Trump e il riarmo Ue contro la Russia

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 26 gennaio 2025

Ristabilire un ordine internazionale regolato, che eviti l’esplodere bellico dei nazionalismi, il ripetersi dei genocidi, il respingimento dei rifugiati, l’impunità della tortura: questo l’impegno che gli Stati europei e gli Stati Uniti presero dopo la Seconda guerra mondiale e il genocidio degli ebrei.

Nacque un reticolato di leggi internazionali (tra cui la Convenzione sul genocidio, la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, la Corte internazionale di giustizia, l’Organizzazione Mondiale della Sanità). Gli organismi erano emanazioni dell’Onu, cui era affidato il compito di scongiurare l’impotenza mostrata dalla Società delle Nazioni dopo il 1914-18, con l’avvento del nazifascismo.

Nacque subito dopo anche l’Unione Europea, per riconciliare i due nemici secolari che erano Francia e Germania. L’idea di una federazione europea si rafforzò durante l’ultimo conflitto, nei primi anni Quaranta, quando ancora Hitler occupava mezzo continente. Fraternizzare con la Germania liberata e frenare le guerre divenne obiettivo primario della Comunità europea.

Ora questo reticolato di leggi è a pezzi: Israele può sterminare e affamare decine di migliaia di palestinesi; Meloni può restituire alla Libia un famigerato torturatore di migranti, Najeem Almasri. Rischioso arrestarlo come chiede la Corte Penale Internazionale, visto che Italia e Ue pagano la Libia perché i torturatori blocchino le partenze dei richiedenti asilo.

Da quando si è allargata ai Paesi dell’Est l’Unione Europea ha cessato di essere unione, e questo ben prima che il presidente Trump minacciasse le sue economie, incoraggiasse ogni sorta di nuovo nazionalismo etnico, denunciasse l’eccesso di regole Ue soprattutto in tema ambientale e sociale, e la mettesse davanti alla drammatica scelta: o vassallaggio completo o dazi; o spese militari europee che salgano al 5% del Pil o uscita degli Usa dalla Nato; e chissà quale altro flagello. Dopo quattro anni, il nazionalismo neoliberista che generò la Brexit s’estende e s’impone, sotto guida statunitense.

Trump e Musk si scagliano contro l’Europa unita per sfaldarla e favorire le sue destre estreme (neonazisti compresi), ma la loro offensiva rompe quel che era già rotto. Trump è uno dei sintomi della sua disgregazione, come è stata un sintomo di frantumazione l’ottusità mentale europea sulla guerra russo-ucraina.

L’ingresso dei paesi dell’Est nell’Unione Europea ha reintrodotto nella costruzione comunitaria i tre veleni contro i quali una serie di Stati del continente si erano accomunati negli anni Cinquanta: l’intenso nazionalismo etnico; il disprezzo delle leggi internazionali; l’ostilità famelica, insaziabile, verso una Russia percepita accanitamente, a Est, come erede del dominio sovietico. L’edificio si è dislocato con l’adesione dei nazionalismi orientali anche perché l’Unione è un ibrido: in piccola parte è federale (Banca Centrale in primis), in gran parte è confederazione di Stati fintamente sovrani ma con diritto di veto, specie in politica estera e di difesa.

Questo spiega come mai, contrariamente a Trump che sembra volere una tregua in Ucraina, l’Europa insiste nel fornire armi a Kiev e nell’infliggere sanzioni a Mosca. Il congelamento alla coreana della guerra sarebbe la soluzione preferita di Washington ma Putin la respinge per motivi comprensibili (equivarrebbe a tener non congelato ma caldo il conflitto, nato per frenare ulteriori allargamenti della Nato a Est: le due Coree non hanno ancora stipulato un trattato di pace, a 71 anni dalla fine della guerra). Ma nemmeno il congelamento sembra accontentare gli Europei orientali, se si escludono i governi d’Ungheria e Slovacchia. Quel che cercano è un regolamento dei conti con la Russia, una sconfitta che sia per Mosca triste, solitaria e finale (da Osvaldo Soriano).

Tutte le istituzioni europee sono oggi egemonizzate dai Nordici appena entrati nella Nato e dagli Orientali (finlandesi, svedesi, polacchi e i tre Baltici). Lo confermano i fatti e i comportamenti. Subito dopo la fine dell’Urss, l’Unione negoziò l’allargamento fingendo d’ignorare la massima ingiustizia commessa negli Stati baltici: quella che colpì le forti minoranze russe (tra il 20 e il 30% delle popolazioni in Estonia e Lettonia, quasi il 10% in Lituania), che erano discriminate e penalizzate, dal punto di vista linguistico, culturale e politico, esattamente come accadde in Ucraina dopo l’indipendenza. Le condizioni presentate da Bruxelles non menzionavano specificamente le minoranze russe. Il culmine è stato raggiunto dall’Unione il 24 dicembre scorso: il nuovo Alto Commissario per la politica estera e la sicurezza è l’estone Kaja Kallas, nota in patria e fuori come esponente di una assodata linea russofobica. Non era meno bellicoso il predecessore Josep Borrell, ma Kallas è un’autentica provocazione lanciata da Bruxelles.

Detto questo, la differenza fra Trump e europei è in larga parte fittizia. In primo luogo, non risponde del tutto al vero che l’Ue voglia proseguire la guerra per procura in Ucraina mentre Trump sarebbe pronto ad ammettere la neutralità di Kiev e l’epocale sconfitta della Nato. Chiedere poi che gli europei della Nato alzino le spese militari fino al 5% del prodotto nazionale lordo vuol dire riarmare il vecchio continente e trasformare la Nato in un formidabile dispositivo di guerra: si giustifica solo se la Russia continua a rappresentare un nemico esistenziale degli Stati occidentali.

Andrebbe sfatato, dunque, il luogo comune che dipinge Trump come clandestinamente pacifico e l’Europa come guerrafondaia. Sono guerrafondai tutti e due, fino a prova del contrario. L’America del Nord non abbandona per ora l’aspirazione al predominio unilaterale del mondo, che ha caratterizzato le sue politiche da quando si è compiaciuta nel ruolo di vincitrice della Guerra fredda.

Passiamo infine alla minaccia di Trump di lasciare la Nato, che tanto impaurisce i governi europei di destra e sinistra, le istituzioni Ue, e soprattutto il fantasma residuale della Guerra fredda che è il Parlamento europeo. In realtà sarebbe una manna per i cittadini europei, se l’Alleanza atlantica finalmente si sciogliesse. Non ha più senso e ha costi proibitivi, dopo lo scioglimento nel 1991 del Patto di Varsavia che legava militarmente l’Europa orientale a Mosca. Lo stesso Stoltenberg, ex segretario generale dell’Alleanza atlantica, ha ammesso nel settembre 2023 che l’invasione russa non era immotivata: a provocarla non era stato l’espansionismo russo ma la promessa occidentale di accogliere Ucraina e Georgia nella Nato. Da quindici anni Mosca ripeteva che non avrebbe tollerato la presenza militare dell’Alleanza lungo i propri confini.

L’abbandono Usa della Nato sarebbe un evento frastornante ma lascerebbe libera l’Europa di determinare il proprio destino. Potrebbe scegliere la bellicosità della Kallas. Ma potrebbe anche sperimentare un comune sistema di sicurezza con la Russia, resuscitando la “Casa Comune Europea” proposta da Gorbacëv nel luglio 1989. A questo punto l’Europa diverrebbe sì una potenza: ma pacifica, capace di finanziare il proprio Stato sociale. È quello che le amministrazioni Usa, Trump compreso, temono di più.

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Le due facce di Trump in Ucraina e a Gaza

di domenica, Novembre 10, 2024 0 , , , , Permalink

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 10 novembre 2024

È probabile che Trump Presidente non voglia iniziare nuove guerre, e che quelle cominciate voglia finirle. Almeno così dice. Allo stesso tempo non vorrebbe entrare nella storia come perdente: cosa accaduta a Biden quando lasciò l’Afghanistan dopo gli accordi che il predecessore stipulò con i Talebani. Trump lasciò a Biden il lavoro caotico della ritirata.

Lo stesso si può dire per la guerra russa in Ucraina che Biden e l’inglese Boris Johnson hanno voluto durasse fino ad oggi – anziché concluderla con un trattato già pronto poche settimane dopo l’invasione – e che è ancora una guerra indiretta Stati Uniti-Russia. Trump vorrebbe finirla o almeno congelarla perché attribuisce una razionalità alla potenza russa e perché ritiene che gli Stati Uniti abbiano fornito troppi miliardi e armi a Zelensky.

L’ingresso di Kiev nella Nato lo considera un impaccio, visto che l’Alleanza comunque lo infastidisce, specie se entra in gioco il famoso articolo 5: Trump vuole intervenire quando e dove e per i motivi che decide lui. Non lascerà decidere a una tecnocrazia (Nato o Onu che sia) quel che è legale o non lo è. Quand’era Presidente, Trump ha sanzionato la Russia e super-armato l’Ucraina. Potrebbe ora auspicare la sua neutralità, ma non è detto. L’isolazionismo con gli alti dazi è sicuro in economia. Il resto è imprevedibile.

Lo scenario muta radicalmente, per il momento, quando dall’Ucraina si passa a Israele. Anche qui Trump vuole che le guerre finiscano, per via dello spazio che occupano nei media e nelle università. Ma intende adoperarsi perché Netanyahu raggiunga quel che si è prefisso: una guerra di riconquista delle terre bibliche, una Grande Israele senza più palestinesi se non schiavizzati.
Questo intende il nuovo Presidente quando invita Netanyahu a “finire la bisogna” (finish the job) sia in Palestina (Gaza e Cisgiordania), sia in Libano, sia soprattutto contro Iran e alleati in Yemen, Iraq, Siria. Nei mesi scorsi ha criticato Biden per aver “troppo frenato Netanyahu” (in realtà il freno era finto) e per questo il Premier israeliano ha glorificato la vittoria di Trump, cui sono andate le sovvenzioni più copiose delle lobby israeliane in Usa. Riassumendo: mentre lo Stato israeliano sta inghiottendo impunemente l’intera Palestina, Trump vuole accattivarsi gli Stati petroliferi sunniti e abbattere il secolare nemico iraniano e i suoi seguaci in Medio Oriente.

Qui conviene fare un salto indietro nel tempo, se si vuol capire la genesi delle due guerre in Ucraina e Medio Oriente. In ambedue i casi siamo alle prese con potenze nucleari (Usa, Russia, Israele dotata di oltre 100 testate) e sia Trump sia il consigliere Elon Musk rispettano solo gli Stati atomici detti “santuari”.
Secondo molti studiosi statunitensi, come Branko Marcetic, Michael Galant o Mehdi Hasan di origine araba, l’eccidio del 7 ottobre 2023 – quando Hamas abbatté la recinzione di Gaza e uccise in Israele 1.139 persone (di cui 695 civili) catturandone circa 250 – non è affatto un’ora zero della storia, un secondo genocidio che annulla gli anni in cui gli indigeni arabi furono scacciati o soggiogati, ma è la conseguenza, atroce e forse non più evitabile, di oltre mezzo secolo di umiliazioni ed espulsioni anti-palestinesi, accentuate in particolare dalla prima presidenza Trump.

Fu Trump nel 2018 a smettere le sovvenzioni Usa all’Agenzia Onu per l’assistenza dei rifugiati palestinesi UNWRA, su spinta di Netanyahu. Nello stesso anno uscì dall’accordo sul nucleare con l’Iran, aumentò gli assassinii con i droni (del generale iraniano Qasem Soleimani e dell’iracheno al-Muhandis nel 2020) e intensificò il contributo, iniziato da Obama, alla guerra saudita in Yemen. Fu il suo ministro degli Esteri Pompeo a giudicare “perfettamente in linea col diritto internazionale” le colonie in Cisgiordania, nel 2019, e fu ancora Trump, sempre nel 2019, a riconoscere la sovranità israeliana sulle alture occupate del Golan ai confini con la Siria, suscitando l’ira degli abitanti drusi. Una delle colonie porta il nome di “Trump Heights”.
Infine, fu lui a spostare l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendo di fatto la sovranità israeliana sull’intera città, compresa Gerusalemme Est occupata. Fu lui ad architettare gli accordi di Abramo tra Israele, Emirati e Bahrein nel 2020. Obiettivo: il depotenziamento dell’Iran e della questione palestinese, e l’estensione della sovranità israeliana sul 30% della Cisgiordania.

È a partire dalla prima presidenza Trump che i Palestinesi, scoraggiati come mai, rappresentati ormai efficacemente solo da Hamas e Jihad, sono stati sopraffatti da collera e disperazione, smettendo di credere nella soluzione dei due Stati che l’Occidente infruttuosamente continua a declamare. Si è così giunti al culmine efferato della protesta: l’evasione dal recinto di Gaza e l’assalto del 7 ottobre, simile per alcuni versi alla nemesi dell’11 settembre 2001 o all’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022: invasione che ha alle spalle anch’essa una storia lunga, visto che dal 2008 Mosca ha ripetutamente definito un pericolo esistenziale l’allargamento Nato a Ucraina e Georgia, ai propri confini.
Ma se Trump ha avuto più voti musulmani di Kamala Harris, se molti voti arabi sono andati all’ecologista Jill Stein, che denuncia la “colonizzazione e il genocidio dei Palestinesi”, è perché il cosiddetto campo progressista è vuoto. L’enorme errore di Kamala Harris, dopo quasi tre anni di guerra per procura in Ucraina e dopo uno sterminio già in parte compiuto a Gaza e ora in Libano, è stato di restare aggrappata alla presidenza Biden, senza accennare la minima rottura (“non c’è una sola politica di Biden che io disapprovi”), e di spostare a destra il proprio partito, vietando ai protestatari filopalestinesi di prender la parola alla Convenzione democratica e blandendo i responsabili di aggressioni e torture in Afghanistan e Iraq (famiglia Cheney).

Lo studioso Norman Solomon paragona Harris a Hubert Humphrey, vicepresidente di Lyndon Johnson, che quando si candidò alla Casa Bianca nel 1968 non ebbe il fegato di staccarsi da Johnson e dalla sua guerra in Vietnam. Perse rovinosamente contro Nixon.
Così Kamala Harris. Pensava di vincere demonizzando Trump e difendendo i diritti delle donne all’aborto, e la maggioranza delle donne bianche ha scelto Trump: l’economia era per loro prioritaria. Pensava di convincere gli ispanici: se li è presi Trump. Inoltre per colpa di Biden aveva poco tempo: poco più di tre mesi di campagna.
Ora i giornali dominanti se la prendono con Harris. L’accusano di aderire alla cultura woke, custode delle minoranze e della loro inclusione. Si ripropone l’annosa polemica delle destre contro il ’68. Forse in passato Harris difese le minoranze – in patria e fuori – proprio come le aveva difese Humphrey. Ma il potere e i soldi dei donatori l’hanno prima stravolta, poi affossata. L’hanno talmente accecata che in agosto definì se stessa e il vice Tim Walz due invincibili “guerrieri gioiosi” (joyful warriors).

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Ipocrisie europee su migranti e Trump

di giovedì, Febbraio 2, 2017 0 , , , , Permalink

Bruxelles, 1 febbraio 2017. Intervento di Barbara Spinelli nel corso della sessione plenaria del Parlamento europeo.

Punto in agenda: Gestione della migrazione lungo la rotta del Mediterraneo centrale

Dichiarazione del Vicepresidente della Commissione/Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza

Presenti al dibattito:

Federica Mogherini – Vicepresidente della Commissione/Alto rappresentante dell’Unione per gli

L’accordo con la Turchia non cessa di essere criticato, ed ecco che se ne profila uno con la Libia, ancora più inquietante. Mi domando quale sia il senso delle proteste di tanti governi europei contro Trump, quando essi stessi predispongono operazioni legalmente discutibili, e ignorano le raccomandazioni molto chiare espresse dal Commissariato Onu dei diritti umani, secondo cui i rimpatri in Libia non vanno fatti – e neanche gli sbarchi in Libia in azioni di Search & Rescue –  perché i fuggitivi corrono rischi gravi: torture in campi di detenzione, violenze contro le donne, anche esecuzioni. Sappiamo dall’Onu che il pericolo non sono gli smugglers. Sono i trafficanti, le milizie incontrollate, e funzionari pubblici di uno Stato fatiscente.

Al Consiglio vorrei chiedere che desista da accordi pericolosi, venerdì al vertice di La Valletta. Lo chiedo specialmente all’Italia, Paese avanguardia in quest’operazione: ricordo al mio paese i suoi trascorsi coloniali in Libia. Alla Commissione chiedo di uscire dalle doppiezze. Non si può al tempo stesso giudicare non replicabile l’accordo con la Turchia, dire che la prima preoccupazione è “salvare le vite”, e progettare l’addestramento e il finanziamento delle guardie costiere libiche, e il loro coordinamento con le nostre guardie di frontiera, perché i profughi non raggiungano più l’Europa.