di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 8 luglio 2023
Le sommosse in Francia hanno fatto tremare il Paese e la sua classe politica per vari giorni dopo l’uccisione, il 27 giugno a Nanterre, del giovane algerino Nahel M., 17 anni, freddato dalla polizia per via del “rifiuto di ottemperare” agli ordini dopo una fuga in automobile.
Si indaga anche sulla morte di Mohamed, un giovane colpito da un proiettile flashball sparato dalla polizia, fra il 30 giugno e il 1° luglio: filmava i tumulti a Marsiglia. L’arma, molto usata contro i Gilet gialli, fu allora criticata dall’Onu.
La sommossa al momento si sta spegnendo, ma scombussola tuttora la Presidenza della Repubblica e i partiti di destra, di estrema destra, delle sinistre. Ciascuno cerca di definire la propria identità usando politicamente i disastri delle banlieue, che diventano non un problema annoso da affrontare ma un pretesto. Obiettivo: decidere chi guiderà la Francia quando nel 2027 la presidenza Macron si concluderà (anche se alcuni fanno balenare la bizzarra possibilità di una modifica costituzionale che ponga fine al limite di due mandati consecutivi).
Parlano molto, i politici, ma pochi vogliono conoscere e capire quel che accade nelle banlieue, quel che spiega la straordinaria violenza in tante città e comuni: non da oggi ma da almeno quarant’anni. Ci sono state sommosse negli anni 80 e poi soprattutto nel 2005, quando il presidente era Jacques Chirac e il ministro dell’interno Nicolas Sarkozy, primo attore della risposta governativa. La convinzione del ministro poi eletto presidente era che bisognava farla finita con l’era del permissivismo, e regolare i conti, infine, con le ideologie giudicate sovversive del ’68: dunque si rivolse ai giovani rivoltosi chiamandoli “feccia” (racaille) e promise di ripulire le periferie “col Kärcher”, cioè con prodotti usati per pulire strade, automobili o muri.
La biopolitica prese il sopravvento e pervade ora il discorso dell’estrema destra (Marine Le Pen e ancor di più Eric Zemmour): gli abitanti nelle banlieue vanno trattati come oggetti da raschiare e ripulire, se non vogliono restare feccia. Vengono più che mai emarginati, etichettati in anticipo come sospetti, ghettizzati.
Ci sono alcuni elementi nuovi nelle sommosse. Prima di tutto l’età degli insorti: almeno un terzo dei rivoltosi sono adolescenti, dai dodici anni in su, e questo complica il discorso politico, la repressione e l’amministrazione della giustizia. Poi c’è la comunicazione social tra i rivoltosi, che accende fiamme istantanee. Infine pesa il fatto che la presidenza Macron è alle prese con rivolte sociali successive, diverse tra loro ma suscettibili tutte insieme di inasprire lo scontro politico: Gilet Gialli fra l’ottobre 2018 e il primo lockdown nel 2020; movimento contro la legge sulle pensioni e la politica economica di Macron, fra dicembre 2022 e il maggio scorso. Sono stati cinque anni di altissima turbolenza per Macron, ben più logoranti del maggio ’68 per De Gaulle.
La rivolta delle banlieue è tuttavia diversa dalle due precedenti proteste sociali. Non avanza rivendicazioni, neanche confusamente, non si esprime con parole ma solo con il saccheggio, le fiamme, l’urlo dell’abbandonato. Chiede innanzitutto – come nel 2005 – di essere vista. Infine non gode di appoggio popolare come avvenne con i Gilet Gialli e il movimento sulle pensioni. Dai film di Ken Loach si passa al John Carpenter di 1997: Fuga da New York. I rivoltosi sono rinchiusi in ghetti che a partire dalla rivolta del 2005 sono stati un po’ migliorati con opere pubbliche e nuove abitazioni (soprattutto a Nanterre dove la polizia ha freddato Nahel) ma che restano ghetti: se sei di quei quartieri, se hai un codice postale “sospetto”, non troverai fuori di essi né amici, né rispetto, né lavoro. Le inferriate non ci sono, i trasporti per uscire sono perfino aumentati, ma se hai la sfortuna di abitare lì, bianco o nero che tu sia, sei marchiato.
Come in parte nel 2005, i rivoltosi hanno di fronte un vuoto politico. La maggior parte delle discussioni concerne il comportamento dei poliziotti mobilitati (45.000; nel 2005 ne furono mobilitati 12.000), l’uso di armi letali e l’esistenza di fazioni violente nella polizia, ben tollerate dal ministro dell’Interno Darmanin. La legge sulla sicurezza pubblica voluta nel febbraio 2017 dall’allora premier Cazeneuve rende fluido il confine tra legittima difesa e diritto a sparare in caso di “rifiuto di ottemperare”. La legge è confutata a sinistra, in primis da Mélenchon. Contestate sono in genere le misure sull’ordine pubblico sempre più simili a quelle contro il terrorismo. Ma queste contestazioni non equivalgono a occuparsi delle banlieue.
Che avvenire si può immaginare per la classe politica? L’estrema destra profitta della rivolta più di ogni altro partito e più di Macron. Marine Le Pen si presenta come garante più efficace dell’ordine, e ha accanto a sé, più come rivale che come comprimario, un personaggio ancora più estremista e incendiario di lei: Éric Zemmour, il giornalista-intellettuale che si candidò alle ultime Presidenziali. Per Zemmour la Francia è alle prese con una guerra civile ormai permanente tra francesi e immigrati alieni. Macron che ha visitato Marsiglia è andato, secondo lui, a omaggiare una “città che non è più francese”. La sua solidarietà va ai sindacati di polizia come Alliance, che parla di “guerra”, di “orde selvagge” e di “parassiti”. La vera egemonia sulla destra (compresa quella dei repubblicani di Eric Ciotti) la esercita Zemmour. Queste idee coprono oggi un arco molto più vasto, in Europa, che giunge sino a includere giornalisti-intellettuali con credenziali di sinistra che teorizzano – come Zemmour – il “Suicidio dell’Occidente” bianco (in Italia è il caso di Federico Rampini). La destra è così forte anche perché la sinistra è di nuovo a pezzi. Jean-Luc Mélenchon è criticato dagli alleati socialisti e comunisti per essersi rifiutato di sottoscrivere appelli alla calma, preferendo concentrarsi sugli appelli alla giustizia. È difficile che Mélenchon, attaccato da tutte le parti, resti punto di riferimento e leader delle sinistre unite alle Presidenziali del 2027.
Infine Macron. Fin dai tempi dei Gilet gialli, il presidente è profondamente malvisto a causa delle disuguaglianze sociali fomentate e degli sgravi fiscali concessi ai più abbienti. Nelle sommosse odierne il comportamento è stato all’inizio misurato, quando ha definito l’uccisione di Nahel “ingiustificabile e imperdonabile”. Ma nei giorni successivi il presidente si è rifugiato in banalità anche pericolose, distribuendo le colpe tra genitori, videogiochi e social network da censurare in tempi di crisi. Sembra non sapere quel che vuol fare, e dire. Per governare ha bisogno di una destra che si è estremizzata. Non è l’argine a Le Pen che prometteva di essere. Diceva di cercare un centro; i suoi accenni all’“illegittimità delle folle” e alla “de-civilizzazione” della Francia lo hanno dislocato ancora più a destra, e ora di permanente resta solo l’assenza di gravitas.
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