di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 12 aprile 2024
Ieri Giuseppe Conte ha spiegato, in una conferenza stampa a Bari, quel che lo muove e che muove il suo partito-movimento.
Non cercare coalizioni pur di vincere a tutti i costi o nell’immediato, non salire sporadicamente nei sondaggi, ma proporre agli alleati del centrosinistra un Patto per la Legalità e la Buona Amministrazione che “estirpi la cattiva politica” – i voti di scambio, i comitati d’affari, le mangiatoie, gli spazi di immunità – e apra le porte alla buona politica e all’imparzialità. A poche settimane dal voto di Bari, il leader 5 Stelle prende atto che il Patto è ancora da edificare, considerata l’onda di ben tre inchieste giudiziarie su malaffare e voti di scambio che sta inondando le amministrazioni Pd a Bari e la Puglia, e decide la fuoruscita dei propri consiglieri dalla giunta regionale di Michele Emiliano.
Forse perché fiuta infastidita una sorta di ritorno dell’atmosfera di Mani Pulite (ci sono ricordi istruttivi che indispongono), forse perché obbedisce all’automatismo degli stereotipi conformisti, gran parte degli osservatori e della classe politica ripete quanto è avvezza a dire da giorni e da anni, generalmente in coro perché il conformismo è sempre groupthink, pensiero di gruppo: ripete che il leader del Movimento 5 Stelle è un opportunista quando sbandiera la questione morale; che usurpa il trono di Schlein e vuol essere egemone del centrosinistra; che pecca di slealtà e perfino aiuta le destre, come sospetta Schlein. C’è anche chi mostra irritazione per una frase che il leader di 5 Stelle scandisce da parecchio tempo e che ieri a Bari ha pronunciato più volte: nei rapporti con le altre forze politiche “la nostra asticella è molto alta”. Evidentemente, chi aggredisce Conte per questa postura usa tenere l’asticella molto bassa. Dovrebbe spiegare perché e con quali conseguenze.
C’è infine chi, pensando magari di proteggere Elly Schlein e l’indeterminatezza di alcune sue scelte, lo accusa di “tornare al partito del vaffa”. Pier Luigi Bersani stavolta sbaglia tutto: battuta, metafora ed epoche. La svolta di Conte è un’azione di pulizia indispensabile, se è vero che su 200 inchieste avviate dalla Procura europea per truffe ai fondi del Pnrr, ben l’85% riguarda l’Italia.
Tutti i castigatori, comunque, giudicano Conte colpevole di tradimento e slealtà verso la segretaria del Pd. Una segretaria osannata, specie dai giornali mainstream, con la veemenza che caratterizza chi empatizza con un perdente: troppo innocente, troppo candida, troppo credula e intimidita nel rapporto con 5 Stelle. Si è sentito perfino un giornalista proclamare di essere “soggiogato” dalle sue “qualità magnetiche”. Difficile immaginare un giornalista fuori dall’Italia che pubblicamente usi questi termini nel descrivere un politico.
Quel che i castigatori fanno finta di non vedere, tuttavia, è qualcosa di più profondo: è la vera natura dello scontro riacutizzatosi fra Conte e Schlein, e la sua durata nel tempo. La disputa infatti non è episodica e concerne non solo il buon governo e la questione morale ma anche – e da anni– i temi più cruciali e drammatici del nostro tempo: la guerra, l’invio di armi a Ucraina e Israele, la sottomissione acritica dei governi italiani – di Mario Draghi come di Giorgia Meloni – alle strategie espansive della Nato.
Per capire la natura dello scontro, e i motivi per cui si accumula tanto astio verso quella che Conte chiama rivoluzione (il Patto per la legalità), bisogna provare a vedere dietro le apparenze. Dietro il velo delle apparenze, si può constatare la resistenza cocciuta, irremovibile, di un apparato Pd che dilata lo scontro e lo usa ad arte per affossare gli sforzi di intesa fra democratici e 5 Stelle che la segretaria Pd sta tentando, con tenacia anche se intermittente, indecisa, spesso intimidita. La verità ancora invisibile è che Conte sfidando Schlein le sta porgendo la mano, e di fatto potrebbe aiutarla.
Se davvero Schlein vuole liberarsi dai logorati e spesso contaminati potentati locali del Pd come aveva annunciato quando divenne segretaria – se non vuole farsi condizionare dai “cacicchi e capibastone” del proprio partito – farebbe bene a far propria la promessa del Patto offerta da Conte, e a mostrare d’aver capito quel che è in gioco e sta succedendo. Gli attacchi a Conte sferrati da gran parte della stampa e da una buona parte del Pd, oltre che da personaggi sparsi del centro, sono in realtà la clava con cui si attacca lei: l’aliena nel partito, la persona non grata, la regina da spodestare sfruttando ogni occasione e ogni minacciato “punto di non ritorno”. Si insulta lui per colpire lei.
Che lo scontro per interposta persona non sia episodico né nuovo è confermato da quanto accade fra 5 Stelle e Pd quando si discute, in Italia e nel Parlamento europeo, su guerra e pace. Gli eurodeputati del Pd votano sistematicamente, e ormai senza più defezioni, in favore di risoluzioni che insistono nel proseguire gli aiuti militari a Kiev e raccomandano di riconquistare tutti i territori occupati dalle truppe russe, Crimea compresa. Questo nonostante l’Ucraina stia rischiando la perdita sempre più vasta di territori e soldati. Non meno sistematicamente, gli eurodeputati 5 Stelle votano contro tali risoluzioni. È vana e capziosa la scusa addotta dagli eurodeputati italiani del gruppo socialista: “Diciamo queste cose ma auspichiamo anche negoziati di tregua o di pace”. Se l’auspicassero seriamente, ammetterebbero che tregue e pace sono possibili solo se si restaura lo statuto di neutralità adottato dall’Ucraina quando divenne indipendente nel 1991. In gran parte, questi eurodeputati vogliono essere ricandidati.
Infine, tornando al Patto di legalità proposto da Conte in Puglia come in Piemonte e altre regioni, vale la pena chiarire un punto. Non è l’epoca di Mani Pulite e nemmeno del vaffa che sta tornando. Il buon governo e la buona politica non sono reclamati da magistrati o movimenti extraparlamentari. È una domanda che nasce stavolta nel cuore della politica. Quando Conte dice che “occorre dire se vogliamo che sia la magistratura a decidere le sorti della politica o se invece la politica possa e debba avere un sussulto di dignità”, quando invita la segretaria Pd a decidere “se trasformare il Pd, come aveva promesso, o se lasciarsi trasformare dal vecchio Pd”, rende visibile e riconoscibile un contrasto annoso, che risale ai tempi della segreteria di Bersani e soprattutto a quelli di Enrico Letta.
Inutile fare calcoli brevi quando la disputa concerne temi fondamentali, e dimenticare che Conte lasciò il governo Draghi (forse non doveva neanche entrarci) perché contrario ai due capisaldi dell’Agenda – per il resto introvabile – dell’ex presidente della Bce: l’atlantismo acritico e bellicoso, abusivamente appaiato all’europeismo, e in economia l’erosione costante dello Stato sociale. Nessuno nel Pd, neanche Schlein, ha ancora osato quel che è lecito chiedere a chi si dice progressista: chiudere quell’epoca, e congedarsi dall’Agenda Draghi.
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