Pomposamente l’hanno chiamato Next Generation EU, ma il rischio è grande che del progetto non rimanga che l’orma lasciata per un momento sulla sabbia, la traccia di quello che l’Europa unita avrebbe potuto divenire, trasformando se stessa, e non è divenuta. Anche di questo si discute agli Stati generali dell’economia organizzati da Giuseppe Conte, ed è importante che le autorità europee siano state convocate prima ancora che vengano attivati i vari Fondi. Perché in gioco non è solo lo sfacelo dell’Italia, ma anche e in misura macroscopica lo sfacelo dell’Unione.
Se il Recovery Fund e la messa in comune dei debiti falliscono sarà difficile parlare ancora di unione, o come si diceva fino al 2009, di comunità. Nelle mani ci resterà quello che già conosciamo: una convenzione fra Stati creditori e Stati debitori che non si uniscono per solidarizzare e fronteggiare insieme le avversità (pandemiche, climatiche); un mercato unico pensato per diminuire l’intervento dello Stato nell’economia, proprio ora che di investimenti pubblici c’è più bisogno. L’Unione non diverrà il baluardo che protegge gli europei da una mondializzazione incontrollata, ma continuerà a essere quella che è stata per quarant’anni: una “forma particolarmente sviluppata di iper-globalizzazione, anche se regionalmente circoscritta”, come la definisce uno studio pubblicato giorni fa da Chatham House. Perfino lo spazio giuridico europeo rischia l’erosione, come dimostrato dalla recente sentenza della Corte costituzionale tedesca sui poteri reputati eccessivi della Banca centrale e, indirettamente, della Corte di giustizia europea.
Se così stanno le cose, non ha molto senso parlare di uno scontro tra chi vuole più Europa e chi ne vuole di meno, tra chi accetta aiuti condizionati e chi no. Ormai si è capito che saranno assortiti di condizioni sia il Recovery Fund sia i prestiti del Meccanismo europeo di stabilità (Mes). Non c’è per ora unanimità fra gli Stati attorno al cosiddetto “momento Hamilton” – invocato da Roma e Madrid – che trasformerebbe i debiti dei singoli Paesi in un debito comune, come temporaneamente deciso negli Stati Uniti dopo la guerra di indipendenza, nel 1790. Sono contrari i Paesi del nord (i “4 frugali”), e anche il gruppo di Visegrad a Est, che l’11 giugno ha messo in guardia contro un piano “troppo sbilanciato verso il Sud”. L’entità stessa del Fondo potrebbe essere ridimensionata.
La distinzione tra più e meno Europa – o tra condizioni e non condizioni – è insensata per un motivo centrale: l’Unione, con le regole e i parametri che impone, con l’ordinamento che si è data negli anni 80-’90, non è all’altezza della crisi che traversano le economie dei suoi Stati, messe in ginocchio dal Covid in maniera del tutto asimmetrica e non simmetrica come si sostiene. Non è in grado di rispondere ai tre grandi bisogni del momento: il bisogno sempre più diffuso che lo Stato riprenda il controllo sui mercati, e metta fine alle dottrine neoliberali del laissez-faire; il bisogno che sia chiarita la questione della sovranità, cioè di chi ha il comando in situazioni di sconquasso post-pandemico delle economie; il bisogno infine di indipendenza geopolitica dagli Stati Uniti. “Più Europa” è fuori luogo, se l’Unione resta quella che è.
In un certo senso, ovunque affiora la domanda che motivò il voto popolare inglese in favore del Brexit: take back control, riprendere in mano il controllo sui mercati, stabilire quale debba essere il giusto equilibrio fra Stato e mercato, sia quando sovrano è il governo nazionale sia quando la sovranità è trasferita in Europa. Naturalmente i promotori del Brexit non puntavano a questo riequilibrio ma a un neoliberismo ancora più inegualitario: l’imbroglio del referendum è stato questo.
L’Unione consolidatasi alla fine degli anni 70 ha costituzionalizzato la dottrina neo-liberale, affossando il compromesso del secondo dopoguerra fondato su massicci investimenti pubblici e sull’estensione continentale del piano presentato a Churchill da William Beveridge (istituzione del Welfare per sventare future tentazioni nazifasciste). Tutte le regole fissate a partire dagli anni 80, nella politica industriale e nel mercato del lavoro, si prefiggono la diminuzione del peso dello Stato, e hanno avuto come conseguenza l’indebolimento dei sindacati, il predominio dei mercati globalizzati, l’abnorme dilatazione del lavoro precario e non protetto. Il culmine venne raggiunto con la creazione della moneta unica e della Banca centrale europea, cui non fece seguito alcun passo avanti sulla strada dell’unione politica e della solidarietà fra nazioni. Una moneta senza Stato, una Banca centrale il cui obiettivo ufficiale continua a essere la stabilità dei prezzi e non la piena occupazione e uno Stato sociale funzionante: ecco i fattori dell’attuale sfacelo dell’Unione.
Quest’architettura fatica a cambiare, perché ha arricchito alcuni Stati e ne ha impoveriti altri. Sicché, quando Mario Monti parla di buone condizioni dell’Unione, e giunge sino a sostenere che come italiani “abbiamo bisogno di una buona condizionalità come dei soldi, e forse più che dei soldi” (Otto e Mezzo, 12 giugno) dice e non dice, perpetuando lo status quo. Non dice quali debbano essere le nuove “buone condizioni”, né come l’Europa debba riscrivere la propria costituzione economica, sormontando in maniera permanente e non saltuaria parametri e regole che non hanno unito ma disgregato l’Unione. Non indica i fini completamente diversi che dovrebbe darsi la Bce. Resta prigioniero di quella che lo studio di Chatham House chiama la trappola dell’Unione: uno “status quo sub-ottimale privo di consenso su come mutare l’Europa, e incapace di muoversi verso una politica economica che torni ad avere lo Stato al suo centro, come chiesto oggi dai suoi cittadini”.
Questa costruzione si sta infrangendo, soprattutto nei Paesi che più hanno sofferto dell’austerità. È arrivato il momento di riconoscere che l’Unione deve darsi gli strumenti per cambiare rotta, smettendo di essere la forma regionale dell’iper-globalizzazione e disseppellendo le politiche di Welfare che permisero il “trentennio glorioso” del dopoguerra, fra il ’45 e il ’75.
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