Strasburgo, 18 gennaio 2016. Intervento di Barbara Spinelli come relatore del gruppo nella riunione del GUE/NGL
È già molto tempo che discutiamo, in Parlamento, su quel che l’Unione europea possa fare di fronte a più o meno palesi violazioni dei diritti nei Paesi membri. Se ne è già discusso nel caso ungherese, e ora se ne parlerà a proposito del nuovo governo polacco. Ci si domanderà se l’Unione sia attrezzata, visto che ha ottenuto poco in passato. Se funzioni il meccanismo di verifica del rispetto della rule of law, attivato in questi giorni dalla Commissione. Se l’articolo 7 vada rivisto, perché le procedure sono complicate e difficilmente tutti gli Stati membri si pronunceranno contro uno solo di essi. Nuovi meccanismi di autocorrezione sono in discussione, a difesa della rule of law.
Tutto questo è necessario e opportuno, ma quel che vorrei qui analizzare va oltre le procedure e non entra nel loro merito. Sono le radici di questi fenomeni e di queste nuove destre che interessano. È l’assenza di una forte rappresentanza di sinistra che importa capire. Avendo speso frequentato l’Est europeo durante il comunismo e nell’epoca della transizione, proverò a esporvi qualche idea su questo tema.
Innanzitutto, quel che accade in Polonia non è un caso isolato, né cade dal cielo come una brutta sorpresa. La crisi economica, unita a quella dei rifugiati, ha scoperchiato una realtà che le élite europee hanno per lungo tempo volutamente nascosto. L’intero fronte Est dell’Unione dà l’impressione di franare, dal punto di vista della democrazia fondata sui diritti e sulla separazione dei poteri (compreso il quarto potere, quello della stampa indipendente): penso all’Ungheria, alla Repubblica ceca, alle chiusure etniche e russofobiche nei Paesi baltici, e alla Polonia, dove la destra xenofoba e nazionalista ha vinto due volte, nel 2005 e oggi con Jarosław Kaczyński, fratello di Lech che è stato Presidente della repubblica ed è morto nell’incidente aereo del 2010.
Perché frana in questo modo? A mio parere perché la transizione dal comunismo alla democrazia costituzionale non ha funzionato, perché l’allargamento è stato del tutto mal concepito, e perché le élite liberali polacche hanno governato nell’ignoranza di quel che la propria società chiedeva o soffriva. Alcuni parlano di equivoco: i vecchi Stati membri e le istituzioni non avrebbero chiarito, nei negoziati di allargamento, che il progetto europeo non è solo un progetto economico neoliberale, che ha al suo centro il mercato senza freni. In realtà più che di equivoco si dovrebbe parlare di una strategia portata avanti deliberatamente, con una coscienza che crede di essere corretta ma non conosce i propri limiti e le proprie deficienze: cioè con quella che Marx chiama una falsa coscienza. L’Europa dell’ultimo trentennio ha volutamente promosso il trionfo di un’Unione riconfigurata come mercato unico neoliberale, con il risultato che la transizione è stata non dal comunismo allo stato di diritto e a una democrazia costituzionale e inclusiva, ma dal comunismo a quella che Clinton ha chiamato, nel 1992-93, democrazia di mercato. Secondo alcuni la vittoria di tale democrazia metteva addirittura fine alla storia, il che vuol dire: la questione sociale apparteneva ormai ai due secoli scorsi, la lotta di classe pure, la rabbia degli esclusi poteva essere ignorata.
La realtà era ed è completamente diversa. Le politiche economiche che le élite liberali polacche hanno adottato in obbedienza alla dottrina centrale dell’Unione continuano a produrre rabbia sociale. La lotta di classe è tutt’altro che morta, essendo d’altronde un fenomeno intrinseco al capitalismo, non al comunismo. Se essa viene negata, e soprattutto privata della sua natura economico-sociale, la lotta tende a esprimersi comunque, ma secondo linee di divisione deturpate e distruttive. Si esprime lungo linee di divisione nazionaliste, o religiose, o anche moralistiche, come spiega assai bene il sociologo David Ost. [1] Le diseguaglianze sociali prodotte dal neoliberismo crescono, e la rabbia trova le destre estreme ad accoglierla e a snaturarla, trasformandola in odio del diverso, in ricerca del capro espiatorio: odio del diverso etnico, razziale, religioso, morale (penso ad esempio al disoccupato descritto come moralmente condannabile perché pigro). È quello che è accaduto in tutto il fronte Est, ma non dobbiamo nasconderci che accade – da decenni – anche a ovest dell’Unione.
Perché non c’è una sinistra forte in Polonia (né in altri Paesi dell’Est), capace di rappresentare gli interessi dei lavoratori e di chi ha pagato un alto prezzo sull’altare della terapia choc (il famoso Piano Balcerowicz) decisa a Varsavia dopo l’89? Perché tra il gruppo dirigente di Solidarnosc e il Partito comunista c’era accordo di fondo soprattutto su questo: sulla transizione verso la “democrazia di mercato”. A ciò si aggiunga che gli eredi del Pc occupavano per intero l’ala sinistra in Parlamento, ed erano favorevoli in pieno alla “terapia choc”. Spazio per un’altra sinistra non c’era.
Molto prima dell’89 i dirigenti di Solidarnosc – parlo in particolare di Adam Michnik e Lech Walesa – erano convinti che il Paese aveva bisogno di riforme economiche di tipo neo-liberale, e che il pericolo più grande fosse rappresentato dalla lotta di classe e da un sindacato indipendente e rivendicativo. Vorrei citare quanto detto da Walesa nel settembre dell’89: “Non riusciremo a entrare e contare in Europa se costruiamo un sindacato forte (…) Non possiamo avere un sindacato forte fino a quando non avremo un’economia forte”. Secondo un certo numero di analisti, tra cui David Ost, la “tavola rotonda” con il Partito comunista nell’88-’89 fu possibile proprio per questo: perché il sindacato Solidarnosc aveva deciso, già da tempo, di suicidarsi come sindacato. Ricordo una serie di colloqui che ebbi con alcuni rappresentanti di Solidarnosc, prima dell’89: molti di essi non esitavano a tessere l’elogio della politica economica di Pinochet, il modello era quello. Discorsi simili sulla transizione cilena li ascoltai in quel periodo in Ungheria e nei Paesi baltici. L’élite liberale polacca è figlia di Solidarnosc, anche se Solidarnosc ha molti figli, tra cui i fratelli Kaczyński.
Vorrei a questo punto dare alcuni dati sulla situazione socio-economica polacca.
La Polonia è oggi caratterizzata, anche quando cresce economicamente, da un tasso altissimo di disuguaglianza, da povertà diffusa e da una mancanza grave di protezione sociale. Meno della metà della popolazione attiva ha un impiego stabile, il 27 per cento degli occupati sono precari (10 anni fa era il 15 per cento). Il 9 per cento dei giovani sotto i 18 anni vive in povertà assoluta, il 19 per cento lavora dovendo pagare con i propri soldi le assicurazioni sociali, solo il 16 percento degli attivi riceve sussidi di disoccupazione. Nel settore privato, solo il 2 percento è sindacalizzato. Lo Stato si è ritirato da settori chiave, praticamente liquidati (Welfare, ferrovie, ospedali, poste).
Quel che colpisce, in una serie di Paesi dell’Est, è il giudizio che viene dato dalle loro élite liberali delle lotte sindacali. Sono da temere e occultare, non da ascoltare e integrare come ingredienti essenziali di un sistema sociale che diventi inclusivo. Anche in questo caso l’Europa non aiuta: il Welfare è smantellato anche qui, le rappresentanze sindacali sono viste anche qui come un intralcio. Quanto ai Paesi entrati in Europa dopo la transizione, la verità è che sono entrati praticamente sprovvisti di Welfare. È accaduto così che le destre estreme hanno sequestrato la rabbia popolare suscitata dalle politiche di austerità iniziate negli anni ’90, presentandosi come i portavoce dei cittadini più oppressi.
L’Unione europea fa mostra di preoccuparsi di queste involuzioni, ma a mio parere ha contribuito a questo sequestro e snaturamento del conflitto sociale, e l’ha anzi favorito. Essendo fautrice essa stessa di una democrazia ridotta al libero mercato, le principali condizioni che ha posto per l’adesione sono state, nella sostanza, di carattere neo-liberale. Ha chiesto, è vero, che alcune regole dello Stato di diritto venissero rispettate, nei cosiddetti criteri di Copenhagen, ma la sua visione della democrazia è stata essenzialmente procedurale.
Questo vale per una serie di Paesi dell’Est, considerati ottimi scolari perché applicano le politiche di austerità. Ora la Commissione e il Presidente del Parlamento europeo si indignano, ma hanno fatto poco per difendere un progetto europeo che abbandonasse la falsa coscienza di una fine della storia e si accorgesse che la questione sociale è più viva che mai. In altre parole, la svolta di destra in Polonia o in Ungheria non andrebbe considerata un’anomalia: “ha radici forti nella pratica e nell’ideologia che ha dominato l’Europa nell’ultimo quarto di secolo”. [2]
Altro errore dell’Unione è stato lasciare che la questione della pace e della guerra fosse pensata e in parte gestita dai propri Paesi di frontiera, a Est e nei Paesi baltici (la stessa cosa è avvenuta con la Repubblica federale durante la guerra fredda: era il baluardo dell’Occidente). Il risultato è stato che l’Ungheria ha cercato un proprio rapporto con la Russia, e tutti gli altri hanno deciso di fidarsi più degli Stati Uniti e della Nato che dell’Unione. All’origine di questo sbandamento, un grave peccato di omissione: è mancata e manca una politica seria verso la Russia, indipendente da Stati Uniti e Nato, e si è lasciato che rinascesse, a Est della nuova Unione allargata, la mentalità del baluardo – questa volta anti-russo – che aveva caratterizzato durante la guerra fredda le marche di confine della vecchia Comunità. Il più recente segnale lanciato in questo senso è la domanda, presentata nei giorni scorsi dal governo di Varsavia, di ottenere sul proprio territorio, al più presto, una base militare durevole e una difesa antiaerea permanente della Nato, per difendersi dalle minacce di Mosca.
Concludo ricordando che non mancano in Polonia forze di sinistra che avversano fortemente le politiche adottate finora, molto critiche della destra estrema come delle élite liberali che hanno governato negli anni scorsi. Penso in modo speciale al movimento Razem (“Insieme”), che si ispira a Podemos. È una forza ancora esigua, e non presente in Parlamento. Varrà la pena invitare i suoi rappresentanti a spiegare le loro posizioni e la situazione del loro Paese nel nostro gruppo, e di sostenerli se lo riterremo opportuno.
[1] David Ost, Defeat of Solidarity: Anger and Politics in Postcommunist Europe, Cornell University Press, 2006.
[2] Cfr. Gavin Rae, http://beyondthetransition.blogspot.be/2015/12/the-liberal-roots-of-polish-conservatism.html
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