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