Macron re dei supponenti e la cecità totale dell’Eliseo

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 10 settembre 2025

È passato un anno dalle elezioni legislative anticipate volute da Emmanuel Macron, due primi ministri da lui nominati sono nel frattempo caduti – Michel Barnier con una mozione di censura il 4 dicembre, François Bayrou con un voto di sfiducia lunedì – e ancora il Presidente non ha capito che il grande perdente è lui, nonostante le incapacità negoziali di ambedue i Premier falliti. Ieri ha nominato primo ministro un suo fedelissimo, il ministro della difesa Sébastien Lecornu. Probabilmente Macron pensa che facendo sempre la stessa cosa, e avendola fallita due volte, il risultato possa essere diverso.

Il debito che appesantisce il paese è aggravato dalle sue politiche, e da anni è lui il bersaglio della collera dei francesi. La Francia è bloccata da lui e non – come sostengono centro-destra e media mainstream – dai movimenti popolari o sindacali che manifesteranno oggi e il 18 settembre. Quello di oggi, annunciato da tempo, ha come motto: “Blocchiamo Tutto”. Non cade dal cielo ma prosegue un movimento di protesta quasi ininterrotto che ha accompagnato la presidenza sin dagli inizi: Gilets Gialli nel 2018-2019; lunga mobilitazione nel 2023 contro la legge sulle pensioni, imposta da un capo di Stato senza più maggioranza assoluta; e adesso il Blocco. Ogni volta sono le dimissioni presidenziali che vengono invocate.

Da parecchi mesi Macron si occupa quasi solo di politica estera, dove può esibire una regalità inesistente e gesticolazioni bellicose, ma ecco che la verità sui suoi poteri effettivi è venuta a galla senza possibili malintesi, lunedì all’Assemblea nazionale: l’alleanza di centro-destra che sosteneva Bayrou s’è infranta, la coalizione presidenziale che raggruppa tre mini-partiti centristi tra cui quello macroniano era stata già ridotta nel 2024 e potrebbe restringersi ulteriormente: i sondaggi le attribuiscono il 15%, otto punti in meno rispetto a un anno fa.

Il centrismo non funziona nemmeno in Francia. Bayrou è caduto perché parte della destra che sosteneva la sua fragile maggioranza lo ha silurato (13 deputati del partito dei Repubblicani, attratti probabilmente dall’estrema destra). Ha votato contro anche una deputata macronista, per lo scandalo degli abusi pedofili e delle violenze nella scuola cattolica di Bétharram, nel sud-ovest della Francia. Bayrou che governava la regione sovvenzionò e favorì la scuola per anni.

Resta che il caos è opera di Macron e di una cocciutaggine che rasenta la dissennatezza. Nessun governo è possibile, decretò prima e dopo le elezioni per lui disastrose del 2024, “se non continuerà la mia politica (…) Non accetterò smagliature”. Ragion per cui ignorò la vittoria delle sinistre riunite nel Nuovo Fronte Popolare – ben sapendo che la temuta discontinuità era con loro inevitabile – e dopo ben due mesi di tergiversazioni affidò la guida del governo a Michel Barnier, cioè ai perdenti delle legislative (i Repubblicani). Ancora più grottesca la nomina del secondo premier: il partitino di Bayrou (MoDem) ha meno seggi dei Repubblicani. La nomina di Lecornu non cambia nulla. Dal 2024, Macron cammina con gli occhi bendati.

In passato, due presidenti di peso avevano accettato la coabitazione con gli avversari arrivati primi alle legislative: due volte Mitterrand, nel 1986 e nel 1993, una Chirac nel 1997. Ambedue tollerarono civilmente le “smagliature”. Macron no, si sente infinitamente più insostituibile e inaffondabile dei predecessori. Nemmeno Luigi XVI aveva tanta sicumera prima di esser ghigliottinato.

È una sicumera che si estende a raggiera, tutt’attorno alla sua persona: in Francia, in Europa, nel mondo. Fotografato assieme a Trump, ai colleghi europei e a Zelensky, nella foto di gruppo alla Casa Bianca, Macron si presenta con la mano in tasca, esibendo sprezzatura. Su Israele finge di essere all’avanguardia in Europa perché riconoscerà lo Stato palestinese, e ignora che l’unico all’avanguardia è lo spagnolo Sánchez, che s’accinge a bloccare le forniture a Israele di armi e energia, e che ha riconosciuto lo Stato palestinese dalla primavera del 2024 (con Irlanda, Norvegia, Slovenia).

Ma la supponenza più grande è altrove. Eletto due volte, nel 2017 e nel 2022, Macron aveva fatto ai francesi una promessa solenne: sarò io l’argine all’avanzata dell’estrema destra. Per questo fu eletto: non per la personalità e tantomeno per il programma, ma perché i francesi non intendono accordare il potere massimo a Le Pen, anche se il rifiuto tende a scemare.

Promessa non tenuta: il Rassemblement National di Le Pen ha fatto enormi passi avanti e la collera contro il liberismo di Macron lo rafforza nelle classi popolari, nonostante il rifiuto lepenista di ogni tassa sui più abbienti. La proposta di Bayrou di abolire due giorni festivi è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Se si dovesse arrivare a un nuovo scioglimento dell’Assemblea, l’estrema destra sarà il primo partito, e il Presidente dovrà affidarle la guida del governo o dimettersi: gli imbrogli del 2024 non possono ripetersi ancora.

Evidentemente la promessa di Macron era stata fraintesa. L’argine promesso doveva servire a frenare e frantumare le sinistre, non l’estrema destra.

Le Pen vincerebbe oggi alle elezioni perché i socialisti non hanno capito che questo era il vero scopo di Macron: spezzare l’unione a sinistra. Oppure l’hanno capito, e una parte consistente dei socialisti e un partitello contiguo (Place Publique di Raphaël Glucksmann) condividono lo scopo. Assieme stanno imboccando la via “socialdemocratica” delle grandi coalizioni con la destra, certi che per governare bisogna ostentare “responsabilità” e rompere con la Francia Indomita (France Insoumise).

In realtà Mélenchon non è estremista come pretendono tanti commentatori. È socialdemocratico anche lui: ma socialdemocratico all’antica, pur non possedendo il carisma di Willy Brandt. Più potere d’acquisto, ecologia, aumento del salario minimo, fine dei privilegi fiscali concessi da Macron ai più ricchi e alle grandi industrie: questo il programma. E in politica estera pace in Europa (Mélenchon ha sostenuto l’Ucraina ma critica gli allargamenti Nato) e sanzioni contro il governo di Israele, che assieme a Sánchez accusa di genocidio.

L’unità a sinistra si è sfasciata tra l’estate 2024 e quest’estate. I dirigenti del partito socialista non sono più contrari a un’alleanza con i macronisti, ma il Presidente continua a ignorarli. I giornali e le televisioni quando parlano di “arco repubblicano” non escludono solo l’estrema destra ma anche e soprattutto gli Indomiti di Mélenchon, incolpati d’ogni misfatto. Sono accusati di “guerra civile” da Bayrou, di antisemitismo per le accuse di genocidio a Israele, e sono “seminatori d’odio” per la manifestazione Blocchiamo Tutto: “L’ultra-sinistra vuol dire ultraviolenza”, minaccia il ministro dell’Interno Bruno Retailleau, che ha mobilitato oggi ben 80.000 poliziotti e gendarmi.

I socialisti hanno creduto che questa fosse l’ora dei “responsabili di sinistra”, e la nomina fulminea di un Premier centrista li lascia nudi sulla spiaggia, svergognati e umiliati. Per il momento comunque a rappresentare la sinistra resta solo il partito di Mélenchon, e almeno si fa chiarezza. Non si sa quanto durerà Lecornu. Si sa solo che Macron ha scelto un Premier contando sulle destre dei Repubblicani, assai più preziose delle sinistre dal suo punto di vista. Si sa che il giorno in cui dovesse sciogliere una seconda volta l’Assemblea, sarà sempre più difficile per lui evitare le dimissioni.

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I giochi proibiti di Macron

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 3 luglio 2024

Macron voleva vedere l’effetto che fa. Il 9 giugno aveva appena sciolto l’Assemblea, per brutale ripicca e senza neanche avvisare il premier Attal, e con sorriso beffardo bisbigliò a un amico finanziere incrociato all’Eliseo: “Certo che sto bene! Gli ho gettato tra le gambe una bomba a mano senza sicura, e adesso vediamo come ne escono”.

Giocava ai soldatini e gli è andata male. Credeva di controllare tutto, e ora controlla giusto il rettangolino di terra su cui poggia i piedi.

Al primo turno delle Legislative ha assistito all’agonia del proprio partito, Renaissance, e alla quasi scomparsa della destra postgollista dei Radicali. Questi ultimi già s’erano disintegrati, l’11 giugno, quando Éric Ciotti, loro presidente, si alleò con i vincitori provvisori del giochetto di Macron: Marine Le Pen e Jordan Bardella. La lotta ora avrà come protagonisti cruciali la sinistra unita, che supera di gran lunga Macron, e un’estrema destra che non ha la maggioranza assoluta, ma che spera al secondo turno di ottenerla. E di trascinare con sé i Repubblicani restati fuori, se la maggioranza sarà parziale.

Torna dunque il conflitto destra-sinistra, solo che non è più destra ma estrema destra (Marine Le Pen tentò di abolire l’aggettivo “estrema”, ma nel marzo scorso il Consiglio di Stato glielo lo vietò). Macron aveva definito arcaico il conflitto, alle Presidenziali del 2017 e 2022. In ambedue le occasioni aveva promesso di sbarrare la strada a Le Pen, e ora è proprio lui ad aprirle i cancelli del potere, in una campagna che lo ha visto usare la sinistra radicale di Mélenchon come principale se non unico bersaglio.

Lunedì è parso svegliarsi. Ora auspica un Fronte Repubblicano per evitare che l’estrema destra ottenga la maggioranza assoluta, e non esclude più la desistenza dei propri candidati che al turno di domenica prossima restano in lizza come terzi (cosiddette triangolari). È giunto sino a ricordare ai ministri che nel 2017 e 2022 furono le sinistre a dargli la maggioranza: “Senza di loro nessuno di voi sarebbe qui”. Neanche lui.

Ben tardiva resipiscenza, che potrebbe raddrizzare le cose ma difficilmente. È mancato l’appello pubblico: dall’Eliseo è arrivato appena un sussurro a redazioni e reti Tv. E manca l’invito esplicito a ritirare tutte le candidature centriste arrivate al terzo posto e a votare per le sinistre, anche quelle calunniate di Mélenchon (“Bisognerà valutare caso per caso”). Per tutta la campagna elettorale, fin quando a sinistra è nato il Nuovo Fronte Popolare, Macron è stato ben più aggressivo con Mélenchon che con Bardella, e così si sono comportati Attal e i ministri. L’estrema destra era un pericolo per l’economia, ma Mélenchon era l’ignominia personificata: dopo il primo turno Macron lo definì antirepubblicano, antiparlamentare e soprattutto – l’accusa più infamante e menzognera – antisemita, per via del sostegno di France Insoumise (“Francia Indomita”) allo Stato Palestinese. Non solo: il costo delle riforme di Bardella ammontava secondo l’Eliseo a 100 miliardi, quello delle sinistre a 300.

La svolta in extremis del presidente pesa poco, per ora. Ben sette ministri ripetono come automi la formula presidenziale delle settimane scorse: “Né Bardella né Mélenchon”. Solo alcuni auspicano una “desistenza incondizionata” a favore di qualsiasi candidato di sinistra capace di vincere nelle triangolari.

Il ripensamento presidenziale, la presa di coscienza di alcuni macroniani, la proposta di Attal di una maggioranza alternativa che comprenda tutta la sinistra, qualora Bardella non avesse la maggioranza assoluta: sono elementi che potrebbero contare, ma è probabile che le scelte degli elettori abbiano ormai messo radici. In primo luogo perché anche se al primo turno non votano maggioritariamente Le Pen, di sicuro la maggioranza detesta Macron. In secondo luogo perché Bardella stesso ha cambiato idea. Aveva detto che avrebbe governato solo con la maggioranza assoluta e ora gli va bene anche quella relativa, sicuro com’è che i Repubblicani non passati all’estrema destra lo sosterranno dopo il secondo turno.

Il fatto è che la vittoria totale o parziale di Bardella/Le Pen non si decide solo tra i partiti e neppure solo tra gli elettori. Essa è oggi favorita da una vasta maggioranza in parte occulta, potente, spregiudicata. Sono i veri poteri che muovono le pedine: i grandi magnati che posseggono giornali e Tv (Vincent Bolloré in prima linea, detto anche Barone Nero perché protettore di Le Pen, Dassault, Bouygues, l’armatore Rodolphe Saadé), e inoltre i poteri finanziari, la Confindustria, le varie lobby industriali che temono come la peste le proposte delle sinistre: la giustizia fiscale progressiva in primis, smantellata da Macron, e le tasse sui redditi alti, le imposte sulle multinazionali e sulle aziende che più hanno profittato della crisi pandemica e inflazionistica (farmaceutica, energia, ecc.). C’è infine la lobby israeliana, sostenuta da intellettuali fossilizzati e tuttavia regolarmente invitati in Tv (Bernard Henri Lévy). Serge Klarsfeld, illustre studioso della Shoah, ha annunciato che in ogni caso meglio Le Pen di Mélenchon.

Per tre settimane c’è stato un coro unanime contro Mélenchon, figura trainante del Nuovo Fronte Popolare. Se si esclude qualche giornalista, nessuna rete radiotelevisiva, pubblica o privata, ha maneggiato senza malafede l’accusa di antisemitismo, lanciata contro chiunque avesse manifestato per i palestinesi decimati a Gaza, pur condannando il pogrom del 7 ottobre. Nessuna che abbia cercato di capire il ruolo di Mélenchon, la sua popolarità nell’elettorato popolare.

Macron e i suoi fedeli fanno capire che si può discutere e governare con “socialdemocratici e moderati” del Fronte Popolare, in caso di vittoria parziale dell’estrema destra. Quello che non calcolano è che Mélenchon esce dal primo turno molto più forte di socialisti, ecologisti e moderati.

In Italia ci sono commentatori – ad esempio al «Foglio» – che non s’allarmano, perché le Borse son calme e “l’instabilità politica non vuol dire automaticamente instabilità economica e finanziaria, in particolare se si tratta della seconda economia dell’Eurolandia”. Forse ci siamo talmente abituati all’estrema destra governante che ci abbiamo fatto il callo. Non a caso Bardella studia l’Italia, ripromettendosi di caldeggiare come Meloni Eurolandia e Nato.

Forse però si trascura il fatto che il piano Bardella ha elementi da noi improponibili. Tra i suoi progetti c’è l’impegno a non assumere in imprecisati “posti sensibili” i cittadini binazionali (3,5 milioni); l’assistenza sanitaria negata a immigrati irregolari, con rischi enormi per la salute di tutti; gli assegni familiari tolti ai genitori di minorenni recidivi. Alle domande scomode di sinistra, Bardella risponde con sorriso agghiacciante: “Eccoci, Jean Moulin è di ritorno!” (resistente morto in deportazione).

I mercati forse apprezzano, mini-comuni e Francia rurale si sentono ascoltati, ma il Paese intero non potrà che soffrirne e spezzettarsi.

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Le Pen sconfitta, Macron non ride

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 26 aprile 2022

Strana e perturbante vittoria, quella di Emmanuel Macron domenica sera. Marine Le Pen è stata sconfitta in maniera netta, visto che il presidente uscente ha ottenuto il 58,5% dei suffragi, ma non esce stremata dalla prova: la vetta che ha raggiunto è senza precedenti nella storia dell’estrema destra francese (41,5%). Sconcertante anche l’alto numero di schede bianche e nulle – circa 3 milioni di elettori – e quello degli astensionisti (le tre categorie insieme rappresentano oltre il 34% dei voti, più di 16,7 milioni).

Quando vinse alle Presidenziali del 2017, Macron aveva fatto una promessa: farò indietreggiare la destra estrema. Non è stato di parola. Ha vinto e perso al tempo stesso. Ormai è chiaro che la Francia non intende votare nessun candidato che abbia il nome di Le Pen, ma nessuno può escludere che in futuro scelga come approdo l’estrema destra che Jean Marie e Marine hanno incarnato per vent’anni.

Il futuro di cui parliamo potrebbe essere vicinissimo: il 12 e 19 giugno i francesi torneranno alle urne per eleggere la maggioranza parlamentare di cui Macron potrà disporre per governare e tradurre in realtà un programma che peraltro non ha mai veramente presentato agli elettori. Non ha sentito il bisogno di presentarlo perché fin dall’inizio ha scommesso sulla carta più comoda: il duello con Le Pen al secondo turno. Non ha nemmeno sentito il bisogno di fare campagna elettorale, se non fra il primo e il secondo turno quando i giochi erano fatti. Non ha neppure garantito l’adozione dello scrutinio proporzionale che a parole dice di favorire. Sapeva che i francesi lo avrebbero in gran parte votato non perché convinti dal suo regno o perché impauriti dall’alternanza al potere ma perché ostili all’alternativa lepenista (i convinti non superano di molto il 27,8% strappato al primo turno).

Questo significa che i giochi sono tutt’altro che fatti e che la terra continua a tremare sotto l’Eliseo: subito dopo il secondo turno delle Presidenziali ci sarà il terzo turno delle Legislative e forse un quarto nelle piazze, in autunno. Rieletto con una maggioranza forte ma profondamente equivoca, Macron continua a essere oggetto di un vasto rifiuto: che comprende non solo le destre estreme in ascesa ma anche e non secondariamente la sinistra di Jean-Luc Mélenchon, che al primo turno delle presidenziali ha ottenuto un successo insperato, distanziando Le Pen di poco più di un punto. Fin da domenica sera Mélenchon ha dato inizio alla campagna delle legislative presentandosi come l’unico, autentico leader dell’opposizione a Macron, l’unico garante credibile di future alternanze. La lotta decisiva, alle elezioni di giugno, sarà tra lui e Le Pen. Ambedue aspirano a questa leadership. Ambedue hanno come scopo la conquista di una maggioranza in Parlamento che costringa Macron a governare con l’estrema destra o con la sinistra.

Naturalmente le élite francesi e i giornali non dicono “sinistra”, quando menzionano Mélenchon. Dicono “estrema sinistra”, generando in questo modo un distorcente parallelismo fra i due aspiranti capi dell’opposizione e lusingando quello che Macron magnifica come “estremo centro”: un luogo della politica più che impreciso, dove sono invitati a confluire i minuscoli frammenti del Partito socialista, dei Verdi, dei Repubblicani a destra, tutti disintegrati al primo turno delle presidenziali.

In realtà Mélenchon rappresenta l’unica sinistra rimasta in piedi dopo i due terremoti che hanno creato il fenomeno Macron nel 2017 e 2022. I socialisti sono estinti, avendo raccolto l’1,7%. I Verdi hanno raggranellato il 4,6. È il motivo per cui l’Unione Popolare di Mélenchon si è mossa con cautela fra i due turni, promettendo rivincite ma sconsigliando il voto a Le Pen con insistenza accresciuta rispetto al 2017. Appena saputo che Macron aveva vinto, Mélenchon è rimontato a cavallo e ha annunciato l’inizio della battaglia per il terzo turno. Lo stesso ha fatto Le Pen, che ha parlato ai suoi elettori senza condividerne le delusioni ma anzi spronandoli a inforcare subito i cavalli e ripartire per vincere davvero.

Mélenchon, in particolare, scommette sugli astenuti e sulle tante schede bianche e nulle che hanno rifiutato un secondo duello snaturato e mistificatore, tra Macron e Le Pen. Tra loro c’è chi voterebbe sinistra, che già l’ha fatto al primo turno, che ha quasi visto venire quel che molti democratici desideravano, non solo in Francia: un duello decente, non storpiato, fra Macron e Mélenchon. Sono anche da convincere non pochi suffragi popolari che solo provvisoriamente, forse, hanno votato estrema destra.

Marine Le Pen, da parte sua, punta a estendere quel che ha conquistato. Il nucleo più fedele al suo partito si esprime nel nazionalismo, specie quello xenofobo di Eric Zemmour. Ma la sua vera forza di attrazione, quella che le ha fatto fare il balzo in avanti, non è tutta qui: è nella rabbia e nello scontento delle classi popolari e degli impoveriti, il cui potere d’acquisto è oggi tartassato. Ed è nelle classi di età intermedie, dei cittadini “attivi” (Macron raccoglie consensi soprattutto nelle “classi” dei giovani e anziani, oltre che nelle grandi città).

Questa Francia grandemente frantumata, questi esiti così complessi della campagna di Le Pen e di Mélenchon, sono stati mal compresi e interpretati ancor peggio in Italia. Si è mostrato impreparato e miope soprattutto il Pd di Letta, che ha subito sposato la tesi di Macron sul doppio estremismo da combattere, di destra e sinistra. Il Pd si rifiuta ottusamente di dare a Mélenchon la patente di sinistra, di constatare e ripensare la morte del vecchio socialismo francese e l’inconsistenza dei Verdi. Non ha visto l’enorme rigetto di Macron, espresso dalle classi popolari che in massa hanno scelto Le Pen, o che si sono astenuti o hanno votato scheda bianca e nulla.

Il degrado mentale italiano si è rivelato con evidenza quando Giuseppe Conte è stato accusato di non indicare chiaramente la preferenza per Macron, quando si è limitato a dire (come Mélenchon) che dietro il voto lepenista c’è una collera sociale che va meglio analizzata e riguadagnata. Lo stesso Macron ha ammesso che questo è il messaggio del secondo turno e che ne terrà conto. Si è guardato dall’inveire, come ha fatto Letta, contro chi votando Le Pen “dà la vittoria a Putin”. Strana e perturbante è dunque la Francia. Ma non meno strani e perturbanti gli italiani macronisti che nel desiderio di emarginare Conte girano il mondo con gli insulti facili e gli occhi bendati.

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