Programma di attività della Presidenza italiana (discussione)
Ha detto Matteo Renzi che l’Europa muore, se non cambia. Che la stabilità senza crescita diventa immobilismo. Che non basta avere una moneta unica per condividere un destino insieme. Sarei senz’altro d’accordo, se alle parole corrispondessero fatti concreti. Tutto deve cambiare nell’Unione – le regole economiche, le istituzioni, le nomine di chi guida i suoi organi, il suo poco democratico funzionamento – se si vuole che l’unità fra europei non diventi una parola priva d’ogni senso.
Invece il semestre italiano comincia con un’assicurazione inquietante: l’obbedienza alle regole economiche non è ridiscussa – anche se sono precisamente queste regole ad aver enormemente aggravato la recessione. Ad aver prodotto una crisi di fiducia nelle istituzioni europee che non ha eguali nella storia dell’Unione. Né è in discussione il credo liberista che ha permesso a tali regole di solidificarsi e ossificarsi, e che tiene ancor oggi prigioniere le menti di chi ci governa: le cosiddette riforme strutturali (lavoro sempre più precario, prevalenza ormai incontrovertibile del «plebiscito dei mercati» sul voto popolari, riduzione delle spese pubbliche, diminuzione dei diritti, svuotamento dei Parlamenti e delle Costituzioni democratiche) sono ancor oggi considerate condizioni indispensabili per la crescita. Tutto resta com’è, solo le parole per dirlo cambiano. «Non c’è crescita senza rigore perché il rigore è premessa della crescita»: il sillogismo è divenuto intollerabile. È un circolo vizioso da cui bisogna uscire al più presto.
Quel che chiediamo al governo italiano che nel prossimo semestre presiederà il Consiglio dei ministri è non una retorica, ma l’inizio di un’Unione radicalmente rifondata. Non basta la flessibilità dei parametri europei sugli investimenti, se le risorse nazionali mancano. Quel che occorre è un vero New Deal europeo, una svolta alla Roosevelt, e non piccole e fittizie esenzioni negoziate fra Stati forti e deboli di un’Unione che non è più degna del nome che porta, basata com’è su ottocenteschi «equilibri di potenze». Occorre un’Unione che abbia risorse proprie adeguate, perché il New Deal venga in aiuto dell’intera Comunità, e specialmente dei paesi che più hanno patito l’austerità. Perché venga dato lavoro alle persone (25,7 milioni nello spazio UE) che l’hanno perduto o non l’hanno mai trovato.
È quanto rivendicano da tempo i sindacati, tra cui il Dgb tedesco. Il finanziamento è possibile attraverso la Banca europea degli investimenti, i project bond, la tassa sulle transazioni finanziarie e sulle emissioni di anidride carbonica (carbon tax): due tasse significative, perché frenano gli eccessi di finanziarizzazione dell’economia e rispettano gli obblighi derivanti dal deterioramento del clima. Altri piani esistono: sono stati discussi dalla Lista L’Altra Europa con Tsipras; aspettano solo di esser tentati. Parliamo di un programma gestito dalla Banca Europea degli Investimenti e dal Fondo Europeo per gli Investimenti, proposto tempo fa da un economista greco, Yanis Varoufakis, e uno americano, James K. Galbraith. I due enti raccoglierebbero per intero i capitali necessari sui mercati finanziari. Parliamo anche di una Conferenza sul debito simile a quella che nel ‘53 condonò gran parte dei debiti di guerra della Germania, e l’aiutò a rinascere. Non dimentichiamolo: furono i paesi oggi colpevolizzati per il debito – Grecia e Italia fra molti altri – a tendere la mano alla moribonda Repubblica federale.
Il New Deal dovrà scommettere su uno sviluppo profondamente diverso da quello di ieri: che faccia fronte al disastro della disoccupazione, che sia ecologicamente sostenibile, che protegga il diritto dei cittadini alla tutela dei beni comuni e a servizi pubblici non ridotti allo stremo, che rafforzi le democrazie anziché aggirarle e umiliarle come è avvenuto progressivamente dall’inizio della crisi iniziata nel 2007-2008. Investire nelle infrastrutture, nelle energie rinnovabili, nella ricerca, nella scuola, nei trasporti: ecco il compito dell’Unione. Già nell’Unione si stanno raccogliendo firme per un’Iniziativa Cittadina (New Deal 4-Europe) che vuol ottenere proprio questo. Il lavoro, dice il Presidente del Consiglio, sarà al centro del semestre italiano. Ma il decreto Poletti, che precarizza sistematicamente e nel lungo periodo il lavoro dei giovani, non è di buon auspicio. Ancor meno di buon auspicio, anzi scandalosa, è la decisione di rinviare alla fine del semestre la grande Conferenza europea sul lavoro, solennemente annunciata dalla presidenza italiana per il mese di luglio a Torino.
Un’analoga svolta è urgente sull’immigrazione, che va governata creando veri corridoi umanitari per i richiedenti asilo (le guerre da cui fuggono, siamo noi il più delle volte ad attizzarle). Non è la linea scelta dall’ultimo Consiglio, secondo cui spetta solo ai paesi del Sud salvare le vite nel Mediterraneo. Il commissario Cecilia Malmström è giunta sino a dire che «non ci sono soldi» per il piano Mare Nostrum, quando ce ne sono stati, a profusione lungo gli anni, per salvare le banche private. Allo stesso modo è urgente una politica culturale capace di arginare il razzismo e la xenofobia che si estendono in Europa.
Compito dei governi e di noi parlamentari è ascoltare innanzitutto le persone, che si sono espresse nel voto europeo esigendo una netta rottura di continuità con le politiche fin qui attuate. Rottura nelle politiche economiche-sociali, e rottura anche in politica estera: dobbiamo entrare nell’ordine di idee che è finito il tempo in cui la pace in Europa viene decisa negli Stati Uniti, con l’Europa che s’accoda e tace come nell’epoca della guerra fredda. Ai nostri confini con la Russia, e nel Mediterraneo, è di una pax europea che abbiamo bisogno. Il modello di federazione che l’Europa sarà in grado di incarnare potrà divenire modello di convivenza etnica e politica anche nei paesi del nostro «vicinato». E anche con l’America occorre una svolta. Renzi promette di concludere presto il Trattato sul commercio (TTIP) fra Commissione e multinazionali Usa. Sembra ignaro dei pericoli – distruzione di regole europee e nazionali concernenti il rispetto dell’ambiente, l’alimentazione sana, i beni comuni non privatizzabili – né pare battersi perché cessi la scandalosa segretezza dei negoziati.
I governi fanno finta che il messaggio delle elezioni europee sia un altro: che i cittadini si siano limitati a propiziare la vittoria di questo o quel capopartito. Non è così. I politici che nella campagna elettorale erano candidati alla presidenza della Commissione, e che sono usciti numericamente vincenti, hanno ottenuto un’assai magra vittoria, se nel calcolo includiamo la vasta massa di astenuti e l’avanzata di forze euro-ostili o euroscettiche o euro-critiche.
Ben altro domanda la stragrande maggioranza dei cittadini: che i dogmi liberisti ancor oggi prevalenti vengano meno, per il semplice motivo che non hanno funzionato. Che quando si calcola il pil non si inserisca nel conteggio la prostituzione e la droga, o la ricchezza sommersa derivante dall’evasione fiscale, o il contrabbando di sigarette e alcol, come comunicato dall’Istat nel maggio 2014, ma si introducano altre variabili della ricchezza nazionale come il volontariato o il lavoro delle casalinghe. Il New Deal che rivendichiamo deve avere al centro la crescita del ben vivere, del Buen vivir. Non del pil.
Per esser più precisi: gli elettori esigono che le autorità europee – tutte, non solo le euroburocrazie criticate da Renzi ma anche i governi, che sono i primi responsabili delle politiche di austerità – ammettano pubblicamente di essersi sbagliate: ideologicamente e praticamente.
Keynes diceva, nel ’36, poco dopo l’inizio del New Deal, che «le idee degli economisti e dei filosofi politici, giuste o sbagliate, sono più potenti di quanto si creda. Gli uomini pratici, che si ritengono completamente liberi da ogni influenza intellettuale, sono generalmente schiavi di qualche economista defunto». Quel che chiedo al semestre guidato dal governo di Matteo Renzi è di non farci credere che il Nuovo consista nella denuncia dei tecnocrati. Se l’Unione sta messa così male, non è a causa di burocrazie che impedirebbero agli «uomini pratici» di decidere, ma a causa dei politici che usano le burocrazie di Bruxelles come scusa per non far nulla, e per consegnarsi mani e piedi a qualche economista (o stratega atlantico) defunto. Quel che chiedo al Parlamento europeo, è di dare un forte segnale che l’inizio del cambiamento dovrà nascere in quest’aula.