Articolo pubblicato su «Il Fatto Quotidiano», 30 aprile 2017
La settimana scorsa ho partecipato a una missione di ricognizione della politica sui migranti, a Roma e in Sicilia, insieme ad altri deputati europeidella Commissione parlamentare per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni.
Il 19 aprile, a Catania, ho incontrato il procuratore Carmelo Zuccaro, che rispondendo a una mia specifica domanda ha ripetuto le preoccupazioni già espresse il 22 marzo in un’audizione alla Camera, sull’attività di alcune Ong che fanno Ricerca e Salvataggio spingendosi se necessario nelle acque territoriali libiche. Preoccupazioni più prudenti erano apparse in dicembre in un rapporto dell’agenzia Frontex. Le Ong che il procuratore sospetta di collusione con i trafficanti sono sei: cinque di origine tedesca (Sos Méditerranée, Sea Watch Foundation, Sea-Eye, Lifeboat, Jugend Rettet), una spagnola (Proactiva Open Arms). Nell’audizione il procuratore ha escluso dai sospetti Medici senza frontiere e Save the Children.
Alcune premesse sono indispensabili.
– La prima riguarda il linguaggio. Quando affermo che le Ong intervengono “se necessario”, e che le operazioni includono la ricerca oltreché il salvataggio, è perché questo prescrive la legge. Soccorrere una barca a rischio naufragio è una necessità. E chi svolge tale compito deve non solo assistere la barca casualmente incrociata, ma anche mettersi in ascolto (cioè cercare) chiunque lanci Sos di soccorso, anche da lontano. I due termini sono accostati nella Convenzione Onu di Amburgo sulla Ricerca e il Soccorso in mare adottata nel 1979.
– Seconda premessa: quando incombe il naufragio non è possibile distinguere tra le motivazioni dei fuggitivi. A chi affonda non puoi chiedere se stia cercando un lavoro o se scappi da guerre o oppressioni. Non puoi salvare il richiedente asilo e lasciare affogare chi subodori non lo sia, e non solo perché non hai gli “strumenti” che facilitino la distinzione. Puoi lasciare affogare o no. La prima opzione viola la legge del mare.
– La terza premessa riguarda la Libia. C’è stata una guerra, cui l’Italia ha partecipato, che con la scusa di eliminare una dittatura ha creato violenze incontrollabili da qualsivoglia autorità interna. Risultato: esistono sufficienti prove che la Libia non è più solo un Paese di transito, ma un Paese da cui si evade in massa (penso agli ex immigrati del Bangladesh nel Paese di Gheddafi). Nei centri dove vengono rinchiusi e a volte uccisi, i fuggitivi vivono “in condizioni peggiori che nei campi di concentramento”, ha confermato a gennaio una lettera dell’ambasciatore tedesco in Niger al proprio ministero degli Esteri. Esiste poi una vasta rete di commercio di persone sequestrate, torturate, vendute come schiave, come denunciato il 9-10 aprile dall’Organizzazione internazionale per le Migrazioni (Oim), legata all’Onu.
Non le Ong ma ancora una volta l’Onu, attraverso un rapporto del 13 dicembre 2016 dall’Alto commissariato per i diritti umani, ha dichiarato che la Libia non è un Paese sicuro. Conseguenza: le persone soccorse lungo le sue coste “non devono essere sbarcate” nella terra più vicina, in Libia.
A queste premesse ne aggiungo altre due, che valgono per qualsiasi Paese abusivamente chiamato sicuro (Eritrea, Sudan, Turchia);
– Chiunque fugga da uno Stato che non garantisce gli elementari diritti della persona ha diritto a ottenere protezione internazionale sulla base di un esame personale delle proprie richieste (Convenzione di Ginevra del 1951).
– La legge internazionale contempla sia il diritto per l’imbarcazione in difficoltà a lanciare un Sos di salvataggio, sia il dovere, per le navi che ricevono il messaggio, di attivarsi soccorrendo. Oggi la chiamata avviene con i telefoni satellitari, il che estende il perimetro della ricerca e del salvataggio. La Ricerca implica per forza l’uso di telefoni sempre accesi, perché l’Sos possa essere inteso in tempo utile.
Queste realtà sono così evidenti che Frontex stesso ha precisato di non aver parlato di “collusione” fra Ong e trafficanti. Ancora più chiara la messa a punto del vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans. Ai parlamentari europei, il 26 aprile a Bruxelles, ha detto: “Non c’è alcun tipo di prova che esista una collusione fra le Ong e le reti criminali di smuggler per aiutare i migranti a entrare in Europa”. Dubito che il procuratore Zuccaro abbia prove che l’Unione e Frontex non possiedono. Nell’incontro che ho avuto a Catania, lui stesso ha ammesso di non averle: “È il motivo per cui non abbiamo aperto un fascicolo”. È molto singolare che appena una settimana dopo, il 27 aprile su Rai3, torni sulla vicenda accusando alcune Ong non solo di intrattenere rapporti con i trafficanti ma anche di destabilizzare l’economia italiana. Sono d’accordo con quanto detto da Erri De Luca il 27 aprile: simili accuse non sono che “insinuazioni”, incompatibili con il mestiere di procuratore.
Fatte queste premesse, la conclusione mi pare chiara. Se è vero che la Libia non è un Paese sicuro (così come non lo sono Eritrea o Sudan, con cui Roma ha negoziato un accordo di rimpatrio di migranti lo scorso agosto), se è vero che i migranti rischiano torture, schiavizzazione e morte nei campi libici, lo smuggler non può essere l’esclusivo avversario da contrastare, tanto più che gli scafisti sono spesso scelti tra i migranti, minorenni compresi. A partire dal momento in cui esistono fughe da condizioni esistenziali invivibili, e mancano vie legali di fuga, gli smuggler sono inevitabili. Non a caso il loro nome muta nella storia. Gli smuggler che aiutarono a fuggire antifascisti, antinazisti ed ebrei erano evidentemente pagati. Non si chiamavano trafficanti ma passeur in francese, schlepper o Helfer (aiutanti) in tedesco. Lo stesso dicasi dei boat people in fuga dal Vietnam, nel 1978-79. Nessuno in Occidente se la prese con i trafficanti: si era in Guerra fredda e ai boat people venne offerto un santuario incondizionatamente.
Nessun profugo fugge senza soffrirne, e i più muoiono nei deserti prima di arrivare in Europa. Il loro è un esilio forzato. Come tutti noi, sono marionette di “grandi giochi” geopolitici ed economici che hanno militarmente devastato o desertificato le loro terre. Da questa realtà occorre partire. Ricordo anche che il soccorso in mare è sempre più equiparato a un atto sospettabile, nelle decisioni dell’Unione: per questo fu abolito Mare Nostrum, nel 2014. Nello stesso momento in cui la Ricerca e il Salvataggio sono definiti un pull factor (un fattore di attrazione), viene volutamente oscurato l’essenziale che è il fattore che spinge alla fuga (il push factor).
Su due punti il procuratore ha ragione. Le Ong riempiono – al pari dei trafficanti – un vuoto: intervengono perché non esistono vie legali di fuga e scelte europee su Search and Rescue. E non le preture ma i politici sono i responsabili di tali storture. A una risposta, tuttavia, il procuratore non risponde: che fare, se la politica non si muove? Cosa si ripromette, screditando non solo alcune piccole Ong che vivono di donazioni private ma anche la Guardia costiera italiana che agisce coordinandosi con loro?
Invito il M5S a usare un altro vocabolario (la parola “taxi” dei migranti è fuori luogo e sbadata). Invito il procuratore a leggere Lord Jim di Joseph Conrad. Consegnare le persone al naufragio è una scelta che macchia. Il capitano Jim sa di aver perso la sua grande occasione, abbandonando la nave disastrata. Nel resto della vita dovrà trovare la sua seconda occasione, per riparare al peccato di omissione.
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