Il nemico dell’Europa è il riarmo di von der Leyen

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 6 marzo 2025

Dicono molti commentatori che l’Europa si è fatta infine sentire: lo avrebbe fatto riconfortando Zelensky, dopo lo scontro di venerdì fra il presidente ucraino e Donald Trump, e promettendo un fenomenale riarmo e una guerra fredda a guida europea anziché statunitense.

Parigi e Londra sono pronte a schierare truppe in Ucraina, per garantirne la sicurezza dopo la tregua e l’accordo di pace con Mosca. Per ora Putin è contrario: non ha fatto la guerra per avere eserciti di Stati Nato al proprio confine.

Se questa è Europa, ben vengano le opposizioni al Piano di Riarmo, oggi al vertice dell’Unione. Non sono i progetti marziali della Commissione a facilitare la pace, ma le formidabili pressioni di Trump: martedì notte la Casa Bianca ha annunciato la sospensione di ogni aiuto all’Ucraina, compresi gli aiuti dei Servizi segreti, e il giorno dopo Zelensky ha accettato la mediazione Usa e proposto un’interruzione delle operazioni di aria e di mare. È quello che Papa Francesco un anno fa chiamò il “coraggio della bandiera bianca”. Viene l’ora di trattare con Putin, per fortuna non più paragonato a Hitler. L’apertura di Zelensky è giudicata positiva da Mosca.

Non si sa bene cosa si intenda, quando si invoca l’Europa: se i suoi cittadini, o i suoi Stati, o l’Europa parallela che Macron sta costruendo con Londra che non è più nell’Ue, o la Commissione guidata da Von der Leyen che non ha competenze in politica estera. Non si sa neanche fino in fondo il significato della manifestazione che il 15 marzo chiederà che l’Europa “dica qualcosa”, “parli con una voce sola”. Per dire cosa? Per quale politica estera, in un’Unione che su pace e guerra è divisa?

A motivare lo scandalo non è l’inaudita incapacità europea di concepire negoziati di pace con Mosca, ma la brutalità di Trump: è lui il nemico, accusato di umiliare Zelensky e costringerlo alla bandiera bianca. Tanto i morti non sono i nostri. Lo scandalo avrebbe senso se si parlasse di Gaza e degli aiuti Usa a Israele. Ma su Russia e Ucraina cosa si chiede? Che l’Europa negozi con Mosca un comune sistema di sicurezza oppure che inasprisca ancor più la conflittualità, contro la distensione tentata da Trump? E che vuol dire “difesa europea anziché riarmo” (posizione Pd), se manca una comune politica estera e diplomatica?

Venerdì alla Casa Bianca Zelensky si è infilato da solo nella tremenda trappola ripresa in mondovisione. Per capire l’evento tragico va vista l’intera conferenza stampa, e non solo l’esplosione finale. La conferenza non era cominciata male, Trump aveva elogiato l’esercito ucraino, ma Zelensky ha fatto di tutto per scatenare lo scontro. Ha parlato di Putin come di “un killer e un terrorista”, ha ripetuto che Mosca ha violato ben 25 volte gli accordi di tregua. Ha mostrato a Trump le foto di ucraini maltrattati dall’esercito russo e ha provocato il vicepresidente Vance: “Quale tregua?”. Inoltre ha reclamato un’assistenza militare Usa che equivalga di fatto al sostegno garantito dalla Nato.

Trump è un affarista neocoloniale che non esita ad accaparrarsi parte delle ricchezze minerarie ucraine (o russe se il Donbass resta russo) ma ha detto una cosa assennata: io sono al di sopra delle parti – ha ripetuto – non posso insultare Putin e al tempo stesso negoziare sulla fine dei bombardamenti.

Sarebbe stato ben più brutale se avesse detto un’ulteriore verità: l’Ucraina, la Nato e l’Europa hanno perso la guerra, ora si tratta di capire come mai è scoppiata. I continui allargamenti della Nato, la trasformazione dell’Ucraina in un fortilizio, il trattamento oppressivo delle minoranze russe e della loro lingua: tutto questo è vissuto come minaccia esistenziale a Mosca, non dall’invasione del ’22 ma dal 2008. Va ricordato che fu Trump nel primo mandato ad armare Kiev con i temibili missili anticarro Javelin, cruciali nella guerra odierna: Zelensky l’ha giustamente evocato nella conferenza stampa.

Si legge sui giornali che l’Europa si riunisce finalmente per contrastare Trump. E farebbe bene se lo contrastasse su Israele, cosa che non fa. Farebbe bene se difendesse l’Onu vilipesa da Washington anziché la Nato. Fa molto meno bene quando si presenta come Europa atlantista, fingendo d’ignorare la sconfitta storica della Nato e il radicale distacco statunitense dall’Europa.

Fuori posto è anche lo sdegno per il negoziato Washington-Mosca, che in un primo momento esclude Zelensky ed europei. È una lamentazione volutamente smemorata. Quando fu abbattuto il Muro di Berlino e cominciò a prefigurarsi l’unificazione tedesca (in realtà fu un’annessione della Germania Est), furono Bush padre e Gorbaciov a negoziare bilateralmente. Solo in un secondo momento le trattative si estesero alle due Germanie e ai firmatari degli accordi postbellici, Regno Unito e Francia. Allora la procedura apparve naturale. Gli unici che potevano sbloccare le cose erano Washington e il Cremlino. Ora invece si protesta, e non perché l’Europa sia più forte ma perché è diventata più inconsistente, più asservita alle industrie militari, meno addestrata alla diplomazia.

L’Unione è condannata all’irrilevanza se non richiama all’ordine rappresentanti pericolosi per la pace come Von der Leyen o l’estone Kaja Kallas, Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la sicurezza: un personaggio, quest’ultimo, che non ha mai fatto autocritica su quanto disse nel maggio ’24, poco prima d’esser nominata: “Non è una cattiva idea lo smembramento della Federazione russa in tante piccole nazioni”.

Quanto a Von der Leyen, memorabili sono le parole dopo il vertice euro-atlantico di Londra: l’Ue deve trasformare l’Ucraina in un “riccio d’acciaio indigesto a invasori” come la Russia. Il capo dell’esecutivo Ue non spiega come procedere, perché la politica estera e di difesa non è per fortuna di sua competenza. Se parla così è perché si mette al servizio delle industrie militari, non dei governanti e ancor meno dei popoli. Un sondaggio dell’Istituto inglese Focaldata rivela che i cittadini europei sono ostili alla strategia del riccio d’acciaio: una forte maggioranza di elettori francesi, tedeschi e inglesi vuole ridurre le spese militari o almeno mantenerle ai livelli attuali (il 66% in Francia, il 53 in Germania, il 54 nel Regno Unito). Dice James Kanagasooriam, capo dell’istituto di sondaggi: “I poteri politici sono alle prese con un enorme nodo gordiano”. È il nodo gordiano che lega indissolubilmente le politiche neoliberali di austerità alla militarizzazione dell’Unione.

Il “Piano Riarmo Europa” presentato martedì da Von der Leyen conferma in pieno il nodo gordiano. È annunciato un esborso di 800 miliardi di euro entro quattro anni: “Si apre un’era di riarmo. Questo è il momento dell’Europa. Siamo pronti a passare a una velocità superiore”. Una parte dei fondi europei destinati alla coesione sociale, territoriale e ambientale sarà dirottata verso il riarmo. È sperabile che qualcuno fermi la Commissione. Almeno per quanto riguarda i confini orientali d’Europa il pericolo è lei, non Trump.

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Guai a chi osa toccare il totem “Europa”

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 28 dicembre 2023

Da quando sono apparse in Italia le prime critiche forti dell’Unione europea, e di uno sfacelo che va ben oltre la vicenda del Mes, i benpensanti sono in allarme. Militano a destra, nel centro, nell’ex sinistra Pd.

Nei grandi giornali hanno la penna pronta e la supponenza facile, perché l’Unione che pensano e piantonano non è un progetto che evolve ma un totem immobile, non perfettibile, antenato mitico che si venera sempre allo stesso modo, come se il mondo non cambiasse di continuo. Il totem è indifferente ai contesti e alla storia. Spiega il dizionario De Mauro che totem vuol dire “segno del clan”: grazie a esso “i membri del gruppo si riconoscono parenti”.

La bocciatura parlamentare del Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes) è solo l’ultimo episodio di quello che gli editorialisti dei principali giornali denunciano come sacrilego assalto al totem. L’Europa “è naturaliter il nostro orizzonte morale e valoriale”, si legge nei commenti, oppure: “Sovranisti di destra e populisti grillini si ritrovano nella stessa trincea (…) l’identità europea è il vero spartiacque fra le nostre forze politiche”. Non viene spiegato cosa significhi orizzonte valoriale: quali siano i princìpi in una Comunità che li sta calpestando in massa, e non a caso preferisce parlare di valori anziché di diritto esigibile. Né è afferrabile l’identità europea, non identificato oggetto vittima di guerre di trincea.

Intanto andrebbe chiarito un punto sul Mes, omesso ieri alla Camera dal ministro Giorgetti: fin da quando nacque, nel 2012, il Meccanismo fu concepito come dispositivo intergovernativo. Essendo esterno all’Unione, il suo mandato non è la difesa di un comune interesse europeo. Commissione e Bce disciplinano gli Stati assistiti e impongono vincoli che non mutano – tagli a spese sociali, disuguaglianze, privatizzazioni – ma sono solo esecutori. Il Parlamento europeo è estromesso. Come disse l’economista Giampaolo Galli nel 2019, i poteri molto ampli del meccanismo “si sovrappongono a quelli della Commissione sull’intera materia dell’analisi e valutazione della situazione economica e finanziaria dei Paesi dell’eurozona, non solo di quelli sottoposti a un programma di aggiustamento”.

Naturalmente il Parlamento italiano poteva ratificare la riforma del Mes senza pagare prezzi, visto che ratificare non significa chiedere prestiti. Se non lo ha fatto, e la riforma è stata bocciata da un’inedita maggioranza Fratelli d’Italia, Lega, M5S, è perché il contesto della ratifica è stato giudicato insoddisfacente: il giorno prima il Consiglio europeo aveva varato un nuovo Patto di Stabilità piuttosto rigido, ma approvato da Roma perché “migliore del precedente” anche se “peggiore della proposta della Commissione” (parola di Giorgetti). Ma se era migliore perché il No di Meloni al Mes?

Il Patto rinnovato mette in realtà un termine al comune indebitamento europeo, che Conte ottenne con grandi sforzi negoziali durante la pandemia, che rivoluzionò il dogma secondo cui l’“ordine in casa propria” va anteposto alla solidarietà, e che assegnò all’Italia ben 209 miliardi. La rivoluzione è finita, la Restaurazione ordoliberista torna a regnare restituendo al mercato lo spazio perduto: questa l’iniqua scelta di un’Unione che con l’arma dell’austerità ha già immiserito e umiliato la Grecia, nel 2009-2019. Dei tre protagonisti della troika, solo l’ex presidente della Commissione Juncker ha pronunciato un mea culpa (“Abbiamo calpestato la dignità dei Greci”). Olivier Blanchard del Fondo Monetario Internazionale ha ammesso un “peccato originale”. Unico privo di rimorsi: Mario Draghi che dirigeva la Banca centrale europea. È elogiato perché con tre parole “salvò l’euro”. Non si dice mai a che prezzo, per il welfare e la dignità degli Stati “salvati”. Gli anni del debito comune non sono una rivoluzione europea per Giorgetti, ma “quattro anni di allucinazione psichedelica” indotta dal debito italiano facile.

È da qualche tempo che la parola contesto è equiparata a eresia anti-europea. È eretico indicare il contesto – cioè le radici – dell’aggressione russa all’Ucraina (veto di Washington e Nato alla neutralità di Kiev) o della violenza di Hamas (rapporti rovinosi Israele-palestinesi). Così per quanto riguarda il Mes. Meloni ha detto più volte che la riforma andava vista “nel contesto” di un Patto di Stabilità meno castigatore. Non senza ragione: accettare centri di controllo paralleli all’Ue è pericoloso, se contestualmente non si punta all’indebitamento comune. Patto e Mes aggiornati certificano l’impossibilità di un’Unione fondata sulla solidarietà, che preceda i “compiti da fare in casa”.

Il guaio è che né Meloni né Giorgetti hanno mostrato di sapere cosa dicono quando difendono, ma poi dimenticano, l’idea di contesto: né su Ucraina, né sulla sovranità limitata dalla Nato, né infine, oggi, sul controrivoluzionario nuovo Patto di Stabilità, nato da un accordo fra Parigi e Berlino senza sostanziali interferenze italiane. Senza che Macron mantenesse la promessa di fronteggiare con noi i falchi dell’austerità europea. Contrariamente a quanto proclamato da Meloni, l’Italia non ha “ottenuto moltissimo”. I vincoli non solo restano ma si moltiplicano, i controlli concedono qualche esenzione ma sono onerosi, la sovranità solo sbandierata a destra è sbrindellata. Solo per tre anni ci sarà un po’ di flessibilità (riduzione annuale del debito dello 0,5 per cento del Pil, poi dell’1,5). Sono gli anni del governo Meloni. Si può solo sperare in emendamenti incisivi, quando il Patto sarà votato dal Parlamento europeo. Quanto al sovranismo, c’è da sperare che cessi di essere un insulto mai approfondito.

Si capisce il sì al Mes dei neocentristi Renzi e Calenda. Sono gli scimmiottatori di Macron, artefice ultimamente di una legge sull’immigrazione che non ha avuto bisogno dei voti di Le Pen in Parlamento, solo perché aveva assorbito grandissima parte delle idee lepeniste. Macron in Francia è un mito spento. Veramente incomprensibile di contro è il Pd. “Non ci hanno visto arrivare”, aveva detto Elly Schlein, ma nel frattempo è arrivata e non ha ancora scelto se liberarsi della fallimentare Terza via di Blair, Renzi, Enrico Letta. Prodi si augura che Schlein diventi il federatore del centrosinistra allargato, senza intuire che missione primaria del segretario, al momento, è federare il Pd. Missione per ora incompiuta. Schlein non sta creando un Pd diverso, pur volendolo intensamente. Difende i diritti, il salario minimo, i migranti, ma ammutolisce in Europa sull’ordoliberismo di stampo tedesco, sulla Nato, sulle guerre. I socialisti nel Parlamento europeo, italiani compresi, non hanno mai condannato l’umiliazione della Grecia, avendo sempre anteposto l’alleanza coi Popolari. Ma soprattutto: se si esclude il Movimento di Conte, difficile che i partiti azzardino critiche radicali e non occasionali all’Unione. Basta un momento di lucidità, sullo sfacelo europeo, e subito partono le mitragliatrici degli affratellati guardiani del totem.

© 2023 Editoriale Il Fatto S.p.A.

“L’Ue ha dimostrato diritto di veto, ma si può resistere”

Intervista a Barbara Spinelli di Stefano Feltri, «Il Fatto Quotidiano» , 22 dicembre 2018

Barbara Spinelli, giornalista, è in rotta con le politiche dell’Unione: si è candidata alle Europee nel 2014 per cambiarle, nella lista Tsipras. Ma ora, a pochi mesi dalla fine di quest’esperienza (“un mandato basta”), vede pochi segnali di speranza: qualche politica sociale in Portogallo, la sinistra di Corbyn in Gran Bretagna, forse il governo Sanchez in Spagna.

Barbara Spinelli, il governo si è fatto dettare la manovra o la Commissione ha ceduto?

La Commissione ha confermato il potere di veto che sin dal governo Monti esercita sulle politiche decise dai governi. Abbiamo programmi ed elezioni nazionali, e poi c’è un secondo turno a Bruxelles. Ma l’Unione era partita con richieste più restrittive: voleva un deficit all’1,6 per cento del Pil e si opponeva alle politiche espansive e di solidarietà volute dal governo.

E poi c’è stata la Francia: il commissario Pierre Moscovici ha subito approvato l’annuncio di un deficit al 3,5% per rispondere alla rivolta dei Gilet gialli.

La Commissione non poteva applicare due standard diversi. Ma davanti ai Gilet gialli, Moscovici ha avuto una reazione politica, non tecnica.

E come se la spiega?

Il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione anomala sul codice di comportamento della Commissione: ha accettato che i commissari si candidino alle elezioni europee mantenendo la carica. Io ho votato contro. Ne abbiamo già parecchi: Pierre Moscovici, Frans Timmermans, forse Margrethe Vestager. Moscovici è in campagna elettorale in Francia: non ha smentito la sua possibile candidatura. Si è non poco screditato.

Si poteva approvare la manovra senza il via libera della Commissione?

La procedura di infrazione sarebbe stata molto punitiva per gli italiani. È un bene averla evitata, senza però eliminare dalla manovra le misure cruciali. Queste politiche europee hanno prodotto una miseria che non si vedeva dal dopoguerra.

Non abbiamo alleati in questa sfida alle regole. Solo i Gilet gialli.

La Grecia non poté contare neppure sulle rivolte di piazza in altri Paesi. Juncker stesso ha ammesso che la dignità del popolo greco è stata calpestata dall’Unione. L’Italia ha potuto far tesoro di proteste ormai diffuse contro politiche che non producono crescita ma rivolta sociale, come i Gilet gialli o la Brexit che non è un capriccio nazionalista ma un voto popolare, anche se del tutto illusorio, contro l’austerità. Questa è un’Unione disgregata e l’Italia prova a fare qualcosa. Non entro nei dettagli della legge di Bilancio, ma a chi si scandalizza perché Di Maio vuole ‘abolire la povertà’, ricordo che Ernesto Rossi scrisse il libro Abolire la miseria, mentre lavorava al Manifesto di Ventotene.

Perché Macron, campione dell’europeismo, sta finendo così male?

L’europeismo è un guscio vuoto in cui puoi mettere quello che vuoi: il federalismo di Hayek per azzerare il peso dello Stato in economia o il Manifesto di Ventotene. Il prestigio di Macron è crollato in Francia ben prima che in Europa. Quel che difende è una dottrina economica confutata dagli studiosi sin dagli anni Settanta, secondo cui aiutare i ricchi sarebbe nell’interesse di tutti: il benessere “sgocciolerebbe” verso i non abbienti. La prima cosa che ha fatto è tagliare le tasse ai ricchi. E non ha funzionato.

La lezione dei Gilet gialli è che per cambiare politica economica serve la rivolta?

Solo politiche di bilancio più egualitarie possono prevenire insurrezioni. Dicono che il governo italiano è populista, ma il M5S è l’espressione parlamentare di quella protesta, il famoso ‘Vaffa’ equivale allo slogan dei Gilet: si autodefiniscono dégagiste, vogliono mandare ‘tutti fuori’. La democrazia rappresentativa come è fatta oggi non è in grado di fornire veri rappresentanti delle volontà popolari. Non a caso tutti questi movimenti chiedono strumenti di democrazia diretta.

E questa crisi della democrazia rappresentativa la preoccupa?

Sì. Ma è stato fatto di tutto per arrivare a questo esito. Oggi serve una riscrittura sociale delle regole, ma l’Unione punta i piedi. Draghi parla del pericolo del nazionalismo e del populismo e annuncia che ‘a piccoli passi si rientra nella storia’. Che vuol dire? Che il Fiscal compact, privo com’è di qualsiasi vincolo sociale, permette una felice uscita dalla storia, e di questo dovremmo esser grati?

Draghi ha spiegato anche che il mercato unico, l’euro, l’Unione sono legami che servono a prevenire nuovi disastri.

Ma quali legami? L’Europa si sta sfasciando, con l’Est che va da una parte, la Francia dall’altra, il Regno Unito fuori. Si discute di deficit eccessivo in vari Paesi, ma da anni il surplus commerciale in Germania supera il tetto consentito del 6 per cento, permettendole di drenare ricchezza dal resto dell’Unione, e nessuno dice niente.

Nella campagna elettorale per le Europee si parlerà di temi sociali o di migranti?

Spero che il punto forte sia il tema sociale da cui discende tutto il resto, inclusa la cosiddetta questione della migrazione. Sbagliava il ministro Minniti quando fece capire che sarebbe scoppiata una bomba sociale se non si fermavano gli arrivi e le operazioni di Ricerca e Salvataggio. È la bomba sociale che ha creato questa percezione del pericolo migranti.

Come giudica l’opposizione del Pd al governo?

Nefasta. Sventolano l’europeismo e poi s’indignano con chi vuol ricostruire l’Unione partendo dal sociale. E sul tema migranti sono gli ultimi a poter criticare: la politica di Minniti ha prodotto accordi con la Libia messi sotto accusa dal Consiglio d’Europa, dall’Onu. Salvini agisce in violazione delle leggi internazionali che vietano il respingimento di rifugiati, ma Minniti in questo lo ha preceduto.

Però ha funzionato: gli sbarchi sono calati.

Anche i campi di concentramento hanno funzionato. Gli sbarchi sono diminuiti e i morti in mare sono aumentati. Preferirei quasi che dicessero: ‘Li vogliamo morti in mare’. Almeno direbbero la verità.

© 2018 Il Fatto Quotidiano

Commissione europea in pieno conflitto di interessi

Strasburgo, 7 febbraio 2018. Intervento di Barbara Spinelli nel corso della sessione plenaria del Parlamento europeo.

Punto in agenda:

  • Revisione dell’accordo quadro sulle relazioni tra il Parlamento europeo e la Commissione europea

Presenti al dibattito:

Frans Timmermans – Primo vicepresidente della Commissione europea e Commissario europeo per la migliore legislazione, le relazioni interistituzionali, lo stato di diritto e la carta dei diritti fondamentali

Barbara Spinelli è intervenuta in qualità di Relatore ombra per il Gruppo GUE/NGL della Relazione sulla revisione dell’accordo quadro sulle relazioni tra il Parlamento europeo e la Commissione europea

Leggo l’articolo 17(3) del Trattato: “La Commissione esercita le sue responsabilità in piena indipendenza. (…) I membri della Commissione non sollecitano né accettano istruzioni da alcun governo, istituzione, organo o organismo”. La relazione in esame richiama tale precetto, ma contemporaneamente ne avvalla l’esplicita deroga, consentendo ai commissari di continuare a svolgere le proprie funzioni anche se candidati alle elezioni europee sotto l’ombrello di un partito, quindi come portatori di interessi politici particolaristici. In uno studio del Parlamento del 2014, si dice chiaramente che la previsione regolamentare di un congedo elettorale non retribuito rappresenta una best practice, da estendere ad altre istituzioni UE. Trovo paradossale che oggi se ne discuta l’abolizione. Il fatto che il nuovo Codice di condotta dei commissari abbia soppresso tale previsione non rappresenta un alibi per il Parlamento per suggellarne la scomparsa anche nell’Accordo Quadro. Il codice di condotta del 2011 prevedeva il congedo in qualsiasi tipo di campagna elettorale. Ora si distingue: i commissari devono prendere congedo se candidati in elezioni nazionali. Non devono se si candidano in Europa. La cosa mi è del tutto incomprensibile.

Trascrizione dell’intervento di Frans Timmermans a conclusione del dibattito in plenaria (la risoluzione Esteban-Pons ha ottenuto la maggioranza in plenaria).

Frans Timmermans, First Vice-President of the Commission. – Madam President, I just want to thank the Members for their contributions to this debate. We are very much looking forward to the vote on this and we hope that we can amend the Framework Agreement in such a way that Commissioners could be allowed to stand in European elections without having to take leave. I have also listened carefully to the discussion on the process of lead candidates (Spitzenkandidaten) and, as I said earlier, we will take this into careful consideration when completing our contribution on this and other interinstitutional-related issues, and also in preparing for the leaders’ meeting later this month.

Rimandare i migranti in Turchia viola il principio di non-respingimento

Bruxelles, 4 aprile 2016

Barbara Spinelli rivolge un’interrogazione scritta alla Commissione europea chiedendo conto della conformità dell’accordo UE-Turchia con il divieto di respingimento sancito dalla Convenzione di Ginevra.

Titolo: Conformità dell’accordo UE-Turchia con il principio di non-respingimento

Considerando che, secondo l’Osservatorio siriano per i Diritti umani, sedici profughi siriani, tra cui tre bambini, sono stati uccisi dalle Guardie di frontiera turche nel tentativo di mettersi in salvo in Turchia;

Considerando che l’UNHCR ha evidenziato continue e gravi carenze nelle condizioni procedurali e di accoglienza in Turchia e in Grecia e ha precisato che in tutta la Grecia – che è stata costretta a ospitare un numero sproporzionato di rifugiati in seguito alla chiusura delle frontiere della rotta balcanica e al fallimento dello schema di ricollocazione dell’UE – numerosi aspetti del sistema di accoglienza delle persone richiedenti protezione internazionale sono ancora non funzionanti o assenti;

Considerando che i ricercatori di Amnesty International di stanza nel Sud della Turchia hanno raccolto testimonianze di siriani i quali hanno riferito che i loro parenti sono stati espulsi dal Paese in violazione del diritto internazionale, compresi i minori non accompagnati;

Considerando che l’accordo europeo con la Turchia è stato ritenuto illegale da Peter Sutherland, Rappresentante Speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite per le Migrazioni internazionali e lo Sviluppo, giacché deportare migranti e rifugiati senza aver prima vagliato le loro richieste di asilo violerebbe il diritto internazionale;

In base a quali elementi la Commissione ritiene che rimandare i migranti in Turchia non violi il principio di non-refoulement, vincolante per l’Unione europea?

Migranti salvati in mare, ma dov’è finito Triton?

Articolo di Barbara Spinelli apparso su «Il Fatto Quotidiano» del 25 luglio 2015.

Il testo è stato inviato come promemoria ai membri del Gue, ai relatori e co-relatori del rapporto “Situazione nel Mediterraneo e necessità di una visione olistica dell’immigrazione”, e al Presidente della Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni, Claude Moraes. Qui la versione inglese.

Dopo il naufragio del 18 aprile, l’Unione si impegnò a intensificare l’attività di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale, e il 25 maggio l’agenzia europea Frontex annunciò la firma del nuovo piano della missione Triton che, con maggiori mezzi e fondi, avrebbe portato soccorso a 138 miglia marittime a sud della Sicilia, quasi quintuplicando il proprio raggio d’azione.

Durante il periodo estivo, in cui normalmente si assiste al picco degli sbarchi, “Triton schiererà 3 aerei, 6 navi d’altura, 12 pattugliatori e 2 elicotteri”, affermò il direttore esecutivo Fabrice Leggeri, “così da sostenere le autorità italiane nel controllo delle frontiere marittime e nel salvataggio di vite umane”. Pareva che le navi di numerosi Stati membri avessero dato vita a una missione umanitaria, una sorta di Mare Nostrum europeo, e in giugno non si registrò nessuna morte per naufragio. Ma i tempi d’impegno erano circoscritti a poche settimane. A fine mese, dopo aver salvato più di tremila naufraghi, la Marina britannica ha ritirato la nave da guerra Bulwark, che poteva caricare fino a 800 persone, e l’ha sostituita con la nave oceanografica Enterprise, che può caricarne 120. Dopo il 30 giugno sono scomparse anche le navi tedesche Schleswig-Holstein e Werra.

Dall’inizio di luglio sono riprese le morti in mare. Almeno dodici persone sono annegate nel naufragio di quattro barconi nel Canale di Sicilia e più di cento cadaveri sono stati recuperati dalla Guardia costiera libica nel tratto di mare antistante Tripoli, nel sostanziale disinteresse dei media.

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Durata della detenzione amministrativa per migranti e richiedenti asilo

DATE: July 6, 2015

AUTHOR(S):
Marie-Christine Vergiat, Tanja Fajon, Dennis de Jong, Nathalie Griesbeck, Cecilia Wikström, Martina Anderson, Ernst Cornelia, Barbara Spinelli, Kostas Chrysogonos; Jean Lambert; Ulrike Lunacek, Malin Björk

SUBJECT: Lenght of administrative detention

TEXT:

The directives “Return” (2008/115/CE) and “Reception” (2013/33/UE) state that foreigners and asylum seekers may be detained only in exceptional circumstances, for the shortest time possible, according to the principle that detention is only an exception to the fundamental right to freedom.

In its Communication on return policy (28.3.2014), the Commission (EC) noted that 12 Member States (MS) decreased the legal detention time limit. However, if compared to the total number of detainees, this decrease affects less than 10% of them.

In some MS, as Cyprus and Belgium, foreigners are kept in detention, despite the lack of reasonable prospects of removal. The detention period of some of them may be extended beyond the legal time limit (Belgium) or indefinitely (Greece) in violation of the provisions of above-mentioned directives.

1) Isn’it necessary, according to the EC, to make compulsory for all MS the publication, at least annually, of average, cumulated and prolonged lengths of detention by category of detainees (woman, man, child, asylum seeker etc.), including awaiting for removal?

2) What concrete measures does the EC plans to take to end the excessive detention periods observed in some MS and constituting a risk of inhuman and degrading treatment?

Golpe di tipo nuovo voluto da Merkel, Lagarde e Renzi

Intervista a Barbara Spinelli di Giampiero Calapà, «Il Fatto Quotidiano», 1° luglio 2015

«Inammissibile e quanto meno irrituale l’ennesimo tentativo tedesco di interferire nella politica greca». Una volta c’erano i colonnelli, oggi l’austerità della Germania, la Grecia è sempre la vittima e Barbara Spinelli, eurodeputata della Sinistra europea, figlia di Altiero, padre dell’Europa, accusa: «È in atto un tentativo di colpo di Stato post-moderno». Le ultime ore sono concitate. Juncker riapre, Tsipras avanza nuove richieste. Si riavviano le trattative, ma interviene la Merkel: «No al terzo salvataggio prima del referendum».

Cos’altro vuole la Germania? Il sangue greco? È un intervento gravissimo. Non può e non deve essere il cancelliere, l’interlocutore di Atene. Le trattative le porta avanti la Troika, anche se i greci rifiutano di chiamarla così: Commissione europea, Bce e Fmi. Anzi sarebbe bene che Atene negoziasse prescindendo dal Fmi. Il resto è ingerenza. Qual è il motivo dell’ingerenza?
Si configura come un colpo di Stato di tipo nuovo: una forma di regime change. È un gioco ormai politico, più che economico: creare paura e panico per far cadere Tsipras.
Perché?
Per avere di nuovo, in Grecia, un gruppo dirigente in linea con l’austerità voluta da Berlino. Ma è proprio così che si è generato il disastro europeo che stiamo vivendo. Non è responsabile solo la Merkel, ma anche la Lagarde, Renzi e molti altri.
Non era questa l’Europa sognata da suo padre a Ventotene…
Era l’opposto. È stata azzerata la solidarietà, l’Unione oggi viola il proprio stesso Trattato, che prescrive la “cooperazione leale” in caso di crisi. Dovrebbe essere citata davanti alla Corte di Lussemburgo. E la Bce non è in grado di svolgere il ruolo di prestatore di ultima istanza. L’interruzione degli aiuti d’emergenza viola le regole stesse della Bce, che dovrebbe garantire stabilità finanziaria nell’eurozona.
Boccia anche l’operato di Mario Draghi, quindi?
Difendo l’indipendenza della Bce e il ruolo positivo spesso svolto durante la crisi dell’euro. Negli ultimi frangenti, però, la stessa Bce ha svolto un ruolo molto dubbio, di parte. Non indipendente.
 
Crede che il suo gruppo, la Sinistra europea, abbia responsabilità?
La Sinistra europea è minoritaria, non mi pare responsabile di questo dramma.
 
Almeno la responsabilità della sconfitta?
Il governo Tsipras ha indetto un referendum: non è una sconfitta, ma un ritorno alla natura democratica della costruzione europea contro le decisioni prese da poteri oligarchici. L’azione di Tsipras è una scommessa sulla democrazia, l’elemento che più è mancato nella crisi dell’euro.
La cura potrebbe essere l’unità tra sinistra radicale e socialdemocrazia?
È la cosa in cui spero moltissimo. Così come punto su alleanze con i Verdi. Ma non sembrano esserci ancora le condizioni. Dopotutto i partiti socialisti (la Spd tedesca e anche il Pd) hanno sulla Grecia una posizione perniciosa, ambigua: interpretano il referendum come una scelta tra dracma ed euro. Ma Tsipras non ha alcuna intenzione di uscire dall’euro. I socialdemocratici sono dentro una deliberata strategia della paura e della menzogna, molto pericolosa.
Paradossalmente anche il Movimento cinque stelle racconta così questo referendum…
Fa molto male. Beppe Grillo ha tutto il diritto di pensare che la soluzione sia l’uscita dall’euro, ma non la penso così io e non la pensa così il governo Tsipras.
Che cosa succede se vince il sì?
Il panico è tale che non si può escludere una vittoria del sì alle proposte della Troika, ancora nel segno dell’austerità. Credo che in quel caso il governo Tsipras accetterà comunque il nuovo mandato popolare, se ne farà interprete fino ad accettare le proposte della Troika e “riconfigurando il governo”, come ha detto il ministro Varoufakis.
L’Europa del dopoguerra era una speranza. Oggi non riesce a fornire alcuna risposta. Né economica né di civiltà. E il Mediterraneo sembra diventato un mare di migranti in costante pericolo di vita e di terroristi pronti a uccidere.
Non sono d’accordo con quest’ultima visione. È anch’essa il risultato della strategia della paura. È sbagliato mischiare migranti, richiedenti asilo, terroristi, scafisti: alimentando un immaginario di terrore nelle nazioni. Ingiusto e non corrispondente al vero.

Così si salva la democrazia: appello di Barbara Spinelli e Étienne Balibar

Chiediamo ai tre creditori della Grecia (Commissione, Banca centrale europea, Fondo Monetario internazionale) se sanno quello che fanno, quando applicano alla Grecia un’ennesima terapia dell’austerità e giudicano irricevibile ogni controproposta proveniente da Atene. Se sanno che la Grecia già dal 2009 è sottoposta a un accanimento terapeutico che ha ridotto i suoi salari del 37%, le pensioni in molti casi del 48%, il numero degli impiegati statali del 30%, la spesa per i consumi del 33%, il reddito complessivo del 27%, mentre la disoccupazione è salita al 27% e il debito pubblico al 180% del Pil.

Al di là di queste cifre, chiediamo loro se conoscono l’Europa che pretendono di difendere, quando invece fanno di tutto per disgregarla definitivamente, deturparne la vocazione, e seminare ripugnanza nei suoi popoli.
Ricordiamo loro che l’unità europea non è nata per favorire in prima linea la governabilità economica, e ancor meno per diventare un incubo contabile e cader preda di economisti che hanno sbagliato tutti i calcoli. È nata per opporre la democrazia costituzionale alle dittature che nel passato avevano spezzato l’Europa, e per creare fra le sue società una convivenza solidale che non avrebbe più permesso alla povertà di dividere il continente e precipitarlo nella disperazione sociale e nelle guerre. La cosiddetta governance economica non può esser vista come sola priorità, a meno di non frantumare il disegno politico europeo alle radici. Non può calpestare la volontà democratica espressa dai cittadini sovrani in regolari elezioni, umiliando un paese membro in difficoltà e giocando con il suo futuro. La resistenza del governo Tsipras alle nuove misure di austerità — unitamente alla proposta di indire su di esse un referendum nazionale — è la risposta al colpo di Stato postmoderno che le istituzioni europee e il Fondo Monetario stanno sperimentando oggi nei confronti della Grecia, domani verso altri Paesi membri.

Chiediamo al Fondo Monetario di smettere l’atteggiamento di malevola indifferenza democratica che caratterizza le sue ultime mosse, e di non gettare nel dimenticatoio il senso di responsabilità mostrato nel dopoguerra con gli accordi di Bretton Woods. Ma è soprattutto alle due istituzioni europee che fanno parte della trojka — Commissione e Banca centrale europea — che vorremmo ricordare il loro compito, che non coincide con le mansioni del Fmi ed è quello di rappresentare non gli Stati più forti e nemmeno una maggioranza di Stati, ma l’Unione nella sua interezza.

Chiediamo infine che il negoziato sia tolto una volta per tutte dalle mani dei tecnocrati che l’hanno fin qui condotto, per essere restituito ai politici eletti e ai capi di Stato o di governo. Costoro hanno voluto il trasferimento di poteri a una ristretta cerchia di apprendisti contabili che nulla sanno della storia europea e degli abissi che essa ha conosciuto. È ora che si riprendano quei poteri, e che ne rispondano personalmente.

 

Accesso delle Ong ai centri di permanenza temporanea

Interrogazione con richiesta di risposta scritta E-009663/2014 alla Commissione

Articolo 130 del regolamento

Marie-Christine Vergiat (GUE/NGL), Cornelia Ernst (GUE/NGL), Barbara Spinelli (GUE/NGL), Malin Björk (GUE/NGL), Marina Albiol Guzmán (GUE/NGL), Ulrike Lunacek (Verts/ALE), Josep-Maria Terricabras (Verts/ALE), Sylvie Guillaume (S&D), Pina Picierno (S&D), Juan Fernando López Aguilar (S&D), Elly Schlein (S&D), Cecilia Wikström (ALDE), Tanja Fajon (S&D), Kashetu Kyenge (S&D), Jean Lambert (Verts/ALE) e Christine Revault D’Allonnes Bonnefoy (S&D)

Oggetto:  Accesso delle ONG ai centri di permanenza temporanea

La Commissione ritiene (risposta del 13 maggio 2013 all’interrogazione E-002523/2013 del 5 marzo 2013) che, ai sensi dell’articolo 16, paragrafo 4, della direttiva 2008/115/CE, le ONG possano controllare la situazione relativa al trattenimento prima dell’allontanamento dei cittadini di paesi terzi. Gli Stati membri hanno il diritto di stabilire che tali visite devono essere soggette a un’autorizzazione, rilasciata sulla base di requisiti procedurali da definirsi in maniera chiara e conforme all'”effetto utile” della direttiva. Un reiterato rifiuto di accesso ai centri di permanenza temporanea senza una giustificazione oggettiva potrebbe essere considerato una violazione.

Nella comunicazione in merito alla politica di rimpatrio dell’UE (COM(2014)0199 definitivo), la Commissione afferma che “in sette Stati membri è tuttora problematico” il recepimento giuridico di tale articolo. Nel frattempo, l’accesso ai centri di permanenza temporanea richiesto da parte di numerose ONG continua a essere ripetutamente negato in modo ingiustificato o insufficientemente giustificato.

1. Quali sono gli Stati membri in cui il quadro giuridico e le relative prassi pongono ancora problemi?

2. Quali misure ha la Commissione adottato per convincere gli Stati membri a recepire la direttiva 2008/115/CE conformemente all'”effetto utile” e al fine di rispettare tale “effetto utile” nella prassi?

3. Ha la Commissione avviato procedure d’infrazione come annunciato nella sua risposta alla succitata interrogazione scritta?


E-009663/2014
Risposta di Dimitris Avramopoulos a nome della Commissione

(4.6.2015)

La Commissione ha espresso a diversi Stati membri la sua preoccupazione circa il corretto recepimento dell’articolo 16, paragrafo 4, della direttiva sui rimpatri. In risposta alle richieste dalle Commissione, tre Stati membri hanno adattato la legislazione nazionale già nel 2014 per renderla conforme al suddetto articolo 16, paragrafo 4. La Commissione prosegue gli scambi con gli altri Stati membri, anche nell’ambito della procedura d’infrazione formale.

Per quanto riguarda il funzionamento e il controllo dei centri di identificazione ed espulsione (CIE) nazionali, compresa la corretta applicazione delle norme sull’accesso delle ONG a queste strutture, sarà utilizzato il sistema di ispezioni previsto dal nuovo meccanismo di valutazione Schengen istituito dal regolamento (UE) n.1053/2013 [1], che inizierà ad essere applicato concretamente nel 2015.

I giudici nazionali sono inoltre tenuti ad applicare la legislazione nazionale nel debito rispetto degli obblighi imposti agli Stati membri dalla direttiva sui rimpatri. La Commissione raccomanda alle ONG il cui diritto di visita ai CIE dovesse subire indebite restrizioni di avvalersi dei mezzi di ricorso legali disponibili a livello nazionale.

[1] Regolamento (UE) n. 1053/2013 del Consiglio, del 7 ottobre 2013, che istituisce un meccanismo di valutazione e di controllo per verificare l’applicazione dell’acquis di Schengen e che abroga la decisione del comitato esecutivo del 16 settembre 1998 che istituisce una Commissione permanente di valutazione e di applicazione di Schengen, GU L 295 del 6.11.2013, pag. 27.