Articolo pubblicato su «Il Fatto Quotidiano», 1° marzo 2016. La versione inglese è apparsa su openDemocracy
È giunta l’ora di trovare il filo che lega i vari disastri dell’Unione europea: i rifugiati in primis, e l’austerità, lo sfaldarsi delle Costituzioni nei Paesi membri, l’Europa più ristretta e meno democratica che potrebbe nascere dopo l’accordo con Londra.
L’Europa già si è sfaldata nel 2013-2014, come progetto solidale fondato sui diritti, durante la crisi del debito greco. Un Paese membro è stato lasciato solo e senza protezioni, perché passassero riforme di austerità che si erano già mostrate fallimentari non solo nell’Europa ma nel mondo (penso ai programmi di ristrutturazione del Fondo monetario degli anni ’80 in Africa, Asia e America Latina). Il governo Tsipras su cui si erano appuntate molte speranze della sinistra europea non è stato capace di insistere, e si è piegato a un memorandum ancora più duro dei precedenti.
Il cedimento non è servito a nulla, se è vero che Atene continua a esser minacciata di espulsione: sulla questione dei rifugiati è di fatto già oggi esclusa da Schengen. Nei giorni scorsi l’Austria non solo ha chiuso le proprie frontiere, facendo propria la strategia perseguita già da tempo dal gruppo di Visegrad (Repubblica ceca, Polonia, Slovacchia) ma ha convocato una riunione con nove Paesi balcanici, il 24 febbraio, per interrompere il flusso dei migranti lungo il confine macedone. La Grecia non è nemmeno stata invitata, come se non fosse l’attore principale del dramma. Il suo governo ha giustamente denunciato la caduta dell’Europa in sistemi di dominio che “hanno radice nell’Ottocento”.
Vienna e il gruppo Visegrad hanno un doppio obiettivo. Primo: isolare una volta per tutte Atene, e spostare i confini esterni dell’Unione in Centro-Europa. Secondo: far pagare al governo tedesco le posizioni troppo aperte sui rifugiati. Oggi Angela Merkel è isolata in materia di immigrazione, e questo spiega il suo corteggiamento, pericolosissimo, del regime di Erdogan. Con quest’ultimo infatti l’Unione sta stipulando un accordo capestro, gestito proprio da Berlino.
È un accordo capestro perché nei negoziati con la controparte europea il governo turco è stato esplicito, come dimostrano i verbali delle riunioni trapelati in seguito a fuga di notizie. Erdogan ha minacciato di inondare i paesi dell’Unione Europea, se non riceverà da quest’ultima tutto quel che chiede: soldi, e silenzio sul massacro dei curdi che Ankara sta compiendo nel Sud-est del Paese, oltre che sui bombardamenti dei curdi siriani della Repubblica di Rojava.
La Francia si dice in disaccordo con le decisioni di Vienna e del gruppo di Visegrad, ma il 16 febbraio il premier Valls ha respinto l’ipotesi di accogliere un maggior numero di migranti, come le è stato richiesto. La frontiera italo-francese resta chiusa.
Naturalmente questi terremoti provocano ulteriori scosse nell’Unione, non meno gravi. Una di queste è l’accordo Unione Europea-Gran Bretagna per evitare il Brexit. Un accordo di per sé non sorprendente, perché l’Inghilterra già ha uno statuto a parte: è fuori dall’euro, da Schengen, dalla Carta dei diritti fondamentali, dalle comuni politiche interne e di giustizia. Se dopo il referendum restasse nell’Unione, sarebbe fuori anche dalla libera circolazione dei lavoratori e dai diritti sociali che essa implica.
La cosa grave è che Londra ha creato un precedente. Da ora in poi, ogni Paese Membro che non voglia far parte di progetti comuni sarà spinto a negoziare una clausola di esclusione, un opt-out. L’Ungheria ha già annunciato mosse in tal senso sulle quote di rifugiati che le sono state assegnate, per alleggerire il peso che grava su Grecia e Italia, dalla Commissione. La Polonia potrebbe seguire l’esempio.
Gli ottimisti dicono che nell’accordo Unione-Gran Bretagna c’è una parte positiva: Londra non potrà bloccare un’“unione più stretta” fra i paesi che lo vogliono. È vero, ma solo sulla carta. Quel che oscuramente si programma è un’Europa al tempo stesso più piccola, ancora meno democratica, e più oligarchica che mai. Quale Parlamento la controllerebbe, visto che l’attuale Parlamento rappresenta 28 nazioni? Quali sarebbero gli opt-out di altri Paesi? Non sarebbe né l’Europa federale e democratica di Ventotene, né l’intercapedine tra Stati sovrani diminuiti e mondo della finanza globale. Già oggi non lo è. Lo sarebbe ancor meno. Sarebbe un mercato e tutto finirebbe qui.
Infine penso sia giunto il momento di fare il punto sulle sinistre in Europa. Non intendo le sinistre socialdemocratiche o il Pd, che danno il proprio consenso a quest’Europa ridotta a mercato, che in politica estera seguono passivamente le strategie della Nato lungo i confini con la Russia o in Libia e Mediterraneo. Intendo le sinistre europee e veramente federali auspicate per esempio dal movimento, ancora in statu nascendi, dell’ex ministro greco Yanis Varoufakis (DiEM25).
Questa sinistra internazionalista e federale non ha un compito facile. Perché buona parte della sinistra radicale, inseguendo progetti di sovranismo, riduce il suo stesso peso in Europa, fuori dei piccoli Stati di cui è espressione. Perché nelle sue confutazioni mette sullo stesso piano la centralizzazione della tecnostrutttura europea e il federalismo, lasciando che quest’ultimo sia confiscato da chi vuole l’Europa ristretta, ancora più burocratica e oligarchica. Se si vuole servire i cittadini europei, e risvegliare in essi il bisogno di Europa, bisogna informarli meglio su quel che veramente sta accadendo, e che fin da oggi sta disgregando il progetto europeo, inizialmente concepito per meglio proteggerli dalle dittature, dagli Stati più forti del continente, e dai mercati globali.