di Barbara Spinelli
«Il Fatto Quotidiano», 3 maggio 2020
Non bisogna però credere che i politici ingoino facilmente l’amaro calice che in qualche modo li declassa. Molti puntano i piedi, si attribuiscono improbabili sapienze in più, giudicano esorbitante il peso degli esperti. L’uscita dal lockdown – lasciano capire – deve restituire loro l’autonomia (meglio: i poteri) che improvvidamente avrebbero delegato.
Di qui gli attacchi a Giuseppe Conte sferrati non solo dall’opposizione ma anche da Italia Viva e parte del Pd. Di qui il conflitto politica-scienza innescato da chi sembra non aver capito la catastrofica singolarità rappresentata dal Covid. Renzi non sa quello che dice, quando denuncia l’abdicazione della politica e paragona il peso esercitato dai virologi a quello dei magistrati nel ’92-’93 o dei “tecnici” economici nel primo decennio del 2000. O quando ha la spudoratezza di dire che “nemmeno ai tempi del terrorismo” le libertà furono a tal punto ristrette. Apparentare la calamità Covid al terrorismo, o a Mani Pulite, o alla crisi del 2008, denota un’ignoranza militante massimamente nociva perché impermeabile alla conoscenza e al distinguo.
Per meglio capire la natura di questo conflitto scienza-politica, vediamo dunque in che consiste il contributo di esperti e comitati tecnico-scientifici. In primo luogo essi sanno leggere le cifre, stabilendo quelle determinanti. In Germania a esempio sono due i dati ritenuti cruciali: l’indice di contagiosità (il cosiddetto R0 – quante persone sono contagiate da un singolo positivo) e il numero giornaliero dei contagiati (N). Se R0 scende sotto l’1 il contenimento funziona. Ma bisogna che scenda parecchio, perché se l’indice è 0,9 basta una scintilla e il Covid risale esponenzialmente. Secondo: gli scienziati hanno memoria delle epidemie da Coronavirus (Sars 2003, Mers 2012, Covid-19): non dimenticano che la Sars fu dichiarata sconfitta quando non lo era. Terzo: sono abituati a cooperare con scienziati di tutto il mondo, molto più dei politici. Quarto vantaggio, essenziale: gran parte degli esperti sono indipendenti, anche quando consigliano i governi. Come vediamo in questi giorni non esitano a contraddire i politici che promettono uscite avventate dal lockdown. È accaduto nel caso di Macron, che aveva annunciato la riapertura imminente delle scuole contro il parere dei tecnici: ha dovuto fare marcia indietro.
In vari paesi gli istituti scientifici mettono in guardia contro uscite non oculate dal lockdown, in assenza di vaccini e medicine risolutive. In un rapporto del 28 aprile, i quattro più celebri istituti tedeschi di ricerca escludono sia il definitivo sradicamento del virus (assenza del vaccino, cooperazione internazionale insufficiente) sia la “diffusione controllata del virus”, resa possibile dalla nuova disponibilità di posti letto per terapie intensive. In altre parole: è inammissibile dire che se i letti passano da 10 a 100 possiamo permetterci 90 intubati in più, chiamando tale scelta “convivenza col virus”.
L’offensiva contro gli esperti vede schierati gli imprenditori, più che giustamente allarmati dal tracollo economico che si annuncia. I politici che li assecondano ne profittano per prendersi una sorta di rivincita e riaffermare il primato che pretendono d’aver perduto (l’avevano già perso da decenni), e questo spiega la scomposta, dilettantesca equiparazione fra Covid e terrorismo, o fra epidemiologi, magistrati e “tecnici” dell’economia. Spiega le scelte e retromarce di Macron. Spiega infine quello che Drosten chiama il paradosso della prevenzione: il lockdown è d’un tratto visto come “reazione sproporzionata” proprio a causa dei successi che ha ottenuto (ospedali sgravati), “alimentando un autocompiacimento che potrebbe generare la seconda ondata di infezione”.
Nasce da questo compiacimento l’illusione – denunciata dagli istituti di ricerca tedeschi– che il virus possa essere combattuto attraverso una sua “diffusione controllata”, grazie ai restaurati posti letto: un calcolo miope oltre che cinico. I quattro istituti propongono al suo posto una “strategia adattativa” che si prepari a superare man mano il lockdown – come legittimamente chiesto dall’economia – ma a precise condizioni: quando i test e le tecniche di tracciamento dei contagi saranno sviluppati al massimo, e quando il numero dei contagiati e l’indice di contagiosità (fattori N e R0) scenderanno significativamente.
Stesso malumore verso la scienza si registra in Germania. Drosten ha ricevuto minacce di morte quando ha criticato uscite intempestive dal lockdown: “Per molti tedeschi sono l’uomo nero che paralizza l’economia”, ha confidato al «Guardian». Ha detto che i letti liberatisi nelle terapie intensive non basteranno neanche nel suo paese, se partirà una seconda ondata Covid. Ha ricordato che basta poco perché l’indice di contagiosità ridiventi devastatore (è accaduto in Germania dopo le vacanze di Pasqua, prima della “riapertura”).
Di questi tempi gli scienziati forniscono brutte notizie, e quando ne forniscono di buone (ad esempio sull’immunità data per certa) sparlano. Dice Jeremy Farrar, infettivologo: “La verità è che non abbiamo buoni test, non abbiamo farmaci di cui si sappia la reale efficacia, e non abbiamo il vaccino”. Liquida così l’immunità di gregge: “Per conseguirla deve essere immune il 60-70 per cento della popolazione. Siamo ben lontani da tali cifre” (secondo uno studio americano non si oltrepassa il 2-3 per cento). Sostiene che non basta scendere di qualche decimale sotto l’1, nell’indice di contagiosità: “Basta una scintilla o una disfunzione dei test e risaliamo a 1,3-1,5: il che vuol dire nuova ondata Covid e nuovo lockdown. Un andirivieni insopportabile per le società”. Quel che occorre è moltiplicare e sviluppare i test e i tracciamenti di contagi, “come fanno i paesi che hanno meglio combattuto la pandemia: Corea del Sud, Singapore, Nuova Zelanda, Germania”. Farrar dice che “ci aspettano giorni neri. Il vero exit è il vaccino”.
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