Intervento di Barbara Spinelli, primo vice-presidente della Commissione affari costituzionali del Parlamento europeo, 28 agosto 2014
È un buon segno che questa riunione apra le porte al Parlamento europeo, e che le apra in particolare alla Commissione affari costituzionali, perché è nell’assenza di una vera costituzione europea – tuttora latitante, a cinque anni dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona e della Carta dei diritti – che si riassume a mio parere l’essenza della crisi che attraversiamo. Non ho ricevuto dalla Commissione affari costituzionali un preciso mandato, anche se a nome del Presidente Danuta Hübner posso senz’altro indicare le sue priorità: cominciare a lavorare seriamente su quel che può essere fatto a trattato costante e su quello che esige, e presto, una sua revisione.
Approfitterò quindi di quest’occasione per esporvi alcune riflessioni, fatte a titolo personale.
La timida apertura all’unione politica, contenuta nel rapporto del 2012 dei 4 presidenti (Commissione, Banca centrale, Consiglio europeo, Eurogruppo – il Parlamento fu malauguratamente escluso), pare evaporata, e i mali dell’Unione continuano immutati: la teoria delle case nazionali da mettere in ordine, prima di rifondare l’Europa solidale che i cittadini chiedono; l’assenza di un New Deal dell’Unione, che pianifichi in comune nuovi investimenti e occupazione. E più a monte: una sottovalutazione del messaggio delle ultime elezioni europee. È la cosa di cui più sento la mancanza: un’analisi che sia autocritica di quel messaggio. Già nell’Agenda di giugno il giudizio fu evasivo: si parlò di crescente «disincanto», una parola che significa tutto e nulla. Appena due mesi son passati, e i disincantati vengono oggi bollati come populisti e estremisti. I due aggettivi sono abusivamente proposti come sinonimi, refrattari a ogni distinguo fra eurocritici ed euro-ostili, ignari di quel che chiede la maggioranza dei cittadini: non meno Europa, ma un’Europa più democratica, più solidale, più giusta socialmente.
Confesso che speravo in un semestre italiano capace di imprimere una svolta in questo campo, e non smetto di sperarlo. E che, per quanto riguarda le politiche di austerità, si riconoscesse che non bastano parametri un po’ più flessibili, dopo la crisi governativa in Francia e dopo le ammissioni del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan («Abbiamo sbagliato tutti sulle previsioni di crescita», ha detto il 17 agosto alla BBC): che la presidenza italiana sottolineasse l’urgenza di un cambio radicale di paradigma, se è vero che sono le idee di fondo sull’austerità (fossilizzatesi ormai in ideologia) ad aver prodotto tutti questi sbagli. Non vorrei che la presidenza avesse rinunciato in partenza a tale progetto, giudicandolo perdente. Il timore nasce dalla lettura dei documenti di questa riunione, che si muovono un po’ acriticamente nel quadro e nei limiti della camicia di forza elaborata da Van Rompuy con gli sherpa nazionali – l’Agenda strategica partorita dal Consiglio europeo di giugno – e imposta agli Stati e al nuovo presidente della Commissione Juncker. La spinta ad andare oltre l’agenda è auspicabile venga in queste condizioni dal Parlamento europeo, e se possibile anche da Juncker.
I punti sui quali vorrei soffermarmi sono tre:
Primo: la trasparenza e la partecipazione.
Ricordo che l’articolo 11 del Trattato di Lisbona obbliga le istituzioni a mantenere un dialogo «aperto, trasparente e regolare» con le associazioni rappresentative e la società civile. Chiunque prenda sul serio il malessere presente non può non intuire che è venuta l’ora di far partecipare i cittadini al governo della crisi: non limitarsi a rendere le istituzioni più celeri, a fare un po’ di streamlining. Non minacciando tagli a programmi come Erasmus, che suscitano ovunque proteste fra i giovani e nel Parlamento europeo. Egualmente essenziale: la trasparenza nelle trattative sul partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (TTIP). La presidenza italiana chiede giustamente che sia declassificato il mandato negoziale della Commissione. Ma non basta: il Parlamento europeo – i cittadini, ancora una volta – deve avere accesso a tutti documenti nelle varie fasi del negoziato. Non può essere messo al corrente a trattato concluso, quando gli verrà chiesto di dare il cosiddetto parere conforme.
Secondo punto: l’insidioso ritorno dei nazionalismi, delle intese intergovernative.
Ai mali di una Commissione prigioniera dello squilibrio creatosi fra Stati più o meno potenti dell’Unione, alla sfiducia degli elettori, si risponde creando nuove burocrazie: non europee come denunciano vari governi tra cui il nostro, ma nazionali. È uno dei rischi, a mio parere, del gruppo degli Amici della Presidenza proposto dall’Italia, o dell’High level group sulla competitività e la crescita che ha come esplicito scopo l’«appropriazione politica da parte del Consiglio dei dossier concernenti l’economia reale». Soprattutto se questi comitati ad hoc si moltiplicheranno e cresceranno senza un forte rapporto con il Parlamento europeo, che già ha rinunciato in passato a controllare la nascita del Fiscal compact o dell’Unione bancaria, o è stato costretto a rinunciarvi.
Terzo punto: le omissioni e le contraddizioni.
Sulla scia dell’Agenda di giugno, si prende atto che «gli sforzi e le riforme stanno producendo risultati», quando l’attuale presidente dell’Ecofin, il ministro Padoan, dice che la crescita continua a mancare e che «nessuno finora ha visto giusto». Altra contraddizione: l’invito a non approfondire l’integrazione: l’Unione «dovrebbe astenersi dall’intervenire quando gli Stati membri possono raggiungere meglio gli obiettivi». Come si spiega allora l’invito di Mario Draghi a cedere sovranità sulle riforme strutturali? O si sbagliava il Consiglio, o si sbaglia Draghi, o le parole non significano nulla. In effetti non significano nulla, se non si spiega verso quali poteri sovranazionali, e democraticamente legittimati, si trasferiscono le sovranità.
Infine, le promesse mancate.
A giugno si parlava di lotta all’evasione, alla frode fiscale, alla corruzione, alla violazione dei dati personali, al restringimento dei diritti: tutti temi assenti nei documenti di oggi. Si promettevano risposte comuni alla sfida della migrazione, tra cui «forti politiche dell’asilo». Il proposito sembra dimenticato, e rimane l’ambiguità sui migranti irregolari (i profughi da zone di guerra sono sempre e per definizione «irregolari»).
Nemmeno una parola, infine, sui compiti di un eventuale commissario all’immigrazione, di cui ancora non sappiamo nulla. Sulla necessità di una politica pensata a fondo su Mediterraneo e sui rapporti con la Russia. C’è parecchio autocompiacimento, in questo Consiglio degli Affari generali, non solo sull’economia ma anche sulla politica concernente l’Ucraina: più precisamente, viene lodata la rapidità con cui l’Unione ha adottato le sanzioni contro Mosca. È un compiacimento che non condivido. Le sanzioni non sono una “politica” verso la Russia.
Juncker propone oggi un comune piano di investimenti nell’economia reale, pari a 300 miliardi di euro su 3 anni. Cioè una sorta di New Deal, favorito anche dai governi di Italia e Francia (è quello che viene chiesto dall’Iniziativa cittadina che porta lo stesso nome: New Deal for Europe). Con che mezzi non è chiaro, perché alcuni si illudono che basti mobilitare un po’ di risorse della Banca europea degli investimenti. Ma un appoggio unanime da parte del Consiglio dei ministri sarebbe già un primo passo. Grazie.