di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 4 settembre 2024
Per la seconda volta nell’ultimo decennio l’accusa di antisemitismo si abbatte su politici di primo piano e li trasforma in appestati.
Nel 2018 toccò a Jeremy Corbyn, leader del Laburismo che difendeva i diritti dei palestinesi senza mai mettere in questione l’esistenza di Israele. Oggi tocca a Jean-Luc Mélenchon, capo del primo partito di sinistra in Francia, politicamente demolito in piena guerra di Gaza per aver sostenuto i palestinesi e messo in guardia contro tutti i razzismi, sia islamofobi sia antisemiti. Mélenchon è considerato ben più minaccioso di Marine Le Pen. Jacques Attali, già consigliere del presidente socialista Mitterrand, lo ha accusato di “genocidio simbolico”, in occasione dell’attentato alla sinagoga del 24 agosto nel sud della Francia a La Grande-Motte.
La diffamazione scatta in automatico, come un tic. È brutale e può distruggere un’ambizione politica. Ha dietro di sé la forza dei giornali mainstream, dei talk show in Tv, dell’establishment politico ed economico. Il linguaggio dei diffamatori è ripetitivo, se di linguaggio si può parlare quando vengono reiterate compulsivamente formule e aggettivi mai spiegati. È il lessico propagandistico (hasbara, in ebraico) di uno dei più potenti e antichi gruppi di pressione: la lobby sionista israeliana.
Non importa quel che accade a Gaza: più di 41.000 morti, soprattutto bambini e donne. Da tempo ha cessato di essere una rappresaglia. Non importano le proteste sempre più diffuse in Israele – parenti degli ostaggi, sindacati, giornali come Haaretz – e nelle università europee e statunitensi. Il sionismo inteso come progetto coloniale vacilla ma la lobby, finanziariamente molto influente, non se ne cura. Se osteggi le politiche di Tel Aviv, difendi i palestinesi e chiedi di metter fine all’invio di armi a Israele, vuol dire che sei antisionista, dunque automaticamente antisemita, dunque indifferente al genocidio subito dagli ebrei nel Novecento: questo il sillogismo ricorrente, arma della lobby. Il peso abnorme esercitato dai gruppi di pressione israeliani, specie negli Stati Uniti, è un dato difficilmente confutabile. È una delle tante verità israeliane mai ammesse, sempre opache.
È opaca la denominazione dello Stato, definito ebraico pur essendo abitato per oltre il 25 per cento da non ebrei (arabo-palestinesi musulmani e cristiani, cristiani non arabi, drusi, beduini, ecc.). È opaca la formula che descrive Israele come “unica democrazia in Medio Oriente”, perché la democrazia non si concilia con l’occupazione coloniale o l’assedio dei palestinesi. È opaca la forza militare di Israele, che dagli anni 60 dispone di un armamento atomico senza mai ammetterlo. Secondo il giornalista Seymour Hersh, Tel Aviv ha già minacciato una volta l’uso dell’atomica, nella Guerra del Kippur del 1973 (The Samson Option, 1991).
Ma più opaca di tutte le politiche è l’esistenza di una lobby sionista estremamente danarosa e attiva – soprattutto in Usa e Regno Unito – che fin dalla nascita dello Stato di Israele sostiene le sue politiche di colonizzazione, e che oggi appoggia l’ennesimo tentativo di svuotare la Palestina dei suoi abitanti. Si dice che Netanyahu sta spianando Gaza e attaccando anche la Cisgiordania solo per restare al potere, senza un piano per il futuro. Quasi un anno è passato dalla strage perpetrata da Hamas il 7 ottobre, e una rettifica si impone. È vero che Netanyahu teme di perdere il potere, ma un piano ce l’ha: la pulizia etnica in Palestina.
La lobby sionista ha istituzioni secolari negli Stati Uniti e Gran Bretagna e filiali ovunque. Influenza i giornali e li monitora, finanzia i politici amici. Denuncia regolarmente l’antisemitismo in aumento, mescolando antisemitismo vero e opposizione alle guerre di Israele. Nei Paesi europei operano vari gruppi di pressione tra cui l’Ong Elnet (European Leadership Network).
È chiamata a volte lobby ebraica, ma con l’ebraismo non ha niente a che vedere. Ha a che vedere con il sionismo, che è una corrente politica dell’ebraismo e che dopo molti conflitti interni ha finito col pervertire la religione. È nata nella seconda metà dell’800 e culminata nei testi e negli atti fondatori di Theodor Herzl e Chaim Weizmann. Per il sionismo politico, l’ebraismo non è una religione ma una nazione, uno Stato militarizzato, edificato in Palestina con uno slogan che falsificando la realtà era per forza bellicoso: la Palestina era “una terra senza popolo per un popolo senza terra”, data da Dio agli ebrei per sempre. Secondo il filosofo Yeshayahu Leibowitz, che intervistai nel 1991, Israele era preda di un “nazionalismo tendenzialmente fascista”. Non stupisce che Netanyahu e i suoi ministri razzisti si alleino oggi alle estreme destre in Europa e Usa.
Non tutti gli ebrei approvarono la ridefinizione della propria religione come nazione e Stato. In parte perché consapevoli che la Palestina non era disabitata, in parte perché la lealtà assoluta allo Stato israeliano imposta dalla corrente sionista esponeva gli ebrei della diaspora a sospetti di doppia lealtà.
Indispensabile per capire questa fusione tra religione e Stato militarizzato è l’ultimo libro di Ilan Pappe (Lobbying for Zionism on Both Sides of the Atlantic, 2024). Lo storico racconta, proseguendo lo studio di John Mearsheimer e Stephen Walt sulla lobby (2007), la nascita del sionismo nella seconda metà dell’800, e cita fra gli iniziatori le sette messianiche evangelicali negli Stati Uniti. Sono loro che con più zelo promossero e motivarono il movimento sionista. L’idea-guida del sionismo millenarista è che Israele ha un diritto divino a catturare l’intera Palestina. Se il piano si realizza, giungerà o tornerà il Messia. Questo univa nell’800 sionisti ebrei e cristiani. C’era tuttavia un tranello insidioso: per i sionisti cristiani, il Messia arriva a condizione che gli ebrei alla fine si convertano in massa al cristianesimo.
Il sionismo colonizzatore è oggi in difficoltà. “Non in mio nome”, è scritto sugli striscioni degli ebrei che manifestano contro la nuova Nakba (“Catastrofe”, in arabo) che il governo Netanyahu infligge a Gaza come nel 1948. E che infligge in Cisgiordania dal 28 agosto.
Ciononostante i governi occidentali accettano l’equiparazione fra antisemitismo e antisionismo, per timore delle denigrazioni e manipolazioni della lobby. Quasi tutti hanno fatto propria la “definizione operativa” dell’antisemitismo adottata nel 2016 dall’International Holocaust Remembrance Alliance (cosiddetta Definizione IRHA, legalmente non vincolante). Tra gli esempi indicati, l’antisionismo e le critiche di Israele. Il governo Conte-2 si è allineato nel gennaio 2020.
Difficile in queste condizioni monitorare e combattere l’antisemitismo. L’unica cosa certa è che la politica di Israele non solo svuota la Palestina e crea nuove generazioni di resistenti più che mai agguerriti, non solo rende vano l’appello ai “due popoli due Stati”, ma mette in pericolo gli ebrei in tutto il mondo. Nel lungo termine può condurre Israele stesso al collasso.
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