Bruxelles, 29 giugno 2016. Intervento di Barbara Spinelli nel corso della Conferenza “Lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata” organizzata da Laura Ferrara (Portavoce EFDD – M5S Europa).
Relatori:
- Marco Valli, Portavoce EFDD – M5S Europa
- Ignazio Corrao, Portavoce EFDD – M5S Europa
- Elly Schlein, Eurodeputata Gruppo S&D
- Barbara Spinelli, Eurodeputata Gruppo GUE/NGL
- Caterina Chinnici, Eurodeputata Gruppo S&D
- Sebastiano Tinè, Commissione europea – DG Migration and Home Affairs
- Marco Travaglio, Autore e Giornalista “Il Fatto Quotidiano”
- Sergio Valentini, Transparency International Italia
Ringrazio Laura Ferrara, per aver organizzato questa importante conferenza.
Vorrei partire, visto che un po’ di memoria storica può servire, dai negoziati che precedettero la nascita dell’euro. Non certo perché corruzione e mafia siano fenomeni recenti, ma perché in quell’occasione furono percepite come un crimine che riguardava l’Unione intera. Fu la giornalista americana Claire Sterling, nel 1990, a svelare l’allarme del Cancelliere Kohl a proposito dell’ingresso italiano nella moneta unica. Temibile dal suo punto di vista non era quello di cui da anni si parla sui giornali o nelle riunioni europee – il debito pubblico o la condizione delle banche. Era una cosa a suo parere preminente: l’incapacità dei governi italiani di far fronte alla mafia, di combatterla, e di evitare dunque l’espandersi contagioso in Europa di quella che veniva percepita come la principale, e apparentemente inestirpabile, malattia italiana: le varie forme di mafia, viste come un pericolo che rischiava di contaminare non solo l’intera penisola ma l’insieme dell’Unione.
Giulio Andreotti, allora presidente del Consiglio e Gianni De Michelis, ministro degli Esteri, fecero di tutto perché nei documenti ufficiali non risultasse la parola mafia e al massimo si parlasse di crimine organizzato. Il Cancelliere e altri governanti insisterono invece perché il problema fosse messo in agenda nel vertice del giugno 1990, e perché la parola mafia apparisse expressis verbis nelle discussioni e nei comunicati. Fu così che la mafia divenne, per la prima volta, tema di un summit CEE. Il timore era che la malavita italiana, con il mercato unico, avrebbe realizzato in Europa quello che realizzava in Italia.
Di mafia non si parlò più nell’Unione: in un certo senso vinse Andreotti. E vinse due volte, visto che oggi anche “crimine organizzato” è divenuto parola tabù. Nulla trapelò più dai molto chiusi e molto poco trasparenti summit dell’Unione. Ma di certo il male è ancora lì, e pesa ancora. In questo Parlamento, quando ne parliamo – e ne abbiamo parlato in più occasioni – i colleghi europei appena aggrottano le sopracciglia, se le aggrottano e non s’addormentano. Non sanno o meglio fingono di non sapere quanto paghino tutti, nell’Unione, per le collusioni delle nostre amministrazioni, dei nostri colletti bianchi, di alcuni politici, con le trame mafiose ed eversive.
Fingono di non sapere il peso che ha il crimine organizzato in un settore estremamente lucroso e devastante, delle attività internazionali degli Stati membri dell’Unione: il commercio d’armi – e in primis il riadattamento illegale di armi neutralizzate – che rimpingua e agguerrisce gli eserciti dei Paesi più coinvolti nel terrorismo dell’Isis o di al Qaeda: Arabia saudita, Qatar, e sempre più anche la Libia.
Fingono di non sapere che la Turchia, nelle cui casse l’Unione ha deciso di versare 6 miliardi di euro in due tranche perché si riprenda i rifugiati, è tra i principali finanziatori e fornitori d’armi (gas sarin compreso, secondo le indagini del giornalista Seymour Hersch) dell’Isis, usando metodi di trasferimento incontrollati. E certo, tutti si consolano d’un tratto per i buoni rapporti che stanno instaurandosi tra Erdogan e lo Stato di Israele. Ma Israele ha proprio in questi mesi fatto sapere che meglio avere di fronte l’Isis, che Hezbollah e l’Iran. “Se dobbiamo scegliere tra ISIS e Assad, scegliamo l’Isis», ha detto nel marzo scorso Michael Oren, parlamentare ed ex ambasciatore israeliano negli Stati Uniti. Perché parlo di questi commerci occulti con l’Isis? Perché l’Isis è in cerca di carri e mitragliatrici e magari anche un po’ di armi chimiche: proprio il tipo di armi che è oggetto di traffici spesso cogestiti dal crimine mafioso. In altre parole, mafia e corruzione hanno risvolti economici, politici, e anche geostrategici.
Con questo non intendo dire che l’attività delle mafie si concentra tutta sul commercio illegale d’armi e sulla destabilizzazione del Sud Mediterraneo e del Medio Oriente. L’attività comprende anche il traffico degli esseri umani e dunque i milioni di rifugiati e richiedenti asilo che scappano dalle zone di guerra, dove queste armi vengono usate. È un’intera filiera che è in mano al crimine organizzato, fintantoché l’Unione affronterà la questione rifugiati rimpatriandoli in massa e contro i dettami della Convenzione di Ginevra verso le zone di guerra o verso le dittature da cui scappano; e fintantoché non organizzerà vie di accesso all’Europa che siano legali e sicure. Non dimentichiamo mai che nel mondo ci sono 65 milioni di rifugiati, e che quelli che arrivano in Europa rappresentano solo lo 0,2 per cento delle nostre popolazioni. È una cifra accuratamente occultata dalle élite europee e nazionali dell’Unione, oltre che dai principali giornali.
Un’intera filiera dunque è data, di fatto, in appalto al crimine: il commercio d’armi, le guerre, la gestione delle fughe, e infine – se i rifugiati non sono rimpatriati – la loro integrazione nel mondo del lavoro dei Paesi europei. Su quest’ultimo punto mi soffermo molto brevemente, perché la questione sarà trattata da altri oratori in questa conferenza. La parola integrazione infatti è una pura impostura verbale. Non vengono affatto «integrati», i rifugiati adulti e anche di minore età, ma o diventano oggetto di tratta, o vengono gestiti alla stregua di nostri nuovi e molto comodi schiavi. In un rapporto presentato il 23 giugno scorso alla Camera dei deputati dall’associazione Da Sud, Terra onlus e da Terrelibere.org, si racconta di una nuova Italia schiavista che sta nascendo, che per salari equivalenti a 3-5 euro l’ora soggioga e aliena migliaia di braccianti, stranieri e non: dal Sud al Nord Italia, dall’Europa meridionale fino in Cina. Nel rapporto si legge: «Se dopo oltre vent’anni non si è riusciti a sconfiggere il fenomeno in Italia, o non si è voluto farlo o gli strumenti con cui si è intervenuti non sono stati sufficienti». L’associazione Filiera Sporca interroga e fornisce le risposte dei grandi attori della filiera agroalimentare, denuncia la mancata trasparenza della Grande distribuzione organizzata, il ruolo distorto delle organizzazioni dei produttori che agiscono come moderni feudatari, dimostra come il costo delle arance riduca in povertà i piccoli produttori e lasci marcire il made in Italy (articolo su Il Manifesto di Silvio Messinetti).
A mio parere l’Europa deve intervenire per debellare radicalmente queste mafie che si installano al posto dei poteri pubblici. Fondi europei giungono per finanziare hotspot, Cie, o il Cara di Mineo. Bisogna che ogni centesimo venga monitorato, che la cultura del render conto metta infine radice, perché a partire da questi centri non dilaghi un’economia sommersa dominata completamente dal caporalato.
Per concludere, vorrei dire che ho partecipato con emendamenti al Rapporto di Laura Ferrara su corruzione e criminalità organizzata, insistendo in particolare sugli ecoreati, sulla contraffazione, sulla tratta di esseri umani, su una Procura europea indipendente dagli Stati membri e con forti poteri. Ma anche in un altro campo sto cercando di condurre una battaglia, come relatore ombra, e cioè nei negoziati sul Rapporto in corso di discussione che proporrà nuovi meccanismi europei intesi a controllare il rispetto della rule of law e dei diritti fondamentali. Ebbene, di corruzione si parlerà molto, nella Relazione affidata all’eurodeputata liberale Sophie In’t Veld.
Ricordo per l’occasione una delle cifre che sarà inserita in tale Rapporto, e che ci è stata fornita dal Servizio Ricerche del Parlamento europeo: il costo della non-Europa, nell’area del crimine organizzato, ammonta a ben 70 miliardi di euro l’anno. Dal che si può capire quanto potrebbero servire l’Unione e i suoi organi di controllo, se si occupassero meno di chiudere le frontiere o far rispettare il fiscal compact, e più delle questioni discusse nel Rapporto Ferrara e in questa conferenza. La linea Andreotti non deve continuare a essere, anche post mortem, la linea vincente.