Menzogne europee sulle due guerre

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 20 settembre 2025

Mentre la Commissione europea propone il 19° pacchetto di sanzioni contro la Russia, e continua a ripetere gli identici errori commessi in passato – armare ulteriormente l’Est della Nato e Kiev, in modo che Mosca si senta ancor più minacciata e prosegua la brutale offensiva in Ucraina – nulla di paragonabile accade sul fronte medio orientale, dove lo Stato d’Israele sta liquidando i palestinesi a Gaza, ed è pronto ad annettere quasi tutta la Cisgiordania oltre a Gerusalemme Est, occupate dal 1967.

Se si eccettuano Spagna e Irlanda, inflessibili con Netanyahu, alcune sanzioni europee sono suggerite, ma niente blocco dell’invio di armi. E niente esclusione da Horizon: le sovvenzioni a Israele del programma scientifico europeo ammontano a 100 milioni di euro, più 442.750 milioni per l’azienda militare Rafael. Sono contro l’esclusione Italia, Germania, Austria, Repubblica Ceca, Ungheria. Un video promozionale di Rafael mostra il drone Spike FireFly (pagato da noi europei) che colpisce un civile palestinese inerme.

La presidente della Commissione Von der Leyen ha proposto di sospendere parti del trattato commerciale (dazi su alcuni prodotti) e di sanzionare i ministri Smotrich, Ben Gvir e nove “coloni violenti” in Cisgiordania.

Lo aveva già fatto Biden nel febbraio e novembre ’24, sanzionando 33 coloni senza alcun successo. È improbabile che i coloni, Smotrich e Ben Gvir vadano in vacanza in Europa. Anche qui, come nel caso delle sanzioni contro Mosca, si adottano le stesse misure pensando che diano risultati diversi.

I provvedimenti sono proposti a Bruxelles sapendo che Germania, Italia, Ungheria opporranno alcuni veti. Si continua a dire che la Germania si capisce, per via del genocidio di Hitler, ma l’Italia no. In realtà non si capiscono né l’una né l’altra. Non si vede perché i palestinesi debbano morire perché i tedeschi possano espiare in pace. Anche perché Berlino non espia nulla. Promettendo la “difesa militare più forte d’Europa”, e ordinando agli ospedali di aumentare i posti letto per i feriti di una guerra data per prossima, i dirigenti tedeschi mostrano d’aver dimenticato i 27 milioni di morti russi nella guerra di liberazione da Hitler, e di aver dunque smesso di espiare.

Eppure parla chiaro, il rapporto della Commissione indipendente d’inchiesta su Gaza, incaricata dal Consiglio Onu dei diritti umani e presieduta da Navi Pillay, che già guidò nel 1994 il Tribunale internazionale sul genocidio dei Tutsi in Ruanda. Il rapporto è uscito in simultanea con le discussioni europee su Kiev e Mosca, la natura dei crimini israeliani che elenca non è in alcun modo comparabile al conflitto in Ucraina, ma pochi giornali («il manifesto», «Il Fatto Quotidiano») hanno messo in prima pagina l’ennesima constatazione che a Gaza è in corso un genocidio, a partire dall’eccidio del 7 ottobre 2023 commesso da Hamas. Lo stesso silenzio omertoso aveva accolto il 16 giugno il rapporto di Francesca Albanese, relatrice speciale Onu per i diritti umani sui territori occupati. Al massimo, si parlò della sanzione inflitta da Trump alla redattrice del rapporto, pubblicato dalla casa editrice del «Fatto», PaperFirst.

Il rapporto della Commissione Pillay, uscito il 16 settembre, certifica che Israele ha commesso a Gaza 4 dei 5 crimini elencati nella Convenzione Onu sul genocidio: (1) uccisione di membri del “gruppo palestinese” in quanto tale; (2) gravi danneggiamenti fisici o mentali ai membri del gruppo; (3) imposizione al gruppo di condizioni di vita volte deliberatamente a provocarne la distruzione fisica, totale o parziale; (4) imposizione di misure volte a impedire le nascite all’interno del gruppo. Per quanto riguarda l’intenzione e l’incitamento al genocidio, il rapporto accusa il presidente israeliano Isaac Herzog, il premier Benjamin Netanyahu, l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant. La Commissione non ha finito i suoi lavori. Ora si concentrerà sulla Cisgiordania in via di annessione e su Gerusalemme Est occupata.

È consigliabile la lettura completa del Rapporto, perché si potrà constatare un’evidenza. Non è una guerra classica quella scatenata da Netanyahu dopo il 7 ottobre, e non somiglia in nulla a quella in Ucraina. È indecente che i telegiornali comincino ogni trasmissione menzionando i “due fronti bellici”, in Europa e Palestina. A Gaza non ci sono due eserciti contrapposti come in Ucraina. Non è neanche una guerra asimmetrica, tra soldati e guerriglieri. Fin dall’inizio è furia bellica omicida che prende di mira i civili palestinesi, colpevoli di esistere come popolo, e li riduce deliberatamente alla fame e alla sete. Non si spiegano altrimenti le uccisioni di 20.000 bambini secondo Save the Children (dati di maggio; quasi tutti ammazzati con spari in testa e nel cuore, a conferma che bambini, neonati e madri incinte sono bersagli diretti); di circa 30.000 donne (le detenute “hanno subito violenze sessuali e stupri”); degli anziani incapaci di obbedire ai ripetuti ordini di evacuazione. Dal 7 ottobre al 21 luglio, le bombe “hanno colpito 1.844 volte gli ospedali, uccidendo malati e personale medico”. Il diritto d’Israele a difendersi non c’entra nulla.

A comprova che si tratta di uccidere un popolo e la sua discendenza – il suo futuro – vanno citate le pagine sulla distruzione dei reparti maternità in una decina di ospedali. A ciò si aggiunga l’attacco nel dicembre 2023 della clinica di fecondazione in vitro Al-Basma: circa 4.000 embrioni e 1.000 campioni di sperma e ovuli non fecondati sono stati distrutti. “Secondo quanto riportato, il centro serviva da 2.000 a 3.000 pazienti al mese, effettuando 70-100 procedure di fecondazione in vitro al mese. L’assedio di Gaza e la conseguente mancanza di rifornimenti di azoto liquido, utilizzato per mantenere freddi i serbatoi di stoccaggio, hanno rappresentato una sfida considerevole per il funzionamento della clinica e la conservazione del materiale riproduttivo. Il materiale riproduttivo conservato è andato completamente perso quando la banca genetica è stata attaccata. Durante l’attacco, il laboratorio di embriologia è stato colpito direttamente e tutto il materiale riproduttivo conservato nel laboratorio è andato distrutto”. Il rapporto afferma che non esistono informazioni credibili sull’uso della clinica a fini militari, e notifica: è comprovato che le autorità israeliane “sapevano che il centro medico era dedicato alla fertilità […] Intendevano distruggerlo. È il motivo per cui la Commissione ritiene che la distruzione fu un’azione intesa a prevenire le nascite fra i Palestinesi a Gaza”. È uno dei principali capi d’accusa per crimine di genocidio.

Gli Stati europei non sono i soli responsabili di complicità con l’inaudita furia di Israele contro i civili, accanto alle amministrazioni Usa il cui aiuto è decisivo. Il 9 settembre Netanyahu ha bombardato i negoziatori di Hamas a Doha (6 morti), violando la sovranità del Qatar e infliggendo una ferita grave, ma non finale, ai negoziati sulla tregua mediati da Qatar, Egitto e Usa. Il 15 settembre, lo stesso giorno in cui partiva la presa di Gaza City, si è riunito un vertice d’emergenza di leader arabi e musulmani a Doha, ma a parte le condanne non è stata decisa alcuna azione contro l’annientamento dei palestinesi. La conclusione inconfutabile del commentatore Jack Khouri, sul giornale israeliano «Haaretz»: “Il regime militare (israeliano) nella Striscia è cominciato il giorno in cui i leader arabi si sono radunati a Doha. I libri di storia ne prenderanno atto. Così è caduta Gaza City”.

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Macron re dei supponenti e la cecità totale dell’Eliseo

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 10 settembre 2025

È passato un anno dalle elezioni legislative anticipate volute da Emmanuel Macron, due primi ministri da lui nominati sono nel frattempo caduti – Michel Barnier con una mozione di censura il 4 dicembre, François Bayrou con un voto di sfiducia lunedì – e ancora il Presidente non ha capito che il grande perdente è lui, nonostante le incapacità negoziali di ambedue i Premier falliti. Ieri ha nominato primo ministro un suo fedelissimo, il ministro della difesa Sébastien Lecornu. Probabilmente Macron pensa che facendo sempre la stessa cosa, e avendola fallita due volte, il risultato possa essere diverso.

Il debito che appesantisce il paese è aggravato dalle sue politiche, e da anni è lui il bersaglio della collera dei francesi. La Francia è bloccata da lui e non – come sostengono centro-destra e media mainstream – dai movimenti popolari o sindacali che manifesteranno oggi e il 18 settembre. Quello di oggi, annunciato da tempo, ha come motto: “Blocchiamo Tutto”. Non cade dal cielo ma prosegue un movimento di protesta quasi ininterrotto che ha accompagnato la presidenza sin dagli inizi: Gilets Gialli nel 2018-2019; lunga mobilitazione nel 2023 contro la legge sulle pensioni, imposta da un capo di Stato senza più maggioranza assoluta; e adesso il Blocco. Ogni volta sono le dimissioni presidenziali che vengono invocate.

Da parecchi mesi Macron si occupa quasi solo di politica estera, dove può esibire una regalità inesistente e gesticolazioni bellicose, ma ecco che la verità sui suoi poteri effettivi è venuta a galla senza possibili malintesi, lunedì all’Assemblea nazionale: l’alleanza di centro-destra che sosteneva Bayrou s’è infranta, la coalizione presidenziale che raggruppa tre mini-partiti centristi tra cui quello macroniano era stata già ridotta nel 2024 e potrebbe restringersi ulteriormente: i sondaggi le attribuiscono il 15%, otto punti in meno rispetto a un anno fa.

Il centrismo non funziona nemmeno in Francia. Bayrou è caduto perché parte della destra che sosteneva la sua fragile maggioranza lo ha silurato (13 deputati del partito dei Repubblicani, attratti probabilmente dall’estrema destra). Ha votato contro anche una deputata macronista, per lo scandalo degli abusi pedofili e delle violenze nella scuola cattolica di Bétharram, nel sud-ovest della Francia. Bayrou che governava la regione sovvenzionò e favorì la scuola per anni.

Resta che il caos è opera di Macron e di una cocciutaggine che rasenta la dissennatezza. Nessun governo è possibile, decretò prima e dopo le elezioni per lui disastrose del 2024, “se non continuerà la mia politica (…) Non accetterò smagliature”. Ragion per cui ignorò la vittoria delle sinistre riunite nel Nuovo Fronte Popolare – ben sapendo che la temuta discontinuità era con loro inevitabile – e dopo ben due mesi di tergiversazioni affidò la guida del governo a Michel Barnier, cioè ai perdenti delle legislative (i Repubblicani). Ancora più grottesca la nomina del secondo premier: il partitino di Bayrou (MoDem) ha meno seggi dei Repubblicani. La nomina di Lecornu non cambia nulla. Dal 2024, Macron cammina con gli occhi bendati.

In passato, due presidenti di peso avevano accettato la coabitazione con gli avversari arrivati primi alle legislative: due volte Mitterrand, nel 1986 e nel 1993, una Chirac nel 1997. Ambedue tollerarono civilmente le “smagliature”. Macron no, si sente infinitamente più insostituibile e inaffondabile dei predecessori. Nemmeno Luigi XVI aveva tanta sicumera prima di esser ghigliottinato.

È una sicumera che si estende a raggiera, tutt’attorno alla sua persona: in Francia, in Europa, nel mondo. Fotografato assieme a Trump, ai colleghi europei e a Zelensky, nella foto di gruppo alla Casa Bianca, Macron si presenta con la mano in tasca, esibendo sprezzatura. Su Israele finge di essere all’avanguardia in Europa perché riconoscerà lo Stato palestinese, e ignora che l’unico all’avanguardia è lo spagnolo Sánchez, che s’accinge a bloccare le forniture a Israele di armi e energia, e che ha riconosciuto lo Stato palestinese dalla primavera del 2024 (con Irlanda, Norvegia, Slovenia).

Ma la supponenza più grande è altrove. Eletto due volte, nel 2017 e nel 2022, Macron aveva fatto ai francesi una promessa solenne: sarò io l’argine all’avanzata dell’estrema destra. Per questo fu eletto: non per la personalità e tantomeno per il programma, ma perché i francesi non intendono accordare il potere massimo a Le Pen, anche se il rifiuto tende a scemare.

Promessa non tenuta: il Rassemblement National di Le Pen ha fatto enormi passi avanti e la collera contro il liberismo di Macron lo rafforza nelle classi popolari, nonostante il rifiuto lepenista di ogni tassa sui più abbienti. La proposta di Bayrou di abolire due giorni festivi è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Se si dovesse arrivare a un nuovo scioglimento dell’Assemblea, l’estrema destra sarà il primo partito, e il Presidente dovrà affidarle la guida del governo o dimettersi: gli imbrogli del 2024 non possono ripetersi ancora.

Evidentemente la promessa di Macron era stata fraintesa. L’argine promesso doveva servire a frenare e frantumare le sinistre, non l’estrema destra.

Le Pen vincerebbe oggi alle elezioni perché i socialisti non hanno capito che questo era il vero scopo di Macron: spezzare l’unione a sinistra. Oppure l’hanno capito, e una parte consistente dei socialisti e un partitello contiguo (Place Publique di Raphaël Glucksmann) condividono lo scopo. Assieme stanno imboccando la via “socialdemocratica” delle grandi coalizioni con la destra, certi che per governare bisogna ostentare “responsabilità” e rompere con la Francia Indomita (France Insoumise).

In realtà Mélenchon non è estremista come pretendono tanti commentatori. È socialdemocratico anche lui: ma socialdemocratico all’antica, pur non possedendo il carisma di Willy Brandt. Più potere d’acquisto, ecologia, aumento del salario minimo, fine dei privilegi fiscali concessi da Macron ai più ricchi e alle grandi industrie: questo il programma. E in politica estera pace in Europa (Mélenchon ha sostenuto l’Ucraina ma critica gli allargamenti Nato) e sanzioni contro il governo di Israele, che assieme a Sánchez accusa di genocidio.

L’unità a sinistra si è sfasciata tra l’estate 2024 e quest’estate. I dirigenti del partito socialista non sono più contrari a un’alleanza con i macronisti, ma il Presidente continua a ignorarli. I giornali e le televisioni quando parlano di “arco repubblicano” non escludono solo l’estrema destra ma anche e soprattutto gli Indomiti di Mélenchon, incolpati d’ogni misfatto. Sono accusati di “guerra civile” da Bayrou, di antisemitismo per le accuse di genocidio a Israele, e sono “seminatori d’odio” per la manifestazione Blocchiamo Tutto: “L’ultra-sinistra vuol dire ultraviolenza”, minaccia il ministro dell’Interno Bruno Retailleau, che ha mobilitato oggi ben 80.000 poliziotti e gendarmi.

I socialisti hanno creduto che questa fosse l’ora dei “responsabili di sinistra”, e la nomina fulminea di un Premier centrista li lascia nudi sulla spiaggia, svergognati e umiliati. Per il momento comunque a rappresentare la sinistra resta solo il partito di Mélenchon, e almeno si fa chiarezza. Non si sa quanto durerà Lecornu. Si sa solo che Macron ha scelto un Premier contando sulle destre dei Repubblicani, assai più preziose delle sinistre dal suo punto di vista. Si sa che il giorno in cui dovesse sciogliere una seconda volta l’Assemblea, sarà sempre più difficile per lui evitare le dimissioni.

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La nuova Cina, l’Europa e il deserto dei tartari

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 7 settembre 2025

Nel giro di quattro giorni Xi Jinping ha inaugurato un ordine multipolare non più centrato sul predominio statunitense e occidentale. Assieme a Russia, India, Iran e altri 22 capi di stato o governo riuniti per un vertice dell’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione (Sco) ha dato vita all’Iniziativa di Governance Globale. Obiettivo: la cooperazione pacifica fra Stati e un “futuro condiviso dell’umanità”. Assieme al gruppo Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) gli Stati congiunti dallo “spirito di Shanghai” si proteggono così dalla brama di predominio e sanzioni che anima l’Occidente. Non sono tutti democratici, ma il pianeta non è tutto democratico.

È il primo argine costruito per far fronte ai disastri del dopo Guerra fredda: trentacinque anni contrassegnati da fallimentari guerre occidentali di regime change, dall’estensione della Nato per debilitare la Russia, dalle minacce contro Pechino, dall’erosione dell’Onu cui l’Organizzazione di Shangai e i Brics vogliono restituire peso. La micidiale e illusoria pretesa degli Stati Uniti di dominare da soli il pianeta, iniziata negli anni 90, s’inceppa. La parata del 3 settembre a Pechino è stata organizzata da Xi per mostrare spettacolarmente che anche la Cina celebra la fine della Seconda guerra mondiale, avendo partecipato al conflitto con due parallele resistenze all’invasore giapponese (soldati nazionalisti di Chiang Kai-shek e guerriglieri di Mao). Parlando di “Resistenza Mondiale Antifascista”, il Presidente cinese entra nella nostra storia come attore paritario, chiamato a correggere la sciagurata, caotica gestione del dopo Guerra fredda.

Discusso a Tianjin prima della parata, il multipolarismo è l’ambizione dei Ventisei. L’idea centrale è che un ordine internazionale sarà possibile solo se si rispetta la diversità di culture e civiltà, se tutti gli Stati sono uguali, se il metodo è multilaterale, se la pace è la stella polare. La cooperazione pacifica avverrà nei settori in cui Pechino è all’avanguardia: industrie indipendenti dai combustibili fossili, intelligenza artificiale, tecnologia, infrastrutture (linee ferroviarie, gasdotti, strade, ponti). Il multipolarismo è stato accelerato prima dalle guerre di esportazione della democrazia, poi dalla guerra russa in Ucraina provocata dagli allargamenti a Est della Nato, infine dall’offensiva dei dazi che Trump ha scatenato credendosi re del mondo.

Nel frattempo Stati Uniti ed Europa sono in altre sconclusionate faccende affaccendati. Martedì Trump ha affondato con navi di guerra una piccola imbarcazione venezuelana accusata di narcotraffico (impossibile verificare, l’imbarcazione è in fondo al mare con le 11 persone dell’equipaggio). Il Venezuela è un attore del tutto marginale nel narcotraffico internazionale, come spiegato da Pino Arlacchi su questo giornale (30 agosto). Il governo Maduro è sotto attacco per via delle immense riserve petrolifere di cui Trump è avido. Non meno sconclusionate le mosse dei principali Stati europei, dentro e fuori un’Unione definitivamente soppiantata da altri gruppi decisionali: volonterosi e cosiddetto gruppo E-3 (Germania, Gran Bretagna, Germania), tutti lì ad affilare coltelli contro invasioni dei Tartari che non verranno. Gli ospedali francesi si preparano già ad aumentare i posti letto per curare feriti di guerra, rivela il «Canard enchainé». Gli E-3 intendono anche riattivare le sanzioni contro l’Iran, facilitando i nuovi attacchi a Teheran cui aspira Netanyahu.

Uno dei quattro accordi fra Russia e Cina concerne l’energia: ogni anno Gazprom fornirà a Pechino 106 miliardi di metri cubi di gas naturale. Prima dell’invasione dell’Ucraina e del sabotaggio degli oleodotti Nord Stream, Mosca esportava in Europa più di 150 miliardi di metri cubi l’anno. Il centro di gravità economico si sposta verso Cina-India, e l’Europa s’impoverisce comprando gas liquido Usa, ben più costoso. Ma il culmine dell’insipienza europea l’ha raggiunto giovedì scorso Kaja Kallas, rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza, commentando la parata cinese e ostentando un’ignoranza abissale. In una conferenza ha chiesto, con frasi masticate e intercalate da sogghigni beffardi, cosa mai si siano messi in testa Pechino e Mosca, con la “falsa narrativa secondo cui Cina e Russia sarebbero vincitori della Seconda guerra mondiale… è una novità!” (link). Pechino entrò in guerra contro Tokyo nel 1937. A partire dal 1941 partecipò con Usa e Russia alla Resistenza antifascista mondiale (30 milioni di morti cinesi). Kallas evidentemente ignora che Pechino è fra i cinque membri permanenti nel Consiglio di Sicurezza Onu proprio perché vincitore della guerra. Le istituzioni Ue dovrebbero sfiduciarla per maleducazione storica aggravata. Forse Kallas finge l’ignoranza. Ma se non fingesse?

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