Ecatombe a Gaza: Ue e Italia complici

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 31 maggio 2025

Grazie ai filmati trasmessi dai giornalisti palestinesi – i soli ammessi nelle zone di morte, più di 200 sono stati ammazzati dal 7 ottobre 2023 – i cittadini europei e statunitensi sono in grado di vedere gli effetti della carneficina di Gaza, e chi conosce un po’ il passato sa anche la natura di quel che vede: un popolo disumanizzato, l’uccisione di bambini, donne e anziani, una carestia pianificata, corpi umani ridotti a scheletri appena capaci di muoversi (i bambini che muoiono di fame non piangono).
Vari organismi Onu denunciano un genocidio: dal luglio 2024 la Corte di giustizia delle Nazioni Unite lo ritiene “plausibile”. Invano ha chiesto a Israele azioni di prevenzione e rimedio. Anche se arriverà una tregua, questi sono i fatti.
In lingua araba lo sterminio porta il nome di Nakba, già avvenuta nel 1947-49, quando 750.000 palestinesi furono cacciati e 15.000 uccisi. In ebraico la distruzione nazista degli ebrei si chiama Shoah, e ha lo stesso significato: catastrofe, annientamento. Le televisioni italiane hanno schiuso gli occhi, da quando la fame a Gaza ha raggiunto l’acme, ma ancora si guardano dal dare un nome finale e terribile all’esecuzione d’un popolo, e a pratiche neo-coloniali riabilitate dall’offensiva delle destre statunitensi ed europee contro il cosiddetto pensiero “woke”. I conduttori Tv schivano stizziti quelle che chiamano inutili dispute terminologiche: perché inutili?

Non solo: riprendendo il linguaggio israeliano continuano a parlare di “guerra”. Ma questa non è guerra, in nessun modo è paragonabile allo scontro militare – simmetrico o asimmetrico che sia – fra russi e ucraini armati dalla Nato, o al conflitto Pakistan-India. È un assassinio di massa senza più rapporto con l’atto terrorista del 7 ottobre (1.200 uccisi, 251 ostaggi). Hamas non schiera eserciti, lancia un certo numero di razzi. È un eccidio che mira ad ammazzare ed eliminare un popolo.
Dicono in Palestina che l’alternativa offerta ai suoi abitanti è chiara: “O te ne vai dai territori o muori”. È il piano Trump – Gaza come resort – definito da Netanyahu “brillante e rivoluzionario” (conferenza stampa del 21 maggio) L’alternativa è falsa: dall’inizio dell’ecatombe coloniale non sono consentite fughe e la prospettiva è una: la morte. La maggioranza dei gazawi vuol restare: d’altronde non può far altro. Così come vogliono restare i palestinesi in Cisgiordania, cacciati dai propri villaggi o uccisi dai coloni seguaci del sionismo messianico e armati da Israele. Aveva ragione lo studioso Lucio Caracciolo quando sin dall’inizio della rappresaglia israeliana disse che essendo chiusi i valichi e in particolare quello verso l’Egitto, la scelta di Netanyahu era chiara: buttare a mare i palestinesi. Per questo si parla di “soluzione finale”, e il termine non è antisemita ma pertinente. David Grossman ha scritto: “Davanti a tanta sofferenza, il fatto che questa crisi sia stata iniziata da Hamas il 7 ottobre è irrilevante”.

Da qualche giorno si parla di un risveglio europeo e addirittura di una presa di coscienza da parte di governi e commentatori che fino a ieri si bendavano gli occhi e sussultavano sprezzanti ogni volta che rappresentanti dell’Onu denunciavano il genocidio, e l’assassinio sistematico di medici, operatori umanitari, giornalisti, maestri, scolari, impiegati dell’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi Unrwa, come se questo significasse qualcosa di diverso da: i palestinesi non devono essere tenuti in vita, sfamati, dissetati, informati, forniti d’un tetto.
D’un tratto i convertiti dell’ultima ora si sentono a posto con la coscienza, si dicono ottimisti, contenti di qualsiasi tregua, come se emettere una o due parole di sorpresa o sdegno significasse qualcosa di pratico e concreto. Come se dire equivalesse a fare, e pronunciare aggettivi come inammissibile, inaccettabile o ingiustificabile significasse qualcosa di più che fumo. Chi si limita a proclamare che una cosa è inaccettabile e non fa nulla l’ha già accettata.
Proprio questo fa gran parte dell’Unione. Sforna aggettivi. È stato annunciato il 20 maggio che l’Ue potrebbe “rivedere” o sospendere il Trattato di associazione con Israele (per violazione dell’articolo sui diritti umani): cosa che prenderà mesi o anni, e comunque richiederà l’unanimità. Nove Stati sono contrari, tra cui Italia e Germania. Intanto i palestinesi muoiono. Sono più coraggiosi i governi che hanno riconosciuto lo Stato di Palestina (tra cui Spagna, Irlanda, Norvegia, forse in futuro Francia), ma questa mossa è ormai inadeguata: il riconoscimento è molto importante ma non vuol dire che nascerà lo Stato, che carestia e disidratazione finiranno, che le forniture militari a Israele cesseranno.

C’è poi l’immane ipocrisia di Germania e Italia, gli Stati più restii a fermare l’annientamento, i due primi fornitori di armi a Israele dopo Washington. Il cancelliere Friedrich Merz è stato elogiato quando ha detto, dopo 600 giorni e più di 54.000 morti, e disvelando la propria abissale insipienza: “Francamente non capisco più l’obiettivo con cui Israele sta procedendo”. Povero Merz, lui che per quattro anni è stato un dirigente tedesco di BlackRock, la compagnia d’investimenti Usa finanziatrice dell’export di armi a Israele (Lockheed Martin, Leonardo, Fincantieri, General Dynamics, ecc.).
Il pallido comprendonio di Merz migliora, ma non al punto d’interrompere gli aiuti militari a Israele. Il ministro degli Esteri Wadephul dice che “valuterà”. Si ripete che i tedeschi hanno complessi di colpa verso Israele, a causa del genocidio nazista. Senso di colpa del tutto assente verso la Russia (che con 27.000 morti ha salvato l’Europa dal nazismo), e contro cui la Germania sta riarmando se stessa, l’Ucraina, la Polonia e l’Europa.
Il governo italiano non ha opinioni diverse: invia tuttora armi a Netanyahu, nello stesso attimo in cui definisce inaccettabile la sua condotta a Gaza. Si è astenuto quando l’Assemblea Onu ha chiesto il cessate il fuoco, nel dicembre 2023. Idem nell’Assemblea Onu sul riconoscimento dello Stato palestinese, nel maggio 2024. È contro la sospensione del Trattato di associazione Ue. I Tg, anche quelli privati, stabiliscono oscene graduatorie: è più audace Tajani che dice “inaccettabile” o Meloni che dice “ingiustificabile”?

Silenzio totale, infine, sulla pianificazione distruttiva che ha prodotto prima la carestia, poi il finto rimedio affidato da Netanyahu e Trump all’agenzia Gaza Humanitarian Foundation (contractor privati ed ex agenti Cia). Finto rimedio non solo perché enormemente insufficiente. Ma per la strategia che la Fondazione persegue: escludere l’Onu, e concentrare il massimo dei rifornimenti a Rafah e nel centro-sud della Striscia. In tal modo gli affamati vengono ammassati a sud, presso il valico con l’Egitto.
L’architetto e militante Eyal Weizmann denuncia l’“architettura dell’occupazione”. I territori diventano così laboratori spaziali per nuove tecniche di attacco, occupazione, controllo e assassinio collettivo: spostare milioni di palestinesi da Nord a Sud “è anche uno spaziocidio”.

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Ucraina, l’ignavia dei 4 volenterosi

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 18 maggio 2025

Ancora non è chiaro se i negoziati fra Kiev e Mosca riprenderanno, a Istanbul, dopo un primo accordo sullo scambio di 1000 prigionieri di guerra –il più ampio dal 2022.

È invece chiaro che qualora riprendessero, ricominceranno lì dove a fine aprile 2022 erano falliti: furono interrotti non tanto a causa del massacro russo a Bucha, venuto alla luce senza che le trattative si bloccassero, ma perché Washington e Londra imposero a Zelensky la continuazione di una guerra che sembrava promettere immani sconfitte russe.

Le cose non andarono così: nel settembre 2022 le truppe russe annettono quattro province lungo il Mare di Azov e il Mar Nero e continuano ad avanzare nel Sud e Sudovest ucraino. È probabile che vogliano assicurarsi altre città ritenute cruciali prima di negoziare, come analizzato dallo studioso Alessandro Orsini. Zelensky essendo perdente ha fretta, dunque insiste sull’incontro diretto col Presidente russo. Putin non ha fretta.

Se le trattative riprenderanno, si dovranno ridiscutere punti patteggiati tre anni fa, ma in condizioni ben peggiori per Kiev. Allora ci si accordò sulla neutralità militare ucraina ma non si parlò di territori (se si esclude la Crimea annessa da Mosca nel 2014, che gli occidentali considerano sacrificabile di fatto se non di diritto). Oggi di territori si deve parlare, dopo l’annessione delle quattro province. Quanto alla Crimea, Trump (ma non l’UE) ha detto che riconoscerà il suo accorpamento alla Russia.

Zelensky ha provato ad avvelenare sul nascere le trattative con un gesto disperato e teatrale. Ha sfidato Putin a venire in Turchia per un faccia a faccia: se non fosse venuto, il suo rifiuto della pace sarebbe stato palese. A meno che non sia sprovvisto di comprendonio, il presidente ucraino dovrebbe tuttavia sapere che un negoziato faticoso non comincia dalla fine, e per forza deve esser preparato dai tecnici prima d’esser firmato dai capi di Stato. E doveva sapere che Mosca vuole garanzie scritte sul non ingresso di Kiev nella Nato, visto che ha iniziato la guerra proprio per questo, e che le promesse fatte a Gorbaciov nel 1990-91 furono violate perché non scritte. Tale garanzia può esser fornita non da una tregua, ma da complessivi accordi di pace.

Zelensky dovrebbe anche sapere che il Cremlino si presta di rado a vertici improvvisati e teatrali, soprattutto quando i belligeranti hanno una fiducia reciproca ridotta a zero. L’incontro fra i due Presidenti sarebbe andato a vuoto, e questo era presumibilmente l’obiettivo di Kiev e forse anche degli alleati a lui vicini: i cosiddetti Volenterosi di Germania, Francia, Regno Unito, Polonia.

La trattativa russo-ucraina è difficilissima – per quanto riguarda sia le province del Sud sia le garanzie di sicurezza chieste da Kiev– ed è sperabile che ricominci. È positivo che a negoziare per i russi ci sia lo stesso negoziatore dell’accordo quasi concluso nel ’22, Vladimir Medinsky. Che i mediatori Usa vigilino sulle due parti e che Trump non abbandoni la partita come minacciato, anche se la sua imprevedibilità e faciloneria sono temibili. Pur avendo favorito le trattative tecniche, il Presidente non nasconde infatti la sua convinzione profonda, unita all’impazienza: “Non succederà nulla fin quando Putin e io non ci incontreremo”. Ma non si può del tutto escludere che qualcosa nasca anche a Istanbul, nonostante le sospensioni. La guerra in Vietnam finì dopo trattative lunghissime e più volte interrotte: dopo i tentativi di Lyndon Johnson, sabotati dal rivale repubblicano Nixon, Kissinger negoziò in nome di Nixon per quattro anni con il nordvietnamita Le Duc Tho, fra il 1969 e il 1973, con alti e bassi e senza che la guerra americana cessasse di incattivirsi.

Quanto ai Volenterosi europei, che avevano annunciato ennesime pesanti sanzioni nel caso Mosca non avesse accettato entro il 12 maggio la tregua di 30 giorni proposta da Zelensky, lo smacco è impressionante. I quattro leader si sono fatti fotografare il 10 maggio a Kiev giusto per confermare, ancora una volta, di essere incapaci sia di lanciare ultimatum verosimili, sia di fare diplomazia (niente sanzioni il 12 maggio, anche se tuttora ventilate da UE e anche Usa). Si può capire che il presidente del Consiglio Meloni stia alla larga, per ora, dai vertici dei Quattro Ignavi d’Europa.

Capire come può nascere una trattativa su pace e guerra è impresa impossibile per chi s’ostina a rifugiarsi nell’ignoranza dei popoli coinvolti e della loro storia: è il difetto di tutte le guerre giuste, di esportazione della democrazia o delle religioni. L’ignoranza è epidemica in gran parte delle cancellerie europee, oltre che nella stampa mainstream e nei dibattiti televisivi italiani. Ignoranza di quanto accaduto nel dopoguerra fredda, caratterizzato da presunzione vittoriosa dell’Occidente e unipolarismo Usa. Ignoranza dei motivi per cui il conflitto in Ucraina è cominciato: l’allargamento Nato fino alle porte di Mosca, come esplicitamente ammesso nel settembre 2023 da Stoltenberg, allora segretario generale della Nato. Ignoranza negazionista, infine, delle ragioni per cui le trattative Mosca-Kiev di tre anni fa naufragarono.

D’un tratto, il 12 maggio scorso, un servizio del Tg La7 apriva finalmente la finestra su due nodi decisivi: le trattative del ’22 furono affossate da Londra e Washington, che volevano continuare la guerra; nessun negoziato è possibile fin quando restano soldati ucraini nella regione russa del Kursk. Il servizio, firmato dall’ottimo Adalberto Baldini, è stato smentito la sera successiva dal direttore del Tg. Sono due bufale, ripete il giornalista Paolo Mieli, che usa presentarsi come storico. Bufale le promesse di non allargamento Nato fatte a Gorbaciov e violate fin dalla presidenza Obama. Bufala l’accordo del marzo-aprile 2022, già zoppicante ma silurato da Londra e Biden.

“Spetta agli storici chiarire”, obietta Mieli, senza intuire che fin da subito occorre affrontare i due nodi, perché sia possibile non tanto una tregua che fermi temporaneamente le carneficine, quanto un accordo di lungo periodo che soddisfi i legittimi bisogni di sicurezza di ambedue i belligeranti. È avvilente che i due nodi siano misconosciuti non solo dai media, ma anche dai governi europei. Il 10 maggio, il ministro degli Esteri tedesco Johann Wadephul ha confermato in un’intervista alla «Neue Osnabrücker Zeitung» (giornale accusato di putinismo) che il “cammino dell’Ucraina verso l’adesione alla Nato è irreversibile”. Il ministro finge di non capire perché c’è guerra in Ucraina.

Wadephul sembra rispecchiare l’opinione di Merz, deciso a schierare “l’armata convenzionale più forte d’Europa” e a raggiungere il 5% delle spese militari chieste da Trump (non ancora dalla Nato). Sarà Berlino a riarmarsi più di tutti gli Europei contro Mosca – assieme a Varsavia – avendo le risorse e squilibrando l’UE. Se davvero si vuole avere uno sguardo storico, e tener conto che Napoleone e Hitler non avevano l’atomica, non si può immaginare scenario più mortifero per l’Europa intera.

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