L’8 aprile il centro studi Piero Calamandrei di Jesi ha insignito del “premio Calamandrei 2017″ il professor Carlo Smuraglia, presidente dell’Anpi, “per la difesa appassionata e mai retorica della Costituzione italiana”, Barbara Spinelli, “per la battaglia contro lo svuotamento dello Stato di diritto nelle condotte dell’Unione Europea”, e, alla memoria, il professor Tullio De Mauro, “per avere cantato il valore della chiarezza linguistica della nostra Costituzione” (la sua opera è stata presentata dal professor Luca Serianni, linguista).
Sono onorata di ricevere un premio che prende il nome da Piero Calamandrei, e anche della motivazione che è stata scelta. La interpreto come il riconoscimento di una battaglia che conduco da tempo per la difesa dello stato di diritto e delle Costituzioni nell’Unione, e per questo riconoscimento vi sono grata.
In proposito, vorrei qui ricordare brevemente alcuni punti.
Nell’esaminare quel che succede con la democrazia costituzionale negli Stati dell’Unione e nelle sue istituzioni, e con i diritti sociali e civili che esse garantiscono, è indispensabile affrontare la questione della sovranità. L’idea di unificare l’Europa nasce essenzialmente come critica delle sovranità assolute degli Stati, e del loro rifiuto di accettare qualsivoglia autorità o legalità internazionale che siano superiori al proprio volere (ai tempi del Manifesto di Ventotene era in questione l’impotenza della Lega delle Nazioni di fronte alle politiche di aggressione fasciste e nazionalsocialiste).
Da questo punto di vista la scomparsa dell’Urss, del Patto di Varsavia, del Comecon ha inferto un duro colpo a simile idea, rendendola più complessa di quanto lo fosse già. Da una parte l’Unione europea ha perso un termine di paragone importante, non potendo più contrapporre la natura volontaria e consensuale della propria sovranazionalità a quella obbligatoria dell’Urss e del Patto di Varsavia. Dall’altra paga il prezzo di un allargamento a Est fatto senza che la questione della sovranità sia mai stata affrontata seriamente e risolta: tutti i Paesi dell’Est sono entrati nell’Europa per riconquistare piena sovranità e sono estremamente restii a perderla di nuovo. Non si può continuare a parlare di Ventotene – o di un’Unione “sempre più stretta”, come nel preambolo del Trattato di Lisbona – se non si includono nei ragionamenti ambedue i momenti cruciali dell’Unione così come oggi si configura: il secondo dopoguerra e l’89-’90.
Non voglio dire con questo che i trasferimenti di sovranità siano di per sé sbagliati: sono molte le politiche votate all’insuccesso o addirittura impossibili, se a decidere sono gli Stati-nazione da soli (clima, energia, anche moneta). Ma il concetto di sovranità trasferita va approfondito, riadattato, e anche rinominato: meglio dire sovranità condivisa piuttosto che trasferita. Soprattutto, il trasferimento non può divenire un fine in sé. Accentuare l’incisività tecnica delle istituzioni o renderle magari più trasparenti non è sufficiente. È la natura del trasferimento che va approfondita e riadattata. Cosa che probabilmente bisognava fare dall’inizio con più chiarezza.
La delega di sovranità (o la sua condivisione) non avviene infatti nell’Unione senza alcun tipo di riserve, non è adesione supina a un impero – impero che è peraltro senza imperatore e s’incarna essenzialmente in tecnostrutture. Non solo è un trasferimento volontario, ma è anche fortemente condizionato. Nell’articolo 11 della nostra Costituzione, per esempio, è scritto a chiare lettere che l’Italia, nel ripudiare la guerra, “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Si trasferiscono sovranità se l’ordinamento politico che si vuol raggiungere è in grado di assicurare pace e giustizia fra le nazioni. Non entriamo in alleanze o in comunità sovrannazionali a qualsiasi prezzo, o perché una potenza nazionale più forte e più sovrana lo vuole.
L’Europa dovrebbe riconoscere questo anche per quanto riguarda la Nato, e non si può dire che la questione sia stata veramente posta nel nostro continente, né quando la Nato fu costituita né dopo la fine della guerra fredda. Come diceva già nel 1949 Piero Calamandrei, l’adesione al Patto Atlantico era sconsigliabile fin dall’inizio, e tanto più lo è oggi. Il Patto Atlantico – così Calamandrei – “non solo non dà [all’Italia] la garanzia di allontanare dal nostro territorio la catastrofe della guerra, ma dà anzi a essa la certezza della immediata invasione, anche se il conflitto sarà provocato da urti extraeuropei”. E continuava: “Auguriamoci che mentre la Costituzione repubblicana attende ancora il suo compimento, la firma di questo Patto Atlantico non sia il primo colpo di piccone dato per smantellarla”. Cito queste frasi perché rischiano di valere anche per l’odierna Unione europea, minacciata dal disfacimento dopo la grande crisi del 2007-2008, dopo il dibattito sul Grexit, dopo il Brexit. L’Unione immagina di sventare tali minacce con una Difesa comune, che consiste soprattutto nel quadruplicare le forze armate Nato ai suoi confini orientali, e nel contravvenire a precise promesse fatte a Gorbačëv dopo il venir meno dell’Urss. Ma se pensa di superare la propria crisi risuscitando la guerra fredda, e il nemico esistenziale che c’era prima dell’89-’90, si illude.
Il giudizio di Calamandrei sul Patto atlantico vale anche per gli effetti che l’Unione così come oggi è fatta può avere sulle Costituzioni e sul loro smantellamento. Se da anni parlo di svuotamento dei diritti e di de-costituzionalizzazione dell’Europa, è perché l’Unione tende a funzionare come struttura indifferente ai dettami di una democrazia costituzionale: cioè a funzionare come un piccone. In primo luogo è priva di una Carta in cui i popoli si riconoscano e che riconosca loro una sovranità. In secondo luogo non si fonda, come avviene nelle democrazie costituzionali, su una chiara suddivisione di compiti tra potere esecutivo, legislativo e giudiziario. Il potere esecutivo è un ibrido (la Commissione e il Consiglio), e come tale non eletto. Il Parlamento europeo è l’unico organo eletto ma non legifera con le stesse possibilità date ai Parlamenti nazionali. E la Corte giudica, ma con un’indipendenza molto ridotta: primo perché sui diritti economici e sociali è molto influenzata da politiche neo-liberali, secondo perché comunque può intervenire solo sulla legge europea, e un numero sempre più grande di decisioni cosiddette europee sono adottate tra gli Stati, proprio per aggirare sia il Parlamento europeo sia la Corte di giustizia (fiscal compact, accordi di migrazione e rimpatri con Paesi terzi). L’Unione manca anche di strumenti efficaci di democrazia diretta, come previsto invece in una serie di costituzioni nazionali.
Non a caso non c’è un governo europeo ma una cosiddetta “governance” (la tecnostruttura cui accennavo). E la prima cosa che tale governance vuole, è risolvere a proprio favore proprio la questione costituzionale della sovranità, legittimando l’oligarchia sovranazionale e prospettandola come una necessità tutelare e benefica, quali che siano i contenuti e gli effetti delle sue politiche. Il primo marzo scorso, illustrando il Libro Bianco della Commissione sul futuro dell’UE, il Presidente Juncker è stato chiaro: “Non dobbiamo essere ostaggi dei periodi elettorali negli Stati”. In altre parole, il potere UE deve sconnettersi da alcuni ingombranti punti fermi delle democrazie costituzionali: il suffragio universale in primis, lo scontento dei cittadini o dei Parlamenti, l’uguaglianza di tutti sia davanti alla legge, sia davanti agli infortuni sociali dei mercati globali. Scopo dell’Unione non è creare uno scudo che protegga i cittadini dalla mondializzazione, ma facilitare quest’ultima evitandole disturbi. Nel 1998 l’allora Presidente della Bundesbank Hans Tietmeyer invitò ad affiancare il “suffragio permanente dei mercati globali” a quello delle urne. Il binomio, già a suo tempo osceno, è nel frattempo saltato. Determinante resta soltanto, perché non periodico bensì permanente, il plebiscito dei mercati.
In quanto potere relativamente nuovo, l’oligarchia dell’Unione ha bisogno di un nemico esterno, del barbaro. Oggi ne ha uno interno e uno esterno. Quello interno è il “populismo degli euroscettici”: un’invenzione semantica che permette di eludere i malcontenti popolari relegandoli tutti nella “non-Europa”, o di compiacersi di successi apparenti come il voto in Olanda (“È stato sconfitto il tipo sbagliato di populismo” ha decretato il conservatore Mark Rutte, vincitore anche perché si è appropriato in extremis dell’offensiva anti-turca di Wilders). Il nemico esterno è la Russia di Putin, contro cui gran parte dell’Europa, su questo egemonizzata dai suoi avamposti a Est, intende coalizzarsi e riarmarsi.
Questo sviluppo non è nuovo, e penetra fin dentro i vocabolari europei. Fin dagli anni ‘70 le élite si domandano se la democrazia e le Costituzioni non debbano essere limitate, perché i governi siano più efficienti. Penso al rapporto sulla governabilità scritto nel 1975 per la Commissione Trilaterale da Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki: il rapporto, pubblicato con il titolo “La crisi della democrazia”, denunciava gli “eccessi” delle democrazie parlamentari postbelliche, e affermava il primato della stabilità e della governabilità sulla rappresentatività e il pluralismo, giungendo sino a esaltare l’apatia degli elettori e cittadini. Ne leggo un passaggio: “Il funzionamento efficace di un sistema democratico necessita di un livello di apatia da parte di individui e gruppi. In passato [prima degli anni ’60] ogni società democratica ha avuto una popolazione di dimensioni variabili che stava ai margini, che non partecipava alla politica. Ciò è intrinsecamente anti-democratico, ma è stato anche uno dei fattori che ha permesso alla democrazia di funzionare bene”. Negli anni ‘80-‘90 il processo continua: la frase di Tietmeyer sulla necessità di considerare il “suffragio permanente dei mercati globali” alla pari con i responsi elettorali, ne è il culmine. La crisi economica iniziata nel 2007-2008 accelera questo svuotamento delle democrazie costituzionali, accentrando ancor più i poteri nelle mani degli esecutivi, sia nelle singole nazioni sia nelle istituzioni europee. In quegli anni Jürgen Habermas vede affermarsi un temibile “federalismo degli esecutivi”, e nel 2013 – in piena crisi europea dei debiti sovrani – la JP Morgan pubblica un rapporto sulla riorganizzazione dell’eurozona in cui denuncia senza più remore e in maniera esplicita le Costituzioni sud europee nate dall’antifascismo, troppo corrive con sindacati e proteste sociali, e da riscrivere perché le Carte non rallentino le decisioni degli esecutivi. (Oggi Habermas sembra essersi dimenticato di tutto questo, e ha scelto di appoggiare ufficialmente il candidato francese più vicino alle banche d’affari, Emmanuel Macron. Ho cambiato spesso idea nella mia vita, anche lui ha il diritto di farlo). Le riforme costituzionali di Berlusconi e di Renzi andavano ambedue nella direzione indicata da JP Morgan, prima che venissero fortunatamente bocciate da due referendum: sono state l’apice di un quarantennale tentativo di far regredire il diritto.
Per quel che mi riguarda, penso che a questa regressione sia importante resistere. Non esaltando genericamente i valori dell’Unione europea. I valori vengono continuamente sbandierati per non dover parlare dei fondamenti normativi dell’Unione e delle Costituzioni, che sulla carta esistono ancora e che vale la pena difendere perché continuamente minacciati, come si vede nel negoziato che sta per iniziare sul Brexit. I valori sono soggettivi, dunque opinabili. I fondamenti normativi sono vincoli giuridici che possono essere invocati. Ogni volta che sento parlare di valori, da parte della Commissione o dei Consigli Europei o dello stesso Parlamento, mi dico che è perché l’Unione li sta in quel preciso momento sacrificando.
Concludo con un piccolo glossario, giusto per elencare alcune parole che sarebbe meglio evitare o sostituire, e che spesso mi capita di incrociare nel mio lavoro di parlamentare. La mia battaglia è anche contro le perversioni o invenzioni semantiche. Abbiamo visto come può esser stravolto il significato dei “valori” o del populismo: sono le parole che sento più spesso. Un’altra parola oggi ricorrente è apatia: descritta come elemento di governabilità nel rapporto della Trilaterale, ora d’un tratto mette paura alle forze dominanti nell’Unione. È chiaro che chi maneggia queste terminologie capisce poco o niente, di quel che succede nei propri Paesi, nelle proprie regioni, nelle proprie città. Si parla con nuovo allarme di apatia, quando molto visibilmente non ribollono che passioni sempre più aspre. La parola apatia è al centro di una recente risoluzione sulla e-democracy di cui mi sono occupata al Parlamento europeo. Ho cercato inutilmente di abolirla dalla lista delle caratteristiche dei cittadini che hanno, come dice la risoluzione, “perduto la fiducia nella politica”.
Anche quest’ultimo termine – “perdita di fiducia nella politica” – è più che fuorviante. Ci si guarda bene dal riconoscere che il malcontento di un numero crescente di cittadini concerne LE politiche, non LA politica in sé. Che la democrazia diretta (o e-democracy) non è un semplice contentino che si dà a gente apatica, ma uno strumento che permette alle passioni di trasformarsi in domande, in elaborazione di politiche diverse, e che è pensata per far fronte alle gravi malattie della democrazia rappresentativa. Precisamente questo è deliberatamente ignorato dalle attuali classi dirigenti: siccome le politiche continuano a essere riproposte tali e quali, e il desiderio delle élite è di portarle avanti senza impedimenti, si fa finta di non vedere la differenza tra LA politica e LE politiche, e si continuano ad approvare risoluzioni sulla sfiducia nella politica (cioè nelle istituzioni politiche in sé e per sé).
Il fatto che le forze maggioritarie nel Parlamento non tollerino emendamenti lessicali di questo tipo conferma che siamo di fronte a vocaboli tabù. Lasceranno paradossalmente passare mille emendamenti sul necessario rispetto dei diritti umani o della Carta dei diritti fondamentali o della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ma quelle parole no, sono evidentemente prestate dal Diavolo ai populisti: passioni, sfiducia nelle politiche adottate, fondamenti normativi dell’Unione e delle Costituzioni. Si adotta una politica disastrosa e in calce si promette il “rispetto dei diritti umani”: tutto finisce qui, con questa nota in calce alla Tartuffe.
Spesso mi dico – e concludo – che il cittadino attratto dai cosiddetti populisti viene visto come un radicalizzato violento. Bisogna de-radicalizzarlo, affibbiargli lo stigma del nemico, del non-cittadino. Anche in questo caso cito una risoluzione del Parlamento dedicata al terrorismo e ai radicalizzati: a fatica sono riuscita ad aggiungere a queste espressioni – “radicalizzato”, o anche “radicalizzato islamico” – l’aggettivo “violento”, perché lo stigma non si estendesse arbitrariamente (e convenientemente) ad altre categorie che non ricorrono a violenza: migranti o politici-militanti radicali, tutti suscettibili di essere esclusi dalla società. Esclusi da dove? È l’ultima parola stravolta che vorrei menzionare: l’esclusione dalla Storia con la S maiuscola. “Siete fuori dalla Storia”, “Siete dalla parte sbagliata della Storia”. Proprio nei giorni scorsi a Strasburgo l’espressione ha risuonato più volte nella plenaria del Parlamento europeo, rivolta al Regno Unito che ha deciso di uscire dall’Unione. Se non fosse tragica, questa convinzione di stare dalla parte buona e giusta di una Storia che procede sempre compatta e sicura verso il meglio farebbe solo ridere.