Bruxelles, 2 settembre 2014. Intervento durante l’audizione del ministro degli Esteri Federica Mogherini
In un recente incontro informale dei ministri e segretari di stato per gli affari europei cui ho partecipato come vicepresidente della Commissione costituzionale, il 28 e 29 agosto a Milano, ho notato quanto grande sia l’autocompiacimento nell’Unione, non solo sulle strategie economiche anti-crisi ma anche in politica estera e in modo speciale sulla guerra in Ucraina e i rapporti con la Russia. La rapidità con cui sono state adottate le sanzioni contro Mosca sarebbe non solo un atto coraggioso dell’Europa, ma un segno di vitalità, di forza, e di inedita coesione. È un compiacimento che non condivido, come ho avuto l’occasione di dire nella riunione a Milano: la soddisfazione è fuori luogo, e inoltre infeconda. Più che una forza, conferma una debolezza europea che persiste e dura.
Le sanzioni non sono l’equivalente di una politica, se per politica intendiamo agire con cura e conoscenza nei conflitti che tormentano il nostro “estero vicino”, a est come a sud dell’Unione. E non sono una politica europea, fintantoché quest’ultima continuerà ad adeguarsi passivamente alla linea statunitense: una linea interessata a integrare di fatto l’Ucraina nella Nato (integrazione respinta dalla metà dei cittadini ucraini, come si deduce dai sondaggi), e dunque a riproporre la guerra fredda con Mosca.
Una politica che sia veramente europea non può esimersi dal compito di pensare finalmente in modo serio i rapporti con la Russia, e in particolare per quanto riguarda Kiev deve avere chiara in mente la natura presente dello Stato ucraino, e la natura che esso dovrebbe darsi in futuro.
Porsi compiti di questo genere significa essenzialmente tre cose:
- primo: significa riconoscere che siamo davanti a una guerra civile dove le responsabilità non sono di una parte soltanto, come pretendono le diplomazie occidentali, l’Unione europea, la Nato. Se Putin gioca sul nazionalismo e sulle divisioni etniche, allo stesso modo sta giocando, e in maniera pesante, il governo ucraino. Quando si parla dunque di pressioni, lo si dica chiaramente: ci sono pressioni da esercitare su Mosca, e altrettante se non più da esercitare su Kiev.
- secondo: significa prendere atto che il governo di Kiev ha attuato una strategia militare pericolosa avvalendosi di milizie di estrema destra. L’esempio più lampante è il battaglione Azov, formazione paramilitare di ispirazione neonazista che risponde al ministero degli Interni. Contro questa strategia l’Europa tace, come tacciono gli Stati Uniti.
- terzo: questa strategia ha avuto come conseguenza un numero allarmante di vittime civili nel Sud-Est dell’Ucraina, 260.000 sfollati interni e centinaia di migliaia di profughi che fuggono verso la Russia (secondo l’UNHCR, dall’inizio dell’anno più di 121.000 persone hanno richiesto lo status di rifugiato alla Russia, altre 138.000 hanno fatto domanda per altre forme di permessi di residenza, e sono in tutto ben 814.000 i cittadini ucraini russofoni che con status diversi si trovano ora in Russia). Non posso credere, e immagino che anche il ministro Mogherini non possa credere, che tutti questi fuggitivi siano militanti putiniani. Sono ucraini russofoni che si sentono perseguitati e non riconosciuti, e che hanno vissuto e temono vaste operazioni di pulizia etnica.
È una tragica ironia della storia che il modello di federazione su cui la nostra Unione è fondata – una convivenza di culture e lingue diverse che si rispettano reciprocamente – sia proposto oggi non da noi europei, ma da Vladimir Putin. È una tragedia mentale, oltre che politica.
Un’analoga assenza di pensiero forte, e autocritico, è constatabile a sud dell’Unione: di fronte ai conflitti e al caos che regnano in Siria, Iraq, Libia. Non sono disastri caduti dal cielo: in Iraq come in Libia, stiamo assistendo alle conseguenze di guerre che hanno letteralmente generato Stati fallimentari e caos, nonostante i fuorvianti propositi iniziali. Anche in questo caso è richiesta una politica europea che diventi autonoma dagli Stati Uniti: che abbia cura dei propri interessi e rimetta in questione le scelte degli ultimi tredici anni. I flussi migratori e le fughe in massa di popoli sono un’emergenza di cui siamo in parte responsabili e che dobbiamo affrontare comunque noi, con nostre idee sulla stabilità di quei paesi e con una politica comune dell’immigrazione e dell’asilo. Anche in questo caso, far politica non può riassumersi nella vendita di armi nelle zone di guerra e nella creazione di una fortezza Europa presidiata da agenzie di controllo e pattugliamento delle frontiere come Frontex o Frontex plus. Far politica significa creare, per i profughi che vanno aumentando, corridoi umanitari presidiati dall’Unione europea e dall’Onu, se si vuol evitare che le vie di fuga dalle guerre e da Stati gettati nel caos come la Libia siano monopolizzate dai trafficanti e delle mafie internazionali.