di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 23 agosto 2023
In apparenza sembra davvero un’estate di sconfitte, quella subita dai falchi occidentali che pretendono di stabilizzare il pianeta scatenando guerre distruttive a ripetizione o inasprendo guerre iniziate da altri.
Lo constata Seymour Hersh, che in un articolo del 17 agosto parla di Africa oltre che di Ucraina, e conferma quanto vanno dicendo da giorni i servizi Usa: la controffensiva ucraina sta fallendo, e c’è chi nella Nato comincia a prospettare cessioni di territori a Mosca, per metter fine a una guerra che Kiev combatte e prolunga per procura.
Biden ancora non si espone, ma si espongono gli uomini della sua intelligence, che smettono di incensare Zelensky: il «Washington Post» riporta la loro opinione, secondo cui Kiev, non potendo riprendersi la porta d’accesso alla Crimea che è Melitopol, sta mancando la riconquista che si era promessa.
Negli stessi giorni, ricorda Hersh, la Francia di Macron è espulsa quasi completamente dalla sua sfera d’interesse nelle nazioni del Sahel. Dopo aver perso il Mali a seguito del golpe del 2022, dopo aver perso alleati stabili in Ciad, ora perde il Niger, ricco di uranio e crocevia delle migrazioni dal Sahel. Il golpe militare del 26 luglio ha spodestato il presidente Mohamed Bazoum, amico obbediente di Parigi e Washington. Le popolazioni hanno festeggiato la liberazione dal neocolonialismo francese in Africa centro-occidentale.
A ciò si aggiunga che il cosiddetto Sud Globale si riconosce sempre più nel gruppo non allineato dei Brics (Russia, Cina, Brasile, India, Sudafrica: il 40% della popolazione mondiale) riunito da martedì a Johannesburg. Sono circa 23 gli Stati che chiedono di entrare nel gruppo, ritenendolo l’unica alternativa al disordine prodotto dalla bellicosità Usa contro Russia e Cina, e dal dominio globale del dollaro. Aggressività e dominio che sottendono quella che Washington considera la missione sua e della Nato: il rules-based international order. La regola base può essere riassunta così: se gli Stati Uniti vogliono dominare il mondo, come nel 1945 quando abbatterono Hitler e sganciarono l’atomica su Hiroshima e Nagasaki, devono ripetere senza sosta, spalleggiati da Europa e alcuni Paesi asiatici, le guerre “di civiltà” contro il Male Assoluto che da allora incessantemente si reincarna. Male che assume di volta in volta il volto di Milošević, di Saddam Hussein, dei Talebani, di Gheddafi, e oggi di Putin e Xi Jinping.
Sembrerebbe dunque l’estate dello scontento, per i neoconservatori occidentali, se non fosse che questi ultimi già stanno cercando il modo di uscire immacolati dalla prova ucraina, pronti per nuovi disordini e guerre. Come potranno riuscirvi? Come già hanno fatto in Vietnam o Afghanistan: scaricando le colpe sul Paese belligerante a cui è stata affidata la delega di combattere a oltranza, non solo per proteggere le sue terre dall’invasore ma per difendere addirittura la civiltà occidentale fino a piegare la potenza russa. Zelensky si è infilato volontariamente nella micidiale trappola e per questo punta ancora sulla guerra lunga: se non fosse così, Danimarca e Olanda non gli darebbero i caccia F-16 utilizzabili solo nel 2024.
Vale la pena leggere attentamente il «Washington Post» del 17 agosto sulla controffensiva ucraina. Scrivono gli articolisti che se Kiev non vince, è perché non ha seguito le direttive Usa, che prescrivevano un assalto ben più massiccio lungo la linea del fronte minata dai russi a difesa delle zone conquistate a sud-est: “Le simulazioni congiunte di guerra (joint war games) condotte da militari statunitensi, britannici e ucraini avevano anticipato perdite massicce di uomini, e calcolato che Kiev le avrebbe accettate se questo era il prezzo per rompere la linea di difesa russa. Ma l’Ucraina ha voluto limitare i morti nel campo di battaglia, preferendo puntare su unità di combattimento più piccole”. In altre parole: se Kiev perde è perché al momento decisivo non ha avuto l’ardire di far morire in massa i propri soldati.
L’accusa è ripresa il 18 agosto dal «New York Times», che enumera i morti (500.000 uccisi o feriti tra ucraini e russi, secondo l’intelligence) e indica i “difetti” della controffensiva. I funzionari Usa interrogati avrebbero oggi un grande timore: che “l’Ucraina sia diventata casualty averse”, ostile alle perdite di vite umane, e che “per questo stia mostrando prudenza nella controffensiva”. Il giornale non sembra colpito dall’indecenza delle condizioni dettate a Kiev in una guerra dove vinci se non sei casualty averse.
È così che l’Amministrazione Biden e la Nato escono dalle guerre per procura: addossando i fallimenti all’agente belligerante. Senza batter ciglio si apprestano a dar ragione con ritardo a Mark Milley, capo dello Stato Maggiore congiunto, e a quel che disse nello scorso novembre quando suggerì l’avvio di negoziati, visto che “la vittoria ucraina non era ottenibile”. Il ritardo ha comportato e comporta migliaia di morti, ma gli occidentali che aizzano senza combattere ne vorrebbero di più.
Da icona del Bene che è stato per un anno e mezzo, Zelensky potrebbe divenire, d’un tratto, l’uomo che pagherà gli errori e misfatti di chi, nella Nato, ha voluto che questa guerra durasse e s’impelagasse. Di chi ha avversato ogni accordo di tregua o di pace, a cominciare da quello negoziato tra Kiev e Mosca poche settimane dopo l’invasione, e pronto per la firma nell’aprile 2022. L’accordo fu affossato per volontà britannica e statunitense, e prevedeva vantaggi per Kiev non più ottenibili. Da allora Zelensky è incastrato nella strategia Usa e Nato, con un Paese ridotto a moncone senza più industrie vitali. Oggi rischia d’esser scaricato come lo fu Thieu a Saigon, quando Washington si stancò di seminare morte in Vietnam.
Nel frattempo, in solo un anno e mezzo i morti ucraini hanno superato i morti statunitensi in due decenni di guerra in Vietnam (58.000 circa). Il loro numero è simile a quello dei soldati di Kabul morti nella guerra di Afghanistan fra il 2001 e 2021 (circa 69.000). Colpa di Kiev, se rischia di perdere la guerra perché agisce di testa sua e non manda ancora più i soldati a saltar per aria sulle mine. Stati Uniti ed europei possono da un giorno all’altro scrollarsi di dosso i perdenti e senza tema di contraddirsi vantare vittorie inesistenti.
È quello che fa Josep Borrell, responsabile/irresponsabile della politica estera europea, quando dice che una trattativa potrebbe iniziare a settembre, ma proclama al contempo che “in ogni caso chi ha davvero perso è Putin, che voleva una guerra lampo ed è oggi sulla difensiva”. Infatti cos’è la Russia ai suoi occhi? “Nient’altro che un nano economico, un distributore di benzina il cui proprietario ha la bomba atomica” (intervista a «El País», 20 agosto). La guerra di Ucraina non è finita, ma l’ebetudine illimitata del socialista Borrell conferma che l’Europa unita, avendo perso ogni aspirazione all’autonomia e alla sovranità, e dimenticando d’esser nata come artefice di pace, non impara più nulla dai propri fallimenti.
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