di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 19 giugno 2025
Fin da quando nell’ottobre 2023 ha scatenato l’offensiva a Gaza – non una guerra ma lo sterminio dei Palestinesi, cui s’aggiungono le espulsioni mortifere in Cisgiordania occupata – Netanyahu ha indicato l’obiettivo desiderato: la “vittoria totale”.
Dal 13 giugno sappiamo che la vittoria totale, come la concepisce il premier in combutta da trent’anni con i neoconservatori Usa, è la sconfitta militare di quella che chiama “la testa della Piovra”: la Repubblica Islamica dell’Iran. Teheran è il fronte decisivo dell’“Asse della Maledizione” (dopo Gaza, Cisgiordania, Hezbollah in Libano e Iraq, Houthi nello Yemen, Siria).
Trascinare Washington nella guerra è la volontà di Netanyahu, che opera grazie ai soldi e ai servizi Usa, ma non può penetrare il sito nucleare di Fordow senza un diretto impegno americano. “I cieli sono sotto il nostro controllo”, ha detto martedì Trump, confermando che l’attacco è sempre più congiunto ed esigendo la resa incondizionata. In Europa il suo più acceso sostenitore è il cancelliere Merz, candidato a rappresentare il paese più armato dell’Ue: “Netanyahu fa il lavoro sporco per tutti noi. Da solo non può farlo se vogliamo eliminare del tutto il nucleare dei mullah”.
Una volta liquidati o espulsi i Palestinesi a Gaza, in Cisgiordania, a Gerusalemme Est, e se otterrà la vittoria sull’Iran che li proteggeva, Netanyahu e i suoi ministri si sentiranno più vicini che mai alla meta agognata dagli avversari di uno Stato palestinese: il progetto coloniale di un Grande Israele, esteso ai territori occupati nel 1967 e svuotati di gran parte del Palestinesi, oltre che a pezzi del Libano e della Siria. Il nuovo spazio di colonizzazione va ben oltre la Palestina governata dall’impero britannico fra il 1920 e il 1948. Gran parte della classe dirigente israeliana è convinta che solo l’espansione territoriale, accompagnata da espulsioni e stragi di Palestinesi, garantirà la sopravvivenza di uno Stato che resterà maggioritariamente ebraico. Il calcolo è suicida ma inebriante per Netanyahu: ora gli israeliani sono in gran parte con lui, anche se spaventati da contrattacchi mai sperimentati. Privi di bunker, i meno protetti sono gli arabi israeliani e i Palestinesi in Cisgiordania.
Quanto alla classe politica di destra e sinistra, ha dimenticato Gaza e sembra precipitata nella cecità. Se l’Iran cade, ragiona il governo, Israele sarà circondato da Stati non avversari, tenuti a bada dal monopolio che Tel Aviv continuerà ad avere sull’atomica (le stime oscillano fra 90 e 400 testate, la cifra è incerta perché Israele non ha mai ammesso il possesso della bomba, né accettato ispezioni internazionali). Il capo dell’intelligence Usa Tulsi Gabbard ha sostenuto a marzo che l’Iran è lontano dal possedere l’atomica (che per ora non vuole). Ma martedì Trump ha precisato che se ne infischia: la bomba di Teheran sta lì lì per produrla, come Netanyahu ripete da 33 anni.
La guerra israeliana contro Teheran è illegale e preventiva – come le guerre occidentali degli ultimi decenni, tutte fallite, produttrici di caos – e persegue due scopi contemporanei: la neutralizzazione di una potenza atomica rivale e il cambio di regime. O per meglio dire il collasso del regime, perché per un cambio occorrono alternative. Il 14 giugno Netanyahu ha chiamato il popolo iraniano a insorgere, sbandierando il motto dell’opposizione “Donna-Vita-Libertà” e bombardando i civili. La guerra contro un Iran atomico è vista come esistenziale perché Teheran vuole la “distruzione d’Israele”. Netanyahu scommette sulla perdita di memoria dei propri concittadini e degli occidentali: anche l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina si proponeva la distruzione di Israele, fino a quando cominciarono i negoziati di pace e Arafat cancellò il proposito dalla Carta dell’Olp.
Di fronte a progetti coloniali e militaristi così evidenti e non necessariamente vincenti, Trump ha tutte le carte in mano e l’Europa in quanto tale non esiste. È sostituita dalla triade composta da Francia, Regno Unito e Germania, i tre firmatari dell’accordo stretto nel 2015 da Obama con Teheran, disdetto nel 2018 da Trump su richiesta israeliana, sciaguratamente riposto in un cassetto da Biden, mai tenuto in vita dagli europei nonostante le promesse. La triade, che lo studioso Jeffrey Sachs chiama Alleanza per la Guerra, è attiva con una politica di riarmo in Ucraina come in Medio Oriente, appoggia l’offensiva di Netanyahu contro l’Iran, e abbandona i sussurri contro le carneficine a Gaza.
Tutti i governi del G7 hanno ripetuto il mantra recitato dopo l’eccidio compiuto da Hamas il 7 ottobre: “Israele ha il diritto di difendersi”. Non li sfiora il senso del tragico: dunque l’aggressore deve difendersi dall’aggredito? È autodifesa l’assenza di misure di prevenzione del genocidio a Gaza, chieste dalla Corte di giustizia internazionale? Ecco Israele, “vittima invincibile” (Amy Kaplan, Our American Israel).
Nel comunicato del G7 non si accenna all’attacco israeliano. L’Iran è descritto come “fonte principale dell’instabilità e del terrorismo regionale”. Su Gaza niente, mentre lo sterminio continua in centri di distribuzione del cibo gestiti da Israele e trasformati in centri di esecuzioni sommarie. Macron è il solo a criticare i “cambi di regime” e a ricordare i fiaschi in Iraq e Libia. Ma giudica del tutto legittima la guerra preventiva: “Il programma nucleare iraniano è una minaccia esistenziale per Israele e l’Europa”.
La distinzione sbilenca fra i due obiettivi (atomica-regime change) è una novità assoluta, perché sancisce il controllo preventivo della proliferazione nucleare tramite la guerra, e non tramite negoziati come quello concluso da Obama. L’India si è dotata dell’atomica nel 1974. La sua sovranità non è stata attaccata militarmente. Così il Pakistan, il Nord Corea. Naturalmente una futura atomica iraniana sarebbe pericolosa: Arabia Saudita e Egitto seguirebbero l’esempio. Ma non sarebbero loro a destabilizzare il Medio Oriente. Il primo destabilizzatore è lo Stato d’Israele, fin dagli anni ’60 quando laburisti come Shimon Peres e Golda Meir puntarono sull’atomica e sull’egemonia regionale. Alle guerre preventive contro il terrorismo si aggiungono le guerre contro la proliferazione. Il non detto delle crisi medio orientali è questo: non ci saranno negoziati seri fino a quando sul tavolo non saranno messe le atomiche israeliane.
Resta l’enigma di Trump a rimorchio di Israele, e peggio ancora dei coloni nei territori occupati. Molti si chiedono come mai il presidente abbandoni l’isolazionismo dell’America First in favore dell’interventismo dei neo-conservatori repubblicani e democratici. In realtà il confine fra le due dottrine è labile e poroso. Le tiene insieme la connivenza, presente in due secoli di storia americana, tra sionismo cristiano e attaccamento messianico a Israele; tra il fondamento coloniale dell’America e il fondamento coloniale della corrente ebraica del sionismo; tra neocon e destre cristiane. Il Destino Manifesto degli Stati Uniti – citato spesso da Trump – fu teorizzato nell’800 dai colonizzatori dell’Ovest, e fonda l’anelito al Grande Israele. L’Iran è uno Stato teocratico, è vero. Lo è in parte anche l’America e di sicuro lo è l’Israele di Netanyahu, dei suoi messianici ministri e dei suoi coloni.
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