di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 20 luglio 2023
Fanno piuttosto impressione i messaggi di cordoglio di tanti giornalisti per la morte di Andrea Purgatori. Si va dal semplice “Ciao” alla giusta ammirazione per le sue inchieste: su Ustica, su Emanuela Orlandi e il Vaticano, su molte indagini continuate per decenni a dispetto di depistaggi, intralci, minacce. Commuove specialmente il cordoglio dei reporter che gli erano amici. Ma non ce n’è uno, tra i giornalisti d’inchiesta, che alzi il dito e dica: continuerò le indagini che Purgatori cominciò toccando appena un lembo di verità – non mi lascerò intimidire da minacce di censura e a mia volta non peccherò di autocensura –, nessun potente potrà farmi dormire nel suo letto come accade ai reporter di guerra embedded, per l’appunto, negli eserciti graditi alla Nato.
Non che manchi il coraggio, nei cronisti e reporter delle generazioni successive a quella di Purgatori. Soprattutto non manca il desiderio di fare come lui, di insistere nello scavare per dieci-venti-trenta-quarant’anni, quando tutto congiura contro il tuo incaponimento. Quel che manca tragicamente, nel giornalismo d’inchiesta, è il committente. Contrariamente al criminale che ha alle spalle il mandante, il cronista non ha alle spalle nessuno che commissioni l’indagine, ti preservi dalle autocensure, ti permetta per decenni di non mollare l’osso neanche quando il riflettore Tv si spegne.
Perfino Sigfrido Ranucci di Report dice le cose a metà, anche se un bel po’ ne dice: “Da oggi mi sento più solo… Senza il suo coraggio, senza le sue qualità molte nefandezze sarebbero rimaste oscure. Ci ritroveremo da qualche parte, sono sicuro. E saranno cazzi loro!”. Quel che Ranucci omette di aggiungere è: caro Purgatori, indagherò anch’io sulle nefandezze che volevi veder punite e che restano tuttora oscure.
Privi di proprietari all’altezza, i giornali scritti sono morti viventi, guidati da direttori che amministrano bancarotte e funerali neanche troppo pomposi della professione. Questo il compito che assegna loro il falso committente, che si fa chiamare editore ed è in realtà un industriale o finanziere che paga per avere un giornale-lobby anziché cronisti e reporter davvero indipendenti. Son pochi i giornali decisi a smontare frase dopo frase il grumo di menzogne e accuse ai media non asserviti che persone come Marina Berlusconi presentano come verità. I giornali più venduti e meno poveri, chiamati “giornaloni”, sono spesso i più venduti anche nel senso brutto dell’aggettivo. Né è diverso in Tv. Anche le reti private fiere di non essere lottizzate sono stracolme di talk perché complici senza quattrini di poteri ostili a inchieste anticonformiste.
Non succede solo in Italia. Seymour Hersh svelò la strage di My Lai perpetrata dagli Usa in Vietnam, scoperchiò le torture di prigionieri iracheni ad Abu Ghraib, ma quando scrisse cose non grate sull’uccisione di Bin Laden ordinata da Obama, il «New Yorker» gli chiuse la porta. Oggi continua le sue inchieste sulla piattaforma Substack.
Un giovane che aspiri a incaponirsi come Purgatori deve saperlo: il venir meno di un committente che punti su giornalisti indipendenti ha come conseguenza la mancanza di remunerazioni che permettano di resistere alle minacce, di rispondere No alle pressioni esterne. Purgatori fa parte di una generazione che non conosceva ancora i cronisti pagati due lire o addirittura non pagati, disposti a fare il gratuito lavoretto pur di inserirlo nel curriculum.
Mi piacerebbe leggere i messaggi di costernato cordoglio di questi ultimi (ultimi in tutti i sensi). Mi piacerebbe anche che qualcuno cogliesse l’occasione per esigere la depenalizzazione della diffamazione a mezzo stampa, e di ogni legge bavaglio. Non avrei la sensazione, strana e iperreale come gli incubi, di salutare un elefante del giornalismo freddato d’un sol colpo.
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