Guerre e migranti, il diritto è a pezzi

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 23 ottobre 2024

A forza di violarli e ignorarli, il diritto internazionale e quello europeo stanno diventando ininfluenti, inconsistenti come fossero soffioni: basta un soffio e i semi si disperdono nell’aria.

Accade nella guerra in Ucraina, e a Gaza, in Libano, in Cisgiordania. Non c’è convenzione internazionale e risoluzione Onu che sia rispettata, specie a Gaza dove secondo la Corte di giustizia dell’Onu è “plausibile” il genocidio, chiamato alternativamente sterminio o pulizia etnica.

E accade anche per quanto riguarda il diritto europeo, in questi giorni in Italia. Il diritto dell’Unione è preminente sulle leggi nazionali, e resta tale anche con il decreto sui Paesi sicuri che il governo ha varato lunedì come norma non più secondaria, ma primaria. La legge europea sancisce il diritto dei migranti a fuggire dal proprio Paese e a chiedere asilo in Europa, se la nazione di provenienza li perseguita o li minaccia, e dunque non è “sicura”. La Corte di giustizia europea ha confermato il 4 ottobre che i migranti non possono esser rispediti in Paesi che non siano sicuri in tutte le loro parti e per numerose categorie di persone.

È il motivo per cui il Tribunale di Roma, obbedendo alla vincolante legge europea, ha costretto il governo Meloni a riportare in Italia i dodici migranti trasferiti in Albania: i Paesi da cui erano fuggiti sono l’Egitto e il Bangladesh, che il governo italiano continua a ritenere sicuri e che per il diritto europeo non lo sono, né in parte né in toto. I giudici non potevano che disapplicare il trattenimento dei migranti in Albania, dove le procedure di rimpatrio sono accelerate e le tutele minime. Come ricorda giustamente Franz Baraggino sul giornale e il sito del «Fatto» ogni giudice italiano è anche giudice europeo, e “un Paese di provenienza è sicuro per tutti o non lo è per nessuno”.

Non bisogna tuttavia illudersi. Al pari del diritto internazionale, anche quello europeo sta disperdendosi nell’aria, perché il Patto sulla Migrazione e l’Asilo approvato nell’aprile scorso permetterà a partire dal 2026 di respingere con procedure d’urgenza chi fugge da Paesi solo in parte sicuri. Secondo la Commissione Ue, il nuovo sistema “è orientato ai risultati ma ben ancorato ai valori europei” (in inglese la dicitura è più cruda: il management sarà “sostenibile e dignitoso”).

Una serie di Paesi Ue insiste perché il nuovo Patto sia introdotto fin dal 2025. E non pochi governi, con la presidente della Commissione Ursula von der Leyen, elogiano il modello Albania sottacendo la questione Paesi sicuri. D’altronde non sono sicuri la Libia, l’Egitto, la Tunisia, il Sudan, con cui l’Unione ha stipulato costosi accordi di rimpatrio. Inoltre il primato del diritto europeo su quello nazionale è diffusamente contestato: dalla destra ed estrema destra in Francia, dall’estrema destra in Polonia.

Scrive l’avvocato Fulvio Vassallo che il nuovo Patto sulla Migrazione cancellerà gran parte del diritto d’asilo, proprio “nel momento in cui arriveranno i richiedenti asilo frutto delle guerre di cui sono complici gli Stati europei”. Allo svanire del diritto internazionale e delle sue Convenzioni (genocidio, rifugiati, tortura, protezione dei civili nelle guerre, diritto umanitario, diritti dell’infanzia, razzismo) contribuiscono anche gli Stati Uniti, come complici decisivi, che s’allarmano per il carnaio a Gaza e l’invasione del Libano ma facilitano ambedue fornendo bombe a Israele, aiutandolo in Libano e promettendo assistenza contro l’Iran.

Così vengono frantumate sia le leggi europee, sia le istituzioni e le leggi internazionali create dopo l’esperienza nazifascista.

È sotto attacco l’Onu, in prima linea. È ormai usuale trattarla come ostacolo irrilevante, e Netanyahu imita Washington che a partire dall’11 settembre 2001 ha scatenato guerre feroci contro gli “assi del male”, delegittimando e aggirando le Nazioni Unite. Il culmine lo sta toccando Netanyahu, convinto o istigato da ministri neofascisti che desiderano annettere Gaza e Cisgiordania.

L’assalto ai soldati Onu nel Sud Libano (Unifil) ha suscitato grande riprovazione, ma è solo l’ultima di una lunga serie di offensive israeliane contro l’Onu. Vari governi europei hanno definito “inaccettabile” quel che continuano ad accettare, come sempre accade quando si usa questo scabrosissimo aggettivo. “È una guerra contro il mondo”, si rammarica l’ex Presidente del Consiglio Prodi, e aggiunge una frase bizzarra: “Non avrei mai creduto che potesse avvenire”. In realtà tutto è già avvenuto. L’Onu e le sue leggi sono in fiamme da tempo e in particolare dopo l’attentato Hamas del 7 ottobre 2023.

È sotto attacco il Segretario generale Onu, che non si stanca di condannare la punizione collettiva che s’abbatte su un intero popolo (compresi bambini, donne, medici, giornalisti) per gli eccidi commessi da Hamas. A partire dal 2 ottobre, Antònio Guterres è stato dichiarato persona non grata in Israele per non aver subito deplorato la rappresaglia iraniana dopo l’assassinio di Nasrallah, leader di Hezbollah.

È sotto attacco l’Unwra, l’agenzia Onu che dal 1949 assiste i Palestinesi a Gaza e in Cisgiordania, oltre che in Giordania, Libano e Siria. Per il governo israeliano Hamas e Unwra sono la stessa cosa e nel gennaio scorso Netanyahu ha accusato dodici suoi rappresentanti di partecipazione al massacro del 7 ottobre. Il 22 aprile l’accusa è stata giudicata senza fondamento da un’analisi indipendente commissionata dall’On. A Gaza, le sedi Unwra, le sue scuole, i suoi ospedali sono stati rasi al suolo. Più di 230 suoi dipendenti sono stati ammazzati. Parecchi Stati occidentali, tra cui l’Italia, hanno sospeso i finanziamenti, sia pure temporaneamente, dopo la denuncia di Netanyahu.

Non per ultima è sotto attacco la Corte internazionale di giustizia, organo giudiziario dell’Onu. La Corte ha statuito nel gennaio 2024 che il rischio di genocidio a Gaza è plausibile, e ha ordinato a Israele di adottare entro un mese le misure per prevenirlo. La sentenza è denigrata dal governo israeliano.

Nonostante le tante violazioni, l’Occidente si proclama custode del diritto internazionale, specie in Ucraina. Ma anch’esso aggira l’Onu, propugnando un suo ordine basato sulle regole: quelle della Nato e di Washington. La tesi prevalente nei governi e nei media tradizionali è che accettare la sconfitta di Kiev vuol dire avallare le trasgressioni del diritto internazionale e la modifica bellicosa dei confini: cosa che l’Occidente ha già abbondantemente fatto, smantellando militarmente la Jugoslavia e rovesciando i regimi malvisti con soldi e armi. La Russia è malvista, ma è una potenza nucleare, dunque Washington per ora è prudente. Non ci sarà da stupirsi se l’Iran, osservando come vanno le cose, si doterà anch’essa del deterrente atomico, che Israele possiede da mezzo secolo.

In mezzo alle rovine del diritto internazionale ed europeo, non restano in piedi che l’equilibrio del terrore, e il falso progressismo di chi vuole accogliere i migranti solo perché “ci servono economicamente”.

© 2024 Editoriale Il Fatto S.p.A.

Perché oggi l’atomica è di nuovo possibile

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 26 settembre 2024

Si sente spesso dire, da politici e commentatori, che gli europei non sono quelli d’un tempo: hanno paura della guerra, non sanno più farla. Anche quando combattono per procura, lasciando che siano gli ucraini a morire per i cosiddetti Valori Occidentali, son pronti a vendere le armi ma non la pelle.

Degli Stati Uniti si dicono cose analoghe, anche se Washington ha uno scopo specifico: fingere un’egemonia planetaria peraltro già perduta. All’Europa apatica e invertebrata mancherebbe il coraggio: quello che ti spinge entusiasticamente al fronte e all’economia di guerra per difendere una Causa.

Queste lamentazioni apparentemente vorrebbero risvegliare, smuovere, ma sono in realtà prive di senso. Il motivo per cui la guerra e gli stermini sono visti più volentieri in Tv che guerreggiati in prima persona – ma comunque visti volentieri e caldeggiati – nasce non dalla paura di essere coinvolti e sacrificare soldati, ma da una mancanza spettacolare di paura.

Le guerre del 900 sono ricordate, non senza timori, ma stranamente c’è una guerra che non sembra suscitare autentica e durevole paura nei politici: il conflitto nucleare, scatenato magari dall’uso russo di atomiche tattiche nel teatro di guerra ucraino e seguito non improbabilmente da uno scontro nucleare tra Russia-Occidente. Per quanto riguarda le guerre dello Stato israeliano (Gaza, Libano, Cisgiordania, Siria, Yemen, in prospettiva Iran) quel che viene occultato, più che dimenticato, è il potenziale atomico di cui Israele dispone dagli anni 60: oggi tra 100 e 200 testate.

C’è da domandarsi se questo grande lamento dei politici nasca da una memoria sepolta ad arte di quel che fu il bombardamento del Giappone nel 1945, prima a Hiroshima poi a Nagasaki, nonostante Tokyo fosse già pronta alla resa. A deciderlo fu il presidente Harry Truman. Poi durante la Guerra di Corea (1950-53) l’uso dell’atomica fu nuovamente contemplato dal generale Douglas MacArthur. Il comandante delle truppe nella zona di guerra supplicò Truman di colpire Corea del Nord e Cina con 34 bombe nucleari. Per fortuna fu licenziato.

Già in Corea dunque l’atomica era banalizzata. In Europa si moltiplicavano i movimenti anti-nucleari ma l’esperienza di Hiroshima e Nagasaki finì nel dimenticatoio. Fu certamente un crimine contro l’umanità se non un genocidio, ma molti esperti e politici continuano a dire che la guerra con il suo strascico di morte sarebbe durata per anni, se non fosse stata provvidenzialmente interrotta da “Little Boy” e “Fat Man”, i due nomi scherzosi dati alle ogive. Negli anni successivi il governo giapponese preferì nascondere il fatto che Tokyo prima di agosto era disposta alla resa, e che le atomiche furono sganciate per mandare un segnale all’Unione Sovietica, in vista delle imminenti spartizioni d’Europa.

Uno dei motivi per cui la banalizzazione e gli occultamenti sono stati possibili e accettati dai vincitori del ’45, secondo lo storico di diritto internazionale Richard Falk, è la “sbalorditiva coincidenza”, nel dopoguerra, di due eventi cruciali: la decisione dei vincitori di convocare il tribunale di Norimberga contro i crimini nazisti, l’8 agosto 1945, e i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki due giorni prima e uno dopo, il 6 e 9 agosto dello stesso anno.

Non solo il Tribunale adottò una giustizia dei vincitori, mettendo appropriatamente sotto accusa la Germania di Hitler, ma sorvolando sui crimini di guerra degli alleati (distruzione totale e indiscriminata di Dresda e di molte città tedesche, lucidamente descritta da Winfried Sebald in “Storia naturale della distruzione”). Ancor più gravemente, il Tribunale fu muto sulle atomiche impiegate in Giappone.

Il misfatto dei vincitori occidentali – responsabile Usa in testa – perdura nonostante le ripetute commemorazioni, e le due bombe non ricevono la denominazione che meritano: un delitto condannabile accanto a quelli nazisti. A tutt’oggi gli Stati Uniti non sono chiamati a rendere conto, e come minimo a scusarsi, di quello che fu un inequivocabile crimine contro l’umanità: né militarmente giustificato, né legale, né legittimo. Gli uccisi dalle due esplosioni a Hiroshima e Nagasaki furono 214.000, i feriti 150.000. Negli anni successivi migliaia di sopravvissuti morirono o s’ammalarono di cancro, leucemia e altri effetti delle radiazioni.

Scrive ancora Richard Falk, a proposito dell’impunità di cui godettero, e godono ancora, le amministrazioni Usa: “Non si tratta solo di insensibilità. Si tratta di intorpidimento morale, che predispone gli attori politici – siano essi Stati, imperi o leader – ad abbracciare crimini passati e a commettere futuri crimini” («Counterpunch», 12.8.2022). Rivelatore il titolo del film di Stanley Kubrick, nel 1964: Il dottor Stranamore – Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba. La bomba atomica si abbraccia, si ama. Così si trasforma in impiegabile mezzo di guerra.

La guerra di Israele in Medio Oriente e tra Nato e Russia in Ucraina, più quella che si prospetta con Pechino su Taiwan e sul Mar cinese meridionale, può sfociare in conflagrazione nucleare. Alla luce di questa possibilità, è dissennato svilire e denunciare la paura che pervade parte delle popolazioni. Dopo Hiroshima e Nagasaki, e da quando Israele e altri Stati si sono dotati dell’atomica, la natura della guerra è inevitabilmente cambiata. Anche il pianeta, barcollante com’è, non sopporterebbe simili disastri. Ripetere che in Ucraina l’Occidente “non sa più fare le guerre” è da scriteriati. Washington ne pare più consapevole dell’Unione europea.

Nel 1979 il filosofo Hans Jonas disse, nel libro Il principio responsabilità, che esiste un’euristica della paura, che impone di cercare e conoscere meglio noi stessi grazie alle energie racchiuse nei nostri spaventi, se si ha a cuore il futuro della terra. Esiste la possibilità di correggere politiche e comportamenti, scrisse, se non ci si affida a visioni salvifiche (esportazioni del comunismo, della democrazia) ma a visioni di possibili catastrofi.

Fa parte di questa euristica (ricerca, scoperta), la consapevolezza che le guerre in corso non solo si potevano evitare ma possono essere fermate, e che a questo scopo le parole di condanna non bastano, specie se provenienti dall’Onu e dai suoi veti. Può invece bastare l’interruzione totale dell’invio di armi sia a Israele, sia a un’Ucraina che non può vincere e per salvarsi dovrà trattare subito. La condizione è smettere la complicità dei governi con le industrie di produzione e commercio di armi, interessatissime a proseguire le guerre. Secondo il SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) i primi tre fornitori di armi a Israele sono Usa, Germania e Italia. Quando se ne comincerà a parlare in Italia?

Ecco perché è davvero una controverità continuare a ignorare o insultare le paure dei cittadini, e a immaginare un’Europa bellicosa come nei “bei tempi passati”. È il coraggio della pace che ci vuole, ma unito alla volontà di prender sul serio la paura dell’atomica.

© 2024 Editoriale Il Fatto S.p.A.

Regressione europea targata Draghi

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 20 aprile 2024

Già alcuni salutano festosi Mario Draghi, autore di uno dei tanti rapporti che l’esecutivo europeo affida a tecnici esterni, e cadendo subitamente in estasi lo incoronano re, per grazia ricevuta non da Dio o dall’Ue o magari dal popolo, ma dalla grande stampa italiana sempre bramosa di recitare in coro gli stessi copioni.

C’è chi canta fuori dal coro, come l’economista Fabrizio Barca su questo giornale, ma il boato degli osanna ne sommerge la voce. Ha fatto bene Giorgia Meloni a dire quello che dovrebbe essere ovvio: non è questo il momento di nominare il presidente della Commissione o del Consiglio europeo. Le elezioni europee devono ancora cominciare e il popolo elettore non conta niente nelle nomine, ma un pochettino magari sì, se il futuro Parlamento europeo oserà ascoltarlo.

Quanto a Draghi, non dice né sì né no: lui scende dalle stelle, non sa cosa sia il suffragio universale, già una volta disse – quando guidava la Banca centrale europea e in Italia irrompevano in Parlamento i 5 Stelle – che le votazioni vanno e vengono ma non importa, per fortuna c’è il “pilota automatico” che impone quel che s’ha da fare: austerità, privatizzazioni, compressione dei redditi, pareggio dei bilanci iscritto nella Costituzione come in Germania (la Germania già sembra pentita). Era il 2013 e un anno prima Draghi si era detto “pronto a fare qualsiasi cosa per preservare l’euro”. Il whatever it takes fu accolto come salvifico dagli incensatori, specialmente a Berlino. Il prezzo, tristissimo, lo pagò la Grecia che venne tartassata e umiliata. Anni dopo, nel 2018, il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker riconobbe l’errore: “La dignità del popolo greco è stata calpestata” dall’Unione. Sono patemi estranei a chi si affida ai piloti automatici.

Forse per questo ora Draghi preconizza “cambiamenti radicali” e trasformazioni che “attraversino tutta l’economia europea”, e mette sotto accusa le strategie che fin qui hanno frammentato l’Unione, inducendo gli Stati membri a “ridurre i costi salariali l’uno rispetto all’altro”. Fa un po’ specie una denuncia simile (l’Europa ha sbagliato quasi tutto), come se negli ultimi decenni lui fosse vissuto sulla Luna, mentre è stato direttore generale del Tesoro responsabile delle privatizzazioni, managing director in Goldman Sachs, governatore della Banca d’Italia, presidente della Bce, capo del governo italiano. Forse vuol abbassare Ursula von der Leyen, cui potrebbe eventualmente succedere. Ma il discorso tenuto a Bruxelles non è diverso da quello di Von der Leyen. La concorrenza fra le due persone è finta.

Chi legga il discorso dell’ex Presidente del consiglio, a tutto penserà tranne che a un pensatore e protagonista politico. Draghi è un tecnico, impermeabile per via del pilota automatico alle sorprese di un voto nazionale o europeo. Nelle parole che dice e nel rapporto sulla competitività che presenterà a giugno, si mette al servizio di un’Europa-fortezza ineluttabilmente in guerra, e che lo sarà a lungo visto che le parole “pace” e “diplomazia” sono spettacolarmente assenti. Abbonda invece, sino a divenire filo conduttore, la parola “difesa”, che appare ben nove volte.

Prima di credere nel “cambiamento radicale” che Draghi promette, varrebbe la pena capire quel che intende quando suggerisce di competere più efficacemente con Stati Uniti e Cina, indossando gli abiti e le abitudini di un’Europa più compatta, economicamente, industrialmente e tecnologicamente. Se i Paesi rivali sono più forti, dice, è anche perché sono “soggetti a minori oneri normativi e ricevono pesanti sovvenzioni”. L’Europa soffre di troppe norme (immagino parli di clima, welfare, commercio) e le converrà adattarsi.

Passando alla crisi demografica, non è in vista alcun “cambio radicale”, ma l’accettazione condiscendente, passiva, dell’esistente: l’avanzata di una destra al tempo stesso sia neoliberista sia neoconservatrice. Ragion per cui è accettata per buona un’Europa che diventi fortezza non solo armandosi, ma anche chiudendosi a migranti e rifugiati. Draghi volonterosamente prende atto senza batter ciglio che la fortezza è ormai una realtà: “Con l’invecchiamento della società e un atteggiamento meno favorevole nei confronti dell’immigrazione, dovremo trovare queste competenze (lavoratori qualificati mancanti) al nostro interno”.

Dicono gli osannanti che Draghi è il glorioso erede dei padri fondatori dell’Europa, e infatti l’ex presidente del Consiglio promette una “ridefinizione dell’Unione europea non meno ambiziosa di quella operata dai Padri Fondatori”. Ma il suo non è un ritorno all’Europa della pianificazione industriale e dello Stato sociale, tanto è vero che l’Europa da “trasformare” viene da lui definita come “nuovo partenariato tra gli Stati membri” o come “sottoinsieme di Stati membri”, da cui sono esclusi coloro che non ci stanno: una Coalizione di Volonterosi insomma, formula usata nelle tante guerre di esportazione della democrazia.

Dopo la scomparsa della Comunità, scompare anche il termine che l’aveva sostituita: Unione. Un partenariato siffatto, una Difesa Comune senza politica estera europea e senza Stato europeo, è di fatto – e inevitabilmente – al servizio della Nato e della potenza politica Usa che la guida. L’Europa ai tempi della fondazione era innanzitutto un progetto di pace. Fingere di tornare a quei tempi è pura prestidigitazione. Si alleano fra loro i tecnici, le élite che mai si misurano alle urne. Sono loro ad aderire al cosiddetto ordine internazionale basato sulle regole (rules-based international order) propagandato da Washington da quando Unione europea e Nato son diventate sinonimi e hanno ufficialmente adottato l’economia di guerra contro la minaccia russa e cinese.

Secondo Draghi, tale ordine globale è stato corroso da forze esterne al campo euro-atlantico. “Credevamo nella parità di condizioni a livello globale e in un ordine internazionale basato sulle regole, aspettandoci che gli altri facessero lo stesso. Ma ora il mondo sta cambiando velocemente, e siamo stati colti di sorpresa”. Neanche un minuto il sorpresissimo Draghi è sfiorato dal sospetto che i primi a violare le regole internazionali, i patti sulla non espansione della Nato, le convenzioni sulla guerra, la tortura, il genocidio, sono stati gli occidentali, a partire dagli anni 90, e con loro lo Stato di Israele. Ci limitiamo agli ultimi casi: l’Amministrazione Usa che giudica “non vincolante” una risoluzione Onu sulla guerra di Gaza che è a tutti gli effetti un vincolo; le violazioni del diritto internazionale nelle ripetute guerre di regime change, la mancata condanna dell’assassinio di alti dirigenti militari iraniani nell’annesso consolare dell’ambasciata di Teheran in Siria, cioè in territorio iraniano (attentato terroristico a cui Teheran ha reagito con l’invio di droni e missili).

Da bravo tecnico, Draghi ignora volutamente queste quisquilie e resta convinto che le regole – non quelle Usa, ma le uniche globalmente legittime: quelle dell’Onu – non siamo mai stati noi a infrangerle.

© 2024 Editoriale Il Fatto S.p.A.

Il memorandum italo-libico e la politica di Macron

di Barbara Spinelli

«Il Fatto Quotidiano», 3 febbraio 2020

Alla vigilia del rinnovo del memorandum italo-libico sul contrasto alla migrazione irregolare, stipulato nel febbraio 2017 dal governo Gentiloni, Dunja Mijatovic era stata molto chiara: “Chiedo al governo italiano di sospendere l’attività di cooperazione con la Guardia costiera libica per quanto riguarda il respingimento in Libia delle persone intercettate in mare”, aveva detto venerdì scorso il Commissario per i diritti dell’uomo del Consiglio d’Europa. Ricordando che il memorandum era destinato a essere automaticamente riconfermato il 2 febbraio, il Commissario deplorava che le autorità italiane non avessero usato questi mesi per “cancellare l’accordo o, come minimo, modificarne i termini”. Modifiche che il ministro Lamorgese aveva garantito, il 6 novembre, ma di cui non risulta esserci traccia il giorno dopo l’automatico rinnovo.

“Il memorandum rimarrà in vigore nella sua formulazione originaria fino a quando non saranno concordati gli interventi migliorativi”: così la Farnesina ha messo nel cassetto i propositi del ministro dell’Interno come se mai fossero esistiti.

Dunja Mijatovic aveva anche fatto capire che le parole e le buone intenzioni sull’evacuazione dei centri di detenzione non sarebbero bastati. Il memorandum andava sospeso, assieme al sostegno offerto alle Guardie costiere, “fino a quando la Libia e le Guardie costiere non saranno in grado di dare concrete garanzie sul rispetto dei diritti umani”. Queste le condizioni minime: migranti e richiedenti asilo devono essere liberati dai campi in cui si trovano (un diplomatico tedesco li definì Lager di morte, anni fa); il ricorso ai corridoi umanitari deve divenire politica dell’Ue e non solo dell’Italia; e nel Mediterraneo va assicurata una presenza sufficiente di navi dedicate alla Ricerca e Soccorso: “Questa tragedia è già durata troppo tempo, e i Paesi europei ne sono responsabili”. Già nel settembre 2017, il predecessore di Mijatovic –Nils Muižnieks – aveva aspramente criticato il ministro Minniti su questi temi.

Sia pure con toni meno forti, il Capo della missione in Libia dell’Unhcr (Alto commissariato per i rifugiati), Jean-Paul Cavalieri, si era espresso in modo non dissimile, l’8 gennaio in un’audizione alla Commissione esteri della Camera. Aveva detto che alcuni progressi esistono, anche se le evacuazioni dei Lager e il reinsediamento in Paesi sicuri degli evacuati restano minimi, ma comunque aveva ribadito una cosa essenziale, che l’Onu va ripetendo dal dicembre 2016: “La Libia non è da considerarsi un porto sicuro di sbarco per i migranti” (“place of safety”, nel linguaggio del diritto internazionale).

Sia il commissario del Consiglio d’Europa sia il capo missione Unhcr hanno puntato il dito su un’evidenza: la violenza della guerra ha enormemente aggravato la situazione nei campi di detenzione, e minacciato la sicurezza di migranti e rifugiati che si aggirano, senza alcuna protezione, nelle città libiche (a tutt’oggi gli sfollati a causa della guerra sono oltre 300.000). È dunque pertinente quanto affermato sull’«Espresso» da Francesca Mannocchi: delle promesse fatte da Lamorgese (riconferma del memorandum, ma negoziando modifiche sostanziali) non sembra esser restato nulla, a parte dichiarazioni vuote. Dichiarazioni che si sono ripetute negli ultimi anni, a Roma come a Bruxelles, anche se da più di tre anni l’Onu ritiene la Libia porto non sicuro.

Che l’Italia non sia l’unica responsabile del disastro è messo in evidenza, come abbiamo visto, sia da Mijatovic che da Cavalieri. Un aspetto non minore della tragedia è infatti la volontà di impotenza mostrata dall’Unione europea a fronte di una guerra che si sta trasformando in un sanguinoso regolamento dei conti geo-politico, che vede al-Sarraj appoggiato da Turchia e Qatar, e Haftar sostenuto da Egitto, Emirati, Arabia Saudita, Russia e Francia. Il 19 gennaio, un vertice mondiale a Berlino ha tentato senza successo di fermare l’escalation bellica: i partecipanti si sono impegnati a non interferire nel conflitto e a “rispettare in pieno l’embargo sulle armi” stabilito nel 2011 dall’Onu. Erano vane parole anche quelle, e le interferenze continuano così come le forniture di armi o mercenari. La Libia è un paese ricco di petrolio e gas naturale: questo il vero oggetto di contesa nel Grande Gioco nel Mediterraneo orientale. In particolare, è l’oggetto di contesa nel conflitto politico-diplomatico che vede contrapporsi i governi di Francia e Italia.

Se il governo italiano ha dunque responsabilità di primo piano per quanto riguarda il flusso dei migranti e il memorandum, altrettanto può dirsi della Francia di Macron. Il divario tra parole e fatti, nel caso francese, è solo più subdolo. Basti ascoltare quanto detto da Macron in occasione della visita in Francia del Premier greco, il 29 gennaio: con parole pesanti ha accusato Erdogan per violazione dell’embargo sulle armi, ma non ha fatto il minimo accenno ai mercenari pro-Haftar del Ciad e del Sudan, ai missili francesi trovati in un quartier generale di Haftar presso Tripoli, e alla violazione dell’embargo da parte di chi – come lui – fiancheggia il generale: Emirati e Giordania, già indicati da un gruppo di esperti Onu, nello scorso dicembre, come fiancheggiatori principali di Tobruk. “La Francia sta dando prova di una grande miopia”, avevano concluso gli esperti.

In questo Grande Gioco non ci sono innocenti, e lo stesso si può dire per quanto riguarda la gestione dei flussi migratori e la mancanza di politiche di Ricerca e Soccorso nelle acque del Mediterraneo. Divisa com’è, l’Unione fa finta di agire. E se si parla dell’Italia con più severità, è solo perché la Francia di Macron è una potenza, nell’Unione europea, più eguale di quasi tutte altre.

© 2020 Editoriale Il Fatto S.p.A.

Ue – Operazione Sophia al servizio delle guardie costiere libiche

di giovedì, Aprile 11, 2019 0 , , , , Permalink

Bruxelles, 8 aprile 2019. Intervento di Barbara Spinelli nel corso della riunione della Commissione Libertà civili, giustizia e affari interni del Parlamento europeo

Punto in agenda:

Proroga del mandato dell’Operazione Sophia di EUNAVFOR MED fino al 30 settembre 2019. Scambio di opinioni con il Servizio europeo per l’Azione esterna

Presente al dibattito:

Pedro Serrano, Segretario generale aggiunto del SEAE

Vorrei esprimere la mia profonda inquietudine per il cambiamento delle modalità di azione dell’operazione Sophia di Eunavfor Med. Il ritiro delle navi, in questo momento, dopo la criminalizzazione delle organizzazioni non governative che facevano ricerca e salvataggio, è un segnale molto chiaro. Il Mediterraneo viene lasciato completamente sguarnito di operazioni di search and rescue, se non quelle affidate a una Libia che non esiste come Stato e per di più  è oggi in preda a un’imprevedibile guerra interna. È una finzione, quella di lasciare la vita di tanti naufraghi in mano alla Libia – uno Stato completamente decomposto già molto prima dell’attuale confronto bellico tra al-Sarrāj e il generale Haftar. Ed è uno scandalo che l’operazione Sophia si occuperà ormai solo di addestrare le guardie costiere libiche e di assisterle con voli di ricognizione.

Si tratta di una scelta che andrebbe rivista, perché dà l’impressione di uno strano equilibrio del terrore nel Mediterraneo, dove la funzione del deterrente è rappresentata dalla morte dei migranti. Se i migranti muoiono, la soluzione finale è raggiunta.

Ricordo che il Papa ha detto esattamente questo: non andare in aiuto dei naufraghi vuol dire decidere di lasciar morire le persone. Questa è la scelta dell’Europa, secondo il Pontefice.

Una seconda cosa che vorrei dire è che la premessa per l’addestramento delle guardie costiere libiche è che la Libia sia considerata un paese sicuro per lo sbarco. Ora, anche se voi ripetete a parole che non è un paese sicuro, addestrando le guardie libiche lo considerate di fatto tale. È dal 2016 che l’Onu afferma che non lo è. Nei giorni scorsi, in piena guerra tra Haftar e al-Sarrāj,  il segretario generale dell’Onu António Guterrez, dopo aver visitato un campo di detenzione di migranti a Tripoli si è detto “deeply shocked” e ha aggiunto espressamente: “Nessuno in questo momento può sostenere che la Libia sia un porto sicuro di sbarco. Questi migranti e rifugiati non sono solo responsabilità della Libia. Sono responsabilità dell’intera comunità internazionale”.

Questa volta è il segretario generale dell’Onu a dire che il disegno dell’Unione non funziona, che qualcosa di diverso  bisogna inventare, che sia compatibile con la legalità internazionale.

Infine, dobbiamo dedicare la massima attenzione a quello che che sta succedendo in questi giorni nei campi di detenzione, e trarne le conseguenze   Nel campo di detenzione di Tripoli i detenuti sono tirati fuori dalle celle, e le guardie gettano loro in mano le armi e li mandano a fare al guerra contro Haftar. I detenuti gridano a questo punto che vogliono tornare nelle celle: una cosa veramente atroce, se si pensa che pur di fuggirne rischiano sistematicamente  la morte in mare. Mi riferisco a un reportage molto documentato di Sally Hayden sull’«Irish Times», uscito il 5 aprile scorso. (1) È a causa di questi messaggi sull’uso dei detenuti per la guerra, che Guterres ha reagito con le parole che ho citato poco prima.

Si veda anche:

Migrants : « Nous appelons à une résolution à la crise juridique et humanitaire du sauvetage en mer », «Le Monde», 10-04-2019.

 

L’Onu e il rimpatrio di migranti in Libia

Bruxelles, 22 giugno 2017. Intervento di Barbara Spinelli nel corso della riunione ordinaria della Commissione parlamentare Libertà civili, giustizia e affari interni – LIBE.

Punto in agenda:

Seguito della Dichiarazione di New York: scambio di opinioni sul Global compact per una migrazione sicura, ordinata e regolare

  • Scambio di opinioni con Louise Arbour, rappresentante speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite per la migrazione internazionale

Grazie Presidente.

La mia domanda riguarda gli accordi europei di rimpatrio di migranti e rifugiati, specie in Libia e con particolare riferimento ai recenti incidenti avvenuti nelle operazioni di soccorso delle guardie di costiere libiche in acque internazionali, e non solo in quelle della Libia.

Quello che vorrei chiedere alla Signora Louise Arbour è di riferirci la posizione dell’ONU sui programmi di training e formazione delle guardie costiere libiche. Il 20 giugno Martin Kobler, rappresentante speciale dell‘ONU in Libia, è intervenuto nella Commissione affari esteri e si è detto estremamente preoccupato per la decisione UE di formazione di tali guardie costiere, invitando i parlamentari europei a guardare su YouTube i video che dimostrano come vengono trattati i migranti nelle operazioni di search and rescue effettuate dalle guardie costiere libiche che teoricamente dovrebbero avere il compito di salvare i migranti e rimpatriarli in Libia. I video mostrano immagini di violenza di guardie costiere armate e di migranti che vengono rigettati in mare, agendo chiaramente in violazione di diritti fondamentali, dei diritti umani e delle Convenzioni internazionali. Sono preoccupata soprattutto perché l’Italia è all’avanguardia nell’operazione di formazione delle guardie costiere libiche. Mi piacerebbe conoscere la sua opinione a riguardo.

***

Nella sua risposta, Luise Arbour non ha preso posizione ma si è ripromessa di indagare la situazione in occasione di una sua imminente missione a Roma.

Immigrazione: idee e parole sbagliate, si perdono tempo e vite

Intervista di Stefano Citati, «Il Fatto Quotidiano», 13 maggio 2015

Le richieste fatte all’Onu da Federica Mogherini sull’emergenza immigrazione verranno soddisfatte?
Ho forti dubbi che venga approvata una risoluzione in tal senso; e Gentiloni e Mogherini paiono troppo sicuri dell’appoggio di Russia e Cina nel Consiglio di Sicurezza. E poi, come ha giustamente ricordato Mattarella, ci vuole l’accordo dei libici, che sono parecchio arrabbiati perché dicono di non esser stati consultati. E anche il segretario Onu Ban Ki-moon si era detto contrario all’uso della forza: una scelta – preconizzata dall’Agenda predisposta dalla Commissione – che per me rimane sciagurata.

In questi giorni si gioca con le parole, i distinguo sui termini: l’operazione militare di cui parlò Renzi è divenuta una “operazione navale” nelle dichiarazioni della Mogherini.
Al di là delle sfumature, nell’Agenda si parla di un’“operazione di distruzione”; quella che con Mare Nostrum era una missione di Search & Rescue (ricerca e soccorso) è ora un Search & Destroy (cerca e distruggi): è scritto nero su bianco il proposito di distruggere le barche dei presunti trafficanti, addirittura all’interno delle acque territoriali libiche. Ma come capire a chi appartengono i barconi? Possono essere pescherecci usati occasionalmente per altri scopi.

Continua a leggere

Perché deve intervenire l’Onu

Articolo pubblicato su «Il Sole 24 Ore», 21 aprile 2015

Settecento morti nel Mediterraneo nella notte tra sabato 18 aprile e domenica, a 60 miglia dalle coste libiche. È il più grande sterminio in mare dal dopoguerra, dopo i 366 morti del 3 ottobre 2013 a Lampedusa. Inutile snocciolare i numeri delle scorse settimane, le percentuali in costante aumento: sempre giunge l’ora in cui il numero acceca la vista lunga, la storia che sta alle spalle, le persone che la cifra indica e al tempo stesso cancella. Enumerare non serve più, se non chiamiamo a rispondere gli attori politici del dramma: la Commissione europea, gli Stati dell’Unione, l’Alto Commissariato dell’Onu. A tutti va ricordato che le normative sul soccorso dei naufraghi e sul non respingimento sono divenute cogenti in contemporanea con l’unificazione europea, in memoria del mancato soccorso alle vittime dei genocidi nazisti. Sono la nostra comune legge europea.

A questi attori politici bisogna rivolgersi oggi con una preliminare e solenne domanda: smettete l’uso di parole altisonanti; passate finalmente all’azione; non reagite con blocchi navali che tengano lontani i fuggitivi dalle nostre case, come si tentò di tener lontani gli ebrei in fuga dal nazismo. Questo è un giorno di svolta. A partire da oggi non è più possibile evocare imprevisti incidenti, e al posto di emergenza occorre mettere la parola urgenza. Bisogna guardare in faccia la realtà, e chiamarla col nome che merita: siamo di fronte a crimini di guerra e sterminio in tempo di pace, commessi dall’Unione europea, dai suoi 28 Stati, dai Parlamentari europei e anche dalle Nazioni Unite e dall’Alto Commissariato dell’Onu. Il crimine non è episodico ma ormai sistemico, e va messo sullo stesso piano delle guerre e delle carestie acute e prolungate. Il Mar Mediterraneo non smette di riempirsi di morti dal 28 marzo 1997, quando, nel naufragio della Katër i Radës, 81 profughi albanesi perirono nel canale di Otranto; di altri 25 il mare non restituì mai i corpi. Lo sterminio dura da almeno 18 anni: più delle due guerre mondiali messe insieme, più della guerra in Vietnam. È indecenza parlare di “cimitero Mediterraneo”. Parliamo piuttosto di fossa comune: non c’è lapide che riporti i nomi dei fuggitivi che abbiamo lasciato annegare.

Le azioni di massima urgenza che vanno intraprese devono essere, tutte, all’altezza di questo crimine, e della memoria del mancato soccorso nella prima parte del secolo scorso. Non sono all’altezza le missioni diplomatiche o militari in Libia, dove per colpa dell’Unione, dei suoi governi, degli Stati Uniti, non c’è più interlocutore statale. Ancor meno lo sono i blocchi navali, gli aiuti alle dittature da cui scappano i richiedenti asilo, il silenzio sulla vasta destabilizzazione nel Mediterraneo – dalla Siria alla Palestina, dall’Egitto al Marocco – di cui l’Occidente è responsabile da anni.

Le azioni necessarie nell’immediato, eccole:

Urge togliere alle mafie e ai trafficanti il monopolio sulle vite e le morti dei fuggitivi, e di conseguenza predisporre vie legali di fuga presidiate dall’Unione europea e dall’Onu.

Urge organizzare e finanziare interventi di ricerca e salvataggio in mare, non solo lungo le coste europee ma anche in alto mare, lungo le coste del Nord Africa, come faceva Mare Nostrum e come ha l’ordine di non fare Triton. Questo, nella consapevolezza che la stabilizzazione del caos libico non è ottenibile nel breve-medio periodo, e che l’Egitto non è uno Stato democraticamente affidabile.

Urge che gli Stati europei collaborino lealmente a tale scopo (art. 4 del Trattato dell’Unione), smentendo quanto dichiarato da Natasha Bertaud, portavoce della Commissione di Bruxelles: “Al momento attuale, la Commissione non ha né il denaro né l’appoggio politico per predisporre un sistema di tutela delle frontiere, capace di impegnarsi in operazioni di search and rescue”. Una frase che ha il cupo suono dell’omissione di soccorso: un reato contro la persona, nei nostri ordinamenti giuridici.

Occorre che l’Onu stessa si mobiliti e decida azioni d’urgenza, e che il Consiglio di sicurezza sia incaricato di far fronte al dramma con una risoluzione. Se i crimini in mare somigliano a una guerra prolungata o a carestie nate dal tracollo diffuso di strutture statali nei paesi di transito o di origine, non vanno esclusi interventi dei caschi blu, addestrati per il search and rescue. I soccorsi e gli aiuti agli affamati e sfollati sono una prassi sperimentata delle Nazioni Unite. Una prassi da applicare oggi al Mediterraneo.

Ma questo è solo il primo passo. Occorre rivedere al più presto i regolamenti di Dublino. Con una sentenza del 21 dicembre 2011, la Corte di giustizia europea a Lussemburgo pone come condizione essenziale per procedere al trasferimento l’aver positivamente verificato se il migrante corra il rischio di essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti. Si tratta di un vero e proprio obbligo di derogare ai criteri di competenza enumerati nelle norme di Dublino.

Al tempo stesso e con la medesima tempestività, occorre tener conto che i paesi più esposti ai flussi migratori sono oggi quelli del Sud Europa (Grecia, Italia, Cipro, Malta, Spagna): gli stessi a esser più colpiti, dopo la crisi economica iniziata nel 2007-2008, da politiche di drastica riduzione delle spese pubbliche sociali. Spese che includono l’assistenza e il salvataggio di migranti e richiedenti asilo. Il peso che ingiustamente grava sulle loro spalle va immediatamente alleviato.

Occorre pensare a un sistema di accoglienza in Europa che garantisca il diritto fondamentale all’asilo, con prospettive di reinsediamento nei Paesi disponibili, nel rispetto della volontà dei rifugiati.

Infine, la questione tempo. È dallo sterminio presso Lampedusa che Governi e Parlamenti in Europa preconizzano un’organica cooperazione con i paesi di origine e di transito dei fuggitivi, al fine di “esternalizzare” le politiche di search and rescue e di asilo. Il Commissario all’immigrazione Avramopoulos ha addirittura auspicato una “cooperazione con le dittature”, dunque il ricorso ai respingimenti collettivi che sono vietati dalla Convenzione di Ginevra sullo statuto dei Rifugiati del 1951 (art. 33) e dagli articoli 18 e 19 della Carta europea dei diritti fondamentali.

Qui non è solo questione di diritti. È questione anche di tempi, di efficacia. Non c’è tempo per costruire relazioni diplomatiche – nei cosiddetti processi di Rabat e Khartoum – perché i fuggitivi sono in mare qui e ora, e qui e ora vanno salvati: sia dalla morte, sia dalle mafie che fanno soldi sulla loro pelle e riempiono un vuoto di legalità che l’Unione deve colmare. Gli Stati europei e l’Onu si macchiano di crimini e vivono inoltre nell’illusione. Carlotta Sami, portavoce dell’UNHCR, parla chiaro: “Far morire le persone in mare non impedirà ai fuggitivi di cercare sempre di nuovo la salvezza” dalle guerre, dalla fame, dall’odio che oggi si scatena contro i cristiani o altre minoranze religiose, e in futuro sempre più anche dai disastri climatici.

Il tempo delle parole, e dei negoziati diplomatici con i paesi d’origine o di transito, è senza più alcun rapporto con l’urgenza che si impone. È adesso, subito, che bisogna organizzare un’operazione salvataggio dell’umanità in fuga verso l’Europa.