Come salvare Kiev dopo la sconfitta

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 23 febbraio 2025

Prima di accusare Giuseppe Conte di tradimento dei valori occidentali, e di sottomissione a Trump e alle estreme destre, converrebbe analizzare l’andamento della guerra in Ucraina negli ultimi tre anni e chiedersi come mai l’illusione di una vittoria di Kiev sia durata così a lungo e apparentemente duri ancora.

Come mai non ci sia alcun ripensamento, nella Commissione UE e nel Parlamento europeo, sulla strategia di Zelensky e sull’efficacia del sostegno militare a Kiev. La prossima consegna di armi, scrive il «Financial Times», dovrebbe ammontare a 20 miliardi di dollari.

Non è solo Conte a dire che Trump e i suoi ministri smascherano un’illusione costata centinaia di migliaia di morti ucraini oltre che russi: l’illusione che Kiev potesse vincere la guerra, e che per vincerla bastasse bloccare ogni negoziato con Putin e addirittura vietarlo, come decretato da Zelensky il 4 ottobre 2022, otto mesi dopo l’invasione russa e sette dopo un accordo russo-ucraino silurato da Londra e Washington.

Smascherando illusioni e propaganda, Trump prende atto dell’unica cosa che conta: non la politica del più forte, come affermano tanti commentatori, ma la realtà ineluttabile dei rapporti di forza. Realtà dolorosa, ma meno dolorosa di una guerra che protraendosi metterebbe fine all’Ucraina. Trump agisce senza cultura diplomatica e alla stregua di un affarista senza scrupoli: come già a Gaza dove si è atteggiato a immobiliarista che spopola terre non sue immaginando di costruire alberghi sopra le ossa dei Palestinesi, oggi specula sulle rovine ucraine e reclama minerali preziosi in cambio degli aiuti sborsati dagli Usa. Ma al tempo stesso dice quel che nessuno osa neanche sussurrare: Mosca ha vinto questa guerra, e Kiev l’ha perduta. La resistenza ucraina non è vittoriosa perché l’Occidente pur spendendo miliardi non voleva che lo fosse.

Fingere che la realtà sia diversa, che non sia grottesco l’ennesimo pellegrinaggio di Ursula von der Leyen a Kiev, in sostegno di Zelensky, è pensiero magico allo stato puro, invenzione di ologrammi paralleli. I vertici dell’Ue fingono di rappresentare l’intera Unione e giungono sino a reinserire nella propria cabina di comando la Gran Bretagna che dall’Unione pareva uscita.

Riconoscere la sconfitta di Kiev e Zelensky non è sacrificare l’Ucraina. Trump sacrifica il patto bellicoso con Zelensky – nella tradizione statunitense molla spudoratamente l’alleato – ma salva quel che resta dello Stato ucraino prima che cessi di esistere del tutto (i Russi hanno riconquistato il 20, non il 100% del Paese).

Così come stanno le cose militarmente, l’indignazione dei principali governi europei contro la tregua di Trump non implica la pace giusta, ma l’estinzione dell’Ucraina. Questa è la verità dei fatti tenuta nascosta durante la presidenza Biden: una bolla che Trump ha bucato con inaudita violenza verbale. Non si capisce come mai l’establishment giornalistico e politico in Europa parli di valori occidentali violati, di resistenza ucraina tradita, di Occidente sotto ricatto e attacco russo. L’Europa si è sfasciata, la Germania che va oggi al voto è il secondo grande perdente di questa guerra dopo l’Ucraina, e la bugia secondo cui Mosca può aggredire l’Europa se vince in Ucraina è irreale e antistorica.

A ciò si aggiunga che non sono i francesi, né i tedeschi, né gli italiani, né gli inglesi, a morire sul fronte. È un’intera generazione di ucraini che è perduta. Anche questo viene occultato: i giovani ucraini da tempo disertano in massa il campo di battaglia. Fuggono come possono. Il sociologo ucraino Volodymyr Ishchenko narra di giovani ripetutamente “bussificati”, spediti senza formazione a morire: il termine fa riferimento ai minibus che con violenza prelevano per strada i riluttanti. “Ogni mese si registrano casi di coscritti forzati che nelle stazioni di mobilitazione vengono picchiati a morte”. Sono soprattutto i poveri a disertare, subire violenze e morire: non hanno soldi per corrompere le autorità e strappare l’esonero dal servizio militare. “In dicembre, inchieste giornalistiche hanno rivelato torture sistematiche ed estorsioni nei ranghi dell’esercito” (Peter Korotaev e Volodymyr Ishchenko, “Why is Ukraine struggling to mobilise its citizens to fight?”, Al Jazeera 23.1.2025).

Non meno occultata, perché incompatibile col pensiero magico: la destra estrema ucraina, i neonazisti che dal 2014 ispirano la guerra di Kiev contro i separatisti del Donbass. Si parla molto di neonazisti putiniani a Ovest. Di quelli ucraini non si parla più, eppure Zelensky è diventato il loro prigioniero. Anche il suo predecessore Porošenko lo era, quando nel 2012 declassò per legge la lingua russa e boicottò gli accordi di Minsk che garantivano autonomia al Donbass e ai russofoni. Preferì la guerra civile fra il 2014 e il 2022, prima del massiccio intervento dell’esercito russo. Di questa guerra si parla poco. Fu cruenta (più di 14 mila morti) e andrebbe anch’essa condannata. Cosa diremmo se Parigi bombardasse i separatisti della Corsica?

Anche se non parla da statista, Trump ha in mente soluzioni sensate: ritornare alla promessa fatta a Gorbacëv di non allargare la Nato fino alle porte russe; riammettere Mosca nel Gruppo degli Otto (oggi Gruppo dei Sette) come era usanza alla fine della guerra fredda, prima che Obama facilitasse lo spodestamento di un governo ucraino troppo filorusso e Mosca reagisse riprendendosi la Crimea. Trump annuncia infine che europei e non europei potranno garantire militarmente l’Ucraina, ma senza gli Stati Uniti.

La Nato sopravviverà forse per qualche tempo, ma è un meccanismo spezzato. Quanto agli europei, mentono sapendo di mentire. Dicono che spenderanno molto più per la difesa, ma che per custodire la tregua invieranno truppe in Ucraina a condizione che si impegnino pure gli Stati Uniti, cosa rifiutata appunto da Trump. Non potranno inoltre riarmarsi senza tagliare lo stato sociale, e anche questo è un freno.

L’unica cosa che gli europei potrebbero fare, ma non fanno, è concepire una politica estera che ricominci da zero: cioè da quando è finita la guerra fredda, e Gorbacëv propose un sistema di sicurezza comune (la “Casa comune europea”). Forse è troppo tardi: tanto grande è il fossato che si è aperto tra Europa e Russia. Tanto forte è ancora l’ideologia neoconservatrice, che sembra spegnersi a Washington (non si sa per quanto tempo) ma persiste immutata nelle élite europee. È neocon il Presidente Mattarella, quando paragona Putin a Hitler nel momento in cui si negozia una tregua. Quando mai la Russia ha assaltato Germania, Francia, Italia, Inghilterra?

Particolarmente rattristanti sono i partiti come il Pd, che si dicono di sinistra. Oggi si ritrovano a destra di Trump, a difendere un’Europa fortino e a dimenticare la distensione di Willy Brandt negli anni 60 del secolo scorso. Al posto della Ostpolitik si piangono oggi nebbiosi valori occidentali, euroatlantici. Si auspicano negoziati, ma senza mai ammettere la sconfitta di Kiev e la necessaria sua neutralità. Forse nel pensiero magico Trump passerà presto.

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Trump e il riarmo Ue contro la Russia

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 26 gennaio 2025

Ristabilire un ordine internazionale regolato, che eviti l’esplodere bellico dei nazionalismi, il ripetersi dei genocidi, il respingimento dei rifugiati, l’impunità della tortura: questo l’impegno che gli Stati europei e gli Stati Uniti presero dopo la Seconda guerra mondiale e il genocidio degli ebrei.

Nacque un reticolato di leggi internazionali (tra cui la Convenzione sul genocidio, la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, la Corte internazionale di giustizia, l’Organizzazione Mondiale della Sanità). Gli organismi erano emanazioni dell’Onu, cui era affidato il compito di scongiurare l’impotenza mostrata dalla Società delle Nazioni dopo il 1914-18, con l’avvento del nazifascismo.

Nacque subito dopo anche l’Unione Europea, per riconciliare i due nemici secolari che erano Francia e Germania. L’idea di una federazione europea si rafforzò durante l’ultimo conflitto, nei primi anni Quaranta, quando ancora Hitler occupava mezzo continente. Fraternizzare con la Germania liberata e frenare le guerre divenne obiettivo primario della Comunità europea.

Ora questo reticolato di leggi è a pezzi: Israele può sterminare e affamare decine di migliaia di palestinesi; Meloni può restituire alla Libia un famigerato torturatore di migranti, Najeem Almasri. Rischioso arrestarlo come chiede la Corte Penale Internazionale, visto che Italia e Ue pagano la Libia perché i torturatori blocchino le partenze dei richiedenti asilo.

Da quando si è allargata ai Paesi dell’Est l’Unione Europea ha cessato di essere unione, e questo ben prima che il presidente Trump minacciasse le sue economie, incoraggiasse ogni sorta di nuovo nazionalismo etnico, denunciasse l’eccesso di regole Ue soprattutto in tema ambientale e sociale, e la mettesse davanti alla drammatica scelta: o vassallaggio completo o dazi; o spese militari europee che salgano al 5% del Pil o uscita degli Usa dalla Nato; e chissà quale altro flagello. Dopo quattro anni, il nazionalismo neoliberista che generò la Brexit s’estende e s’impone, sotto guida statunitense.

Trump e Musk si scagliano contro l’Europa unita per sfaldarla e favorire le sue destre estreme (neonazisti compresi), ma la loro offensiva rompe quel che era già rotto. Trump è uno dei sintomi della sua disgregazione, come è stata un sintomo di frantumazione l’ottusità mentale europea sulla guerra russo-ucraina.

L’ingresso dei paesi dell’Est nell’Unione Europea ha reintrodotto nella costruzione comunitaria i tre veleni contro i quali una serie di Stati del continente si erano accomunati negli anni Cinquanta: l’intenso nazionalismo etnico; il disprezzo delle leggi internazionali; l’ostilità famelica, insaziabile, verso una Russia percepita accanitamente, a Est, come erede del dominio sovietico. L’edificio si è dislocato con l’adesione dei nazionalismi orientali anche perché l’Unione è un ibrido: in piccola parte è federale (Banca Centrale in primis), in gran parte è confederazione di Stati fintamente sovrani ma con diritto di veto, specie in politica estera e di difesa.

Questo spiega come mai, contrariamente a Trump che sembra volere una tregua in Ucraina, l’Europa insiste nel fornire armi a Kiev e nell’infliggere sanzioni a Mosca. Il congelamento alla coreana della guerra sarebbe la soluzione preferita di Washington ma Putin la respinge per motivi comprensibili (equivarrebbe a tener non congelato ma caldo il conflitto, nato per frenare ulteriori allargamenti della Nato a Est: le due Coree non hanno ancora stipulato un trattato di pace, a 71 anni dalla fine della guerra). Ma nemmeno il congelamento sembra accontentare gli Europei orientali, se si escludono i governi d’Ungheria e Slovacchia. Quel che cercano è un regolamento dei conti con la Russia, una sconfitta che sia per Mosca triste, solitaria e finale (da Osvaldo Soriano).

Tutte le istituzioni europee sono oggi egemonizzate dai Nordici appena entrati nella Nato e dagli Orientali (finlandesi, svedesi, polacchi e i tre Baltici). Lo confermano i fatti e i comportamenti. Subito dopo la fine dell’Urss, l’Unione negoziò l’allargamento fingendo d’ignorare la massima ingiustizia commessa negli Stati baltici: quella che colpì le forti minoranze russe (tra il 20 e il 30% delle popolazioni in Estonia e Lettonia, quasi il 10% in Lituania), che erano discriminate e penalizzate, dal punto di vista linguistico, culturale e politico, esattamente come accadde in Ucraina dopo l’indipendenza. Le condizioni presentate da Bruxelles non menzionavano specificamente le minoranze russe. Il culmine è stato raggiunto dall’Unione il 24 dicembre scorso: il nuovo Alto Commissario per la politica estera e la sicurezza è l’estone Kaja Kallas, nota in patria e fuori come esponente di una assodata linea russofobica. Non era meno bellicoso il predecessore Josep Borrell, ma Kallas è un’autentica provocazione lanciata da Bruxelles.

Detto questo, la differenza fra Trump e europei è in larga parte fittizia. In primo luogo, non risponde del tutto al vero che l’Ue voglia proseguire la guerra per procura in Ucraina mentre Trump sarebbe pronto ad ammettere la neutralità di Kiev e l’epocale sconfitta della Nato. Chiedere poi che gli europei della Nato alzino le spese militari fino al 5% del prodotto nazionale lordo vuol dire riarmare il vecchio continente e trasformare la Nato in un formidabile dispositivo di guerra: si giustifica solo se la Russia continua a rappresentare un nemico esistenziale degli Stati occidentali.

Andrebbe sfatato, dunque, il luogo comune che dipinge Trump come clandestinamente pacifico e l’Europa come guerrafondaia. Sono guerrafondai tutti e due, fino a prova del contrario. L’America del Nord non abbandona per ora l’aspirazione al predominio unilaterale del mondo, che ha caratterizzato le sue politiche da quando si è compiaciuta nel ruolo di vincitrice della Guerra fredda.

Passiamo infine alla minaccia di Trump di lasciare la Nato, che tanto impaurisce i governi europei di destra e sinistra, le istituzioni Ue, e soprattutto il fantasma residuale della Guerra fredda che è il Parlamento europeo. In realtà sarebbe una manna per i cittadini europei, se l’Alleanza atlantica finalmente si sciogliesse. Non ha più senso e ha costi proibitivi, dopo lo scioglimento nel 1991 del Patto di Varsavia che legava militarmente l’Europa orientale a Mosca. Lo stesso Stoltenberg, ex segretario generale dell’Alleanza atlantica, ha ammesso nel settembre 2023 che l’invasione russa non era immotivata: a provocarla non era stato l’espansionismo russo ma la promessa occidentale di accogliere Ucraina e Georgia nella Nato. Da quindici anni Mosca ripeteva che non avrebbe tollerato la presenza militare dell’Alleanza lungo i propri confini.

L’abbandono Usa della Nato sarebbe un evento frastornante ma lascerebbe libera l’Europa di determinare il proprio destino. Potrebbe scegliere la bellicosità della Kallas. Ma potrebbe anche sperimentare un comune sistema di sicurezza con la Russia, resuscitando la “Casa Comune Europea” proposta da Gorbacëv nel luglio 1989. A questo punto l’Europa diverrebbe sì una potenza: ma pacifica, capace di finanziare il proprio Stato sociale. È quello che le amministrazioni Usa, Trump compreso, temono di più.

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