La “Succession” parigina: Macron punta sul caos

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 12 ottobre 2025

A prima vista sembra inspiegabile, la testardaggine capricciosa con cui Emmanuel Macron sforna un primo ministro dopo l’altro – l’ultimo è Sébastien Lecornu, fedelissimo, incaricato ben tre volte – pur di non ammettere l’evidenza: i partiti di centro che lo sostengono sono sempre più striminziti, la sua politica è stata sconfitta alle elezioni del giugno 2024, le ore del suo soggiorno all’Eliseo sono contate. Lunedì Lecornu spiegherà quel che l’Eliseo vuole e concede, ma presto cadrà anche lui, come i due premier (Michel Barnier, François Bayrou) che l’hanno preceduto. Invece la testardaggine e i capricci sono spiegabili. Se Macron resta abbarbicato al potere è perché non vuole in alcun modo che le proprie scelte neoliberiste vengano disfatte: in particolare la scelta di proteggere dal fisco le grandi ricchezze e la riforma delle pensioni che gli elettori di estrema destra e di sinistra respingono, chiedendone una più giusta.

Macron è “solo davanti alla crisi”, affermano giornali e reti tv, ma così solo non è. Lo appoggiano i grandi patrimoni, le multinazionali, le imprese raggruppate nella confindustria francese (Medef). È a loro che Macron promette regali fiscali da quando fu eletto nel 2017. Con loro si identifica, mentre la sua popolarità crolla al 13-14%.

Il dramma Succession è iniziato e nessun candidato presidente vuol essere contaminato dal macronismo, anche se sono rari quelli se ne discosteranno davvero. Giornali e televisioni insistono sulla riforma delle pensioni che sinistra ed estrema destra vorrebbero abrogare, e su finte mini-concessioni del binomio Macron-Lecornu. La riforma non sarebbe abrogata ma dilazionata o perfino sospesa, in attesa che passi quando sarà eletto il nuovo presidente, in teoria nel 2027 ma forse prima se Macron dovrà dimettersi. Ma ancor più temuta dall’establishment economico-finanziario è la tassa sugli ultraricchi – detta anche tassa Zucman, dal nome dell’economista Gabriel Zucman. Un’imposta minima, applicata ai patrimoni di chi ha redditi annui superiori a 100 milioni di euro: aiuterebbe a salvare lo stato sociale e anche le pensioni, grazie a un introito 15-25 miliardi. Ma la confindustria erige un muro massiccio a difesa dei regali fiscali di Macron e preme in prima linea sui deputati socialisti. L’organizzazione imprenditoriale ha diffuso nelle settimane scorse un opuscolo confidenziale – un kit di mobilitazione – che spiega ai singoli deputati la catastrofe che potrebbe derivare dalla tassa Zucman o tasse somiglianti: fuga di capitali, instabilità, caos infine. Il kit cita l’esodo dei capitali in Norvegia, quando fu approvata una tassa simile. Omette di dire che quell’imposta colpiva i redditi annui superiori a 1,7 milioni di euro, non i 100 milioni annui indicati da Zucman. La tassa viene descritta come diabolica “predazione della ricchezza”. Anche in questo caso la maggioranza dei francesi la sostiene (86%), mentre la classe politica sopisce, tronca e ascolta le lobby.

Per capire qualcosa del caos francese occorre andare indietro nel tempo e individuare il momento in cui l’idea di democrazia “rappresentativa” ha vacillato non solo sotterraneamente, ma in maniera palese. È accaduto poco prima della nascita dell’euro. Nel 1998, il presidente della Banca centrale tedesca, Hans Tietmeyer, se ne uscì con una dichiarazione dirompente: a decidere è il “plebiscito permanente dei mercati”, oltre a quello degli elettori. Nel 2007 Greenspan disse la stessa cosa: grazie alla globalizzazione sono i mercati mondiali a prendere le decisioni politiche. Monti espose tesi analoghe, da presidente del Consiglio, quando disse che non poteva negoziare il salvataggio dell’euro a Bruxelles “tenendo pienamente conto” del proprio Parlamento (Spiegel, intervista del 6.08.2012). Da allora l’appello alla sovranità popolare viene assimilato al populismo o sovranismo. Nella strategia di Macron la sinistra francese doveva essere sfasciata, e il tentativo di unione nelle Legislative del 2024 andava affossato. È quello che è accaduto.

Oggi il Partito socialista è un intruglio, ma su un punto è sicuro: la criminalizzazione dell’ex alleato Mélenchon, che propugna idee redistributive della socialdemocrazia classica e avversa l’economia di guerra in Francia e Europa. Accusato delle peggiori nefandezze – antisemitismo, filo-putinismo, radicalismo – Mélenchon è ben più temuto e ostracizzato dell’estrema destra di Le Pen-Bardella. Il Partito socialista rischia di imboccare la strada centrista proprio quando il centrismo vive in Francia un declino spettacolare. È la strada che esalta la “cultura del compromesso e dell’umiltà”, abusivamente chiamata socialdemocratica. Di fatto non è più sinistra. E la terza via di Blair, naufragata da tempo in Inghilterra. O di Keir Starmer, sull’orlo del naufragio.

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Macron re dei supponenti e la cecità totale dell’Eliseo

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 10 settembre 2025

È passato un anno dalle elezioni legislative anticipate volute da Emmanuel Macron, due primi ministri da lui nominati sono nel frattempo caduti – Michel Barnier con una mozione di censura il 4 dicembre, François Bayrou con un voto di sfiducia lunedì – e ancora il Presidente non ha capito che il grande perdente è lui, nonostante le incapacità negoziali di ambedue i Premier falliti. Ieri ha nominato primo ministro un suo fedelissimo, il ministro della difesa Sébastien Lecornu. Probabilmente Macron pensa che facendo sempre la stessa cosa, e avendola fallita due volte, il risultato possa essere diverso.

Il debito che appesantisce il paese è aggravato dalle sue politiche, e da anni è lui il bersaglio della collera dei francesi. La Francia è bloccata da lui e non – come sostengono centro-destra e media mainstream – dai movimenti popolari o sindacali che manifesteranno oggi e il 18 settembre. Quello di oggi, annunciato da tempo, ha come motto: “Blocchiamo Tutto”. Non cade dal cielo ma prosegue un movimento di protesta quasi ininterrotto che ha accompagnato la presidenza sin dagli inizi: Gilets Gialli nel 2018-2019; lunga mobilitazione nel 2023 contro la legge sulle pensioni, imposta da un capo di Stato senza più maggioranza assoluta; e adesso il Blocco. Ogni volta sono le dimissioni presidenziali che vengono invocate.

Da parecchi mesi Macron si occupa quasi solo di politica estera, dove può esibire una regalità inesistente e gesticolazioni bellicose, ma ecco che la verità sui suoi poteri effettivi è venuta a galla senza possibili malintesi, lunedì all’Assemblea nazionale: l’alleanza di centro-destra che sosteneva Bayrou s’è infranta, la coalizione presidenziale che raggruppa tre mini-partiti centristi tra cui quello macroniano era stata già ridotta nel 2024 e potrebbe restringersi ulteriormente: i sondaggi le attribuiscono il 15%, otto punti in meno rispetto a un anno fa.

Il centrismo non funziona nemmeno in Francia. Bayrou è caduto perché parte della destra che sosteneva la sua fragile maggioranza lo ha silurato (13 deputati del partito dei Repubblicani, attratti probabilmente dall’estrema destra). Ha votato contro anche una deputata macronista, per lo scandalo degli abusi pedofili e delle violenze nella scuola cattolica di Bétharram, nel sud-ovest della Francia. Bayrou che governava la regione sovvenzionò e favorì la scuola per anni.

Resta che il caos è opera di Macron e di una cocciutaggine che rasenta la dissennatezza. Nessun governo è possibile, decretò prima e dopo le elezioni per lui disastrose del 2024, “se non continuerà la mia politica (…) Non accetterò smagliature”. Ragion per cui ignorò la vittoria delle sinistre riunite nel Nuovo Fronte Popolare – ben sapendo che la temuta discontinuità era con loro inevitabile – e dopo ben due mesi di tergiversazioni affidò la guida del governo a Michel Barnier, cioè ai perdenti delle legislative (i Repubblicani). Ancora più grottesca la nomina del secondo premier: il partitino di Bayrou (MoDem) ha meno seggi dei Repubblicani. La nomina di Lecornu non cambia nulla. Dal 2024, Macron cammina con gli occhi bendati.

In passato, due presidenti di peso avevano accettato la coabitazione con gli avversari arrivati primi alle legislative: due volte Mitterrand, nel 1986 e nel 1993, una Chirac nel 1997. Ambedue tollerarono civilmente le “smagliature”. Macron no, si sente infinitamente più insostituibile e inaffondabile dei predecessori. Nemmeno Luigi XVI aveva tanta sicumera prima di esser ghigliottinato.

È una sicumera che si estende a raggiera, tutt’attorno alla sua persona: in Francia, in Europa, nel mondo. Fotografato assieme a Trump, ai colleghi europei e a Zelensky, nella foto di gruppo alla Casa Bianca, Macron si presenta con la mano in tasca, esibendo sprezzatura. Su Israele finge di essere all’avanguardia in Europa perché riconoscerà lo Stato palestinese, e ignora che l’unico all’avanguardia è lo spagnolo Sánchez, che s’accinge a bloccare le forniture a Israele di armi e energia, e che ha riconosciuto lo Stato palestinese dalla primavera del 2024 (con Irlanda, Norvegia, Slovenia).

Ma la supponenza più grande è altrove. Eletto due volte, nel 2017 e nel 2022, Macron aveva fatto ai francesi una promessa solenne: sarò io l’argine all’avanzata dell’estrema destra. Per questo fu eletto: non per la personalità e tantomeno per il programma, ma perché i francesi non intendono accordare il potere massimo a Le Pen, anche se il rifiuto tende a scemare.

Promessa non tenuta: il Rassemblement National di Le Pen ha fatto enormi passi avanti e la collera contro il liberismo di Macron lo rafforza nelle classi popolari, nonostante il rifiuto lepenista di ogni tassa sui più abbienti. La proposta di Bayrou di abolire due giorni festivi è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Se si dovesse arrivare a un nuovo scioglimento dell’Assemblea, l’estrema destra sarà il primo partito, e il Presidente dovrà affidarle la guida del governo o dimettersi: gli imbrogli del 2024 non possono ripetersi ancora.

Evidentemente la promessa di Macron era stata fraintesa. L’argine promesso doveva servire a frenare e frantumare le sinistre, non l’estrema destra.

Le Pen vincerebbe oggi alle elezioni perché i socialisti non hanno capito che questo era il vero scopo di Macron: spezzare l’unione a sinistra. Oppure l’hanno capito, e una parte consistente dei socialisti e un partitello contiguo (Place Publique di Raphaël Glucksmann) condividono lo scopo. Assieme stanno imboccando la via “socialdemocratica” delle grandi coalizioni con la destra, certi che per governare bisogna ostentare “responsabilità” e rompere con la Francia Indomita (France Insoumise).

In realtà Mélenchon non è estremista come pretendono tanti commentatori. È socialdemocratico anche lui: ma socialdemocratico all’antica, pur non possedendo il carisma di Willy Brandt. Più potere d’acquisto, ecologia, aumento del salario minimo, fine dei privilegi fiscali concessi da Macron ai più ricchi e alle grandi industrie: questo il programma. E in politica estera pace in Europa (Mélenchon ha sostenuto l’Ucraina ma critica gli allargamenti Nato) e sanzioni contro il governo di Israele, che assieme a Sánchez accusa di genocidio.

L’unità a sinistra si è sfasciata tra l’estate 2024 e quest’estate. I dirigenti del partito socialista non sono più contrari a un’alleanza con i macronisti, ma il Presidente continua a ignorarli. I giornali e le televisioni quando parlano di “arco repubblicano” non escludono solo l’estrema destra ma anche e soprattutto gli Indomiti di Mélenchon, incolpati d’ogni misfatto. Sono accusati di “guerra civile” da Bayrou, di antisemitismo per le accuse di genocidio a Israele, e sono “seminatori d’odio” per la manifestazione Blocchiamo Tutto: “L’ultra-sinistra vuol dire ultraviolenza”, minaccia il ministro dell’Interno Bruno Retailleau, che ha mobilitato oggi ben 80.000 poliziotti e gendarmi.

I socialisti hanno creduto che questa fosse l’ora dei “responsabili di sinistra”, e la nomina fulminea di un Premier centrista li lascia nudi sulla spiaggia, svergognati e umiliati. Per il momento comunque a rappresentare la sinistra resta solo il partito di Mélenchon, e almeno si fa chiarezza. Non si sa quanto durerà Lecornu. Si sa solo che Macron ha scelto un Premier contando sulle destre dei Repubblicani, assai più preziose delle sinistre dal suo punto di vista. Si sa che il giorno in cui dovesse sciogliere una seconda volta l’Assemblea, sarà sempre più difficile per lui evitare le dimissioni.

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Il nemico dell’Europa è il riarmo di von der Leyen

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 6 marzo 2025

Dicono molti commentatori che l’Europa si è fatta infine sentire: lo avrebbe fatto riconfortando Zelensky, dopo lo scontro di venerdì fra il presidente ucraino e Donald Trump, e promettendo un fenomenale riarmo e una guerra fredda a guida europea anziché statunitense.

Parigi e Londra sono pronte a schierare truppe in Ucraina, per garantirne la sicurezza dopo la tregua e l’accordo di pace con Mosca. Per ora Putin è contrario: non ha fatto la guerra per avere eserciti di Stati Nato al proprio confine.

Se questa è Europa, ben vengano le opposizioni al Piano di Riarmo, oggi al vertice dell’Unione. Non sono i progetti marziali della Commissione a facilitare la pace, ma le formidabili pressioni di Trump: martedì notte la Casa Bianca ha annunciato la sospensione di ogni aiuto all’Ucraina, compresi gli aiuti dei Servizi segreti, e il giorno dopo Zelensky ha accettato la mediazione Usa e proposto un’interruzione delle operazioni di aria e di mare. È quello che Papa Francesco un anno fa chiamò il “coraggio della bandiera bianca”. Viene l’ora di trattare con Putin, per fortuna non più paragonato a Hitler. L’apertura di Zelensky è giudicata positiva da Mosca.

Non si sa bene cosa si intenda, quando si invoca l’Europa: se i suoi cittadini, o i suoi Stati, o l’Europa parallela che Macron sta costruendo con Londra che non è più nell’Ue, o la Commissione guidata da Von der Leyen che non ha competenze in politica estera. Non si sa neanche fino in fondo il significato della manifestazione che il 15 marzo chiederà che l’Europa “dica qualcosa”, “parli con una voce sola”. Per dire cosa? Per quale politica estera, in un’Unione che su pace e guerra è divisa?

A motivare lo scandalo non è l’inaudita incapacità europea di concepire negoziati di pace con Mosca, ma la brutalità di Trump: è lui il nemico, accusato di umiliare Zelensky e costringerlo alla bandiera bianca. Tanto i morti non sono i nostri. Lo scandalo avrebbe senso se si parlasse di Gaza e degli aiuti Usa a Israele. Ma su Russia e Ucraina cosa si chiede? Che l’Europa negozi con Mosca un comune sistema di sicurezza oppure che inasprisca ancor più la conflittualità, contro la distensione tentata da Trump? E che vuol dire “difesa europea anziché riarmo” (posizione Pd), se manca una comune politica estera e diplomatica?

Venerdì alla Casa Bianca Zelensky si è infilato da solo nella tremenda trappola ripresa in mondovisione. Per capire l’evento tragico va vista l’intera conferenza stampa, e non solo l’esplosione finale. La conferenza non era cominciata male, Trump aveva elogiato l’esercito ucraino, ma Zelensky ha fatto di tutto per scatenare lo scontro. Ha parlato di Putin come di “un killer e un terrorista”, ha ripetuto che Mosca ha violato ben 25 volte gli accordi di tregua. Ha mostrato a Trump le foto di ucraini maltrattati dall’esercito russo e ha provocato il vicepresidente Vance: “Quale tregua?”. Inoltre ha reclamato un’assistenza militare Usa che equivalga di fatto al sostegno garantito dalla Nato.

Trump è un affarista neocoloniale che non esita ad accaparrarsi parte delle ricchezze minerarie ucraine (o russe se il Donbass resta russo) ma ha detto una cosa assennata: io sono al di sopra delle parti – ha ripetuto – non posso insultare Putin e al tempo stesso negoziare sulla fine dei bombardamenti.

Sarebbe stato ben più brutale se avesse detto un’ulteriore verità: l’Ucraina, la Nato e l’Europa hanno perso la guerra, ora si tratta di capire come mai è scoppiata. I continui allargamenti della Nato, la trasformazione dell’Ucraina in un fortilizio, il trattamento oppressivo delle minoranze russe e della loro lingua: tutto questo è vissuto come minaccia esistenziale a Mosca, non dall’invasione del ’22 ma dal 2008. Va ricordato che fu Trump nel primo mandato ad armare Kiev con i temibili missili anticarro Javelin, cruciali nella guerra odierna: Zelensky l’ha giustamente evocato nella conferenza stampa.

Si legge sui giornali che l’Europa si riunisce finalmente per contrastare Trump. E farebbe bene se lo contrastasse su Israele, cosa che non fa. Farebbe bene se difendesse l’Onu vilipesa da Washington anziché la Nato. Fa molto meno bene quando si presenta come Europa atlantista, fingendo d’ignorare la sconfitta storica della Nato e il radicale distacco statunitense dall’Europa.

Fuori posto è anche lo sdegno per il negoziato Washington-Mosca, che in un primo momento esclude Zelensky ed europei. È una lamentazione volutamente smemorata. Quando fu abbattuto il Muro di Berlino e cominciò a prefigurarsi l’unificazione tedesca (in realtà fu un’annessione della Germania Est), furono Bush padre e Gorbaciov a negoziare bilateralmente. Solo in un secondo momento le trattative si estesero alle due Germanie e ai firmatari degli accordi postbellici, Regno Unito e Francia. Allora la procedura apparve naturale. Gli unici che potevano sbloccare le cose erano Washington e il Cremlino. Ora invece si protesta, e non perché l’Europa sia più forte ma perché è diventata più inconsistente, più asservita alle industrie militari, meno addestrata alla diplomazia.

L’Unione è condannata all’irrilevanza se non richiama all’ordine rappresentanti pericolosi per la pace come Von der Leyen o l’estone Kaja Kallas, Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la sicurezza: un personaggio, quest’ultimo, che non ha mai fatto autocritica su quanto disse nel maggio ’24, poco prima d’esser nominata: “Non è una cattiva idea lo smembramento della Federazione russa in tante piccole nazioni”.

Quanto a Von der Leyen, memorabili sono le parole dopo il vertice euro-atlantico di Londra: l’Ue deve trasformare l’Ucraina in un “riccio d’acciaio indigesto a invasori” come la Russia. Il capo dell’esecutivo Ue non spiega come procedere, perché la politica estera e di difesa non è per fortuna di sua competenza. Se parla così è perché si mette al servizio delle industrie militari, non dei governanti e ancor meno dei popoli. Un sondaggio dell’Istituto inglese Focaldata rivela che i cittadini europei sono ostili alla strategia del riccio d’acciaio: una forte maggioranza di elettori francesi, tedeschi e inglesi vuole ridurre le spese militari o almeno mantenerle ai livelli attuali (il 66% in Francia, il 53 in Germania, il 54 nel Regno Unito). Dice James Kanagasooriam, capo dell’istituto di sondaggi: “I poteri politici sono alle prese con un enorme nodo gordiano”. È il nodo gordiano che lega indissolubilmente le politiche neoliberali di austerità alla militarizzazione dell’Unione.

Il “Piano Riarmo Europa” presentato martedì da Von der Leyen conferma in pieno il nodo gordiano. È annunciato un esborso di 800 miliardi di euro entro quattro anni: “Si apre un’era di riarmo. Questo è il momento dell’Europa. Siamo pronti a passare a una velocità superiore”. Una parte dei fondi europei destinati alla coesione sociale, territoriale e ambientale sarà dirottata verso il riarmo. È sperabile che qualcuno fermi la Commissione. Almeno per quanto riguarda i confini orientali d’Europa il pericolo è lei, non Trump.

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Macron combatte la realtà

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 29 agosto 2024

Prendendo la parola alla cerimonia finale delle Olimpiadi, il 12 agosto, Emmanuel Macron si è imbarcato in un’affermazione stupefacente, che d’un tratto lo mette a nudo: “Manca la voglia che la vita riprenda il suo posto”, ha detto con nostalgia sul volto.

On n’a pas envie que la vie reprenne ses droits. Il lungo fumetto dei Giochi olimpici, l’ecumenismo dei preparativi, le cerimonie semi-turistiche in gloria della Francia, gli abbracci, gli applausi, la competizione allegra, la Senna in cui ti puoi incantevolmente tuffare nonostante i batteri: questo l’universo di celluloide che Macron adora, che rimpiange, che trasforma in orrenda metafora politica, che vorrebbe diventasse il nostro, di noi tutti, eterno vademecum.

La “Vita” che sciaguratamente riafferma i suoi diritti altro non è che la Realtà: sono le Legislative che hanno premiato le sinistre unite pur dando loro un’esigua maggioranza relativa. Macron sconfitto non ne “ha voglia”, ne è nauseato, si installa nella strategia della denegazione. La Costituzione della V Repubblica è talmente vaga che può permetterselo, visto che è lui a nominare il primo ministro che vuole. Ma una denegazione simile va oltre il fattibile, oltre l’opinabile e le varie esegesi costituzionali. Sconfina in un farsesco colpo di mano, in un brutale Truman Show di cui Macron è regista e primo attore. La Costituzione gli dà molti poteri, ma non quello di designare la coalizione di governo, perché è al premier che appartiene la proposta dei propri ministri.

Mitterrand aveva definito la Quinta Repubblica un “colpo di Stato permanente”, nel 1964, e la predizione quasi si avvera. Lunedì il presidente ha annunciato che la sinistra unita non andrà al governo, e che Lucie Castets, candidata premier del Nuovo Fronte Popolare, non è di suo gradimento. Ha poi fatto sapere che in ulteriori consultazioni non avrebbe più ricevuto la France Insoumise di Mélenchon né l’estrema destra. In un comunicato diramato lunedì ha invitato socialisti, ecologisti e comunisti a formare una coalizione col centro macroniano e con le destre dei Repubblicani. L’unica “voglia” che ha, nella transizione dal fumetto alla brutta Realtà, è quella di sfasciare l’unione delle sinistre e se possibile anche il Partito socialista, sfracellandolo nell’abbraccio. Marine Le Pen, che Macron diceva di voler arginare, ringrazia.

Per il momento gli invitati al banchetto – socialisti, ecologisti, comunisti – reagiscono esterrefatti, come se si trovassero alle prese con uno che non ci sta con la testa. È spazientita anche la destra dei Repubblicani. Ma buona parte dei socialisti è pronta a cedere alle lusinghe del pifferaio, a rispondere all’appello. La parola magica che nobiliterà i transfughi è socialdemocrazia. I socialdemocratici sono giudicati rispettabili se agiscono come alleati del centrodestra, delle politiche di austerità, dei mercanti d’armi che riforniscono Ucraina e Israele, del riarmo anti-russo. Il colpo di mano è ideologico e dimentica la storia.

La socialdemocrazia classica si batteva per la distensione con Mosca, per “osare più democrazia” e più giustizia sociale, come prometteva Willy Brandt nel 1969. Niente di tutto questo in chi si erige oggi a socialdemocratico e invece di rappresentare l’elettorato di sinistra “rompe con il partito della collera dell’estrema sinistra anti-socialdemocratica” – la definizione è di Serge July, ex direttore di Libération – e perfino accusa Mélenchon di antisemitismo (accusa rivolta a chiunque sia inorridito dallo sterminio di palestinesi e città a Gaza).

I socialdemocratici di oggi sono neo-conservatori: l’idolo è Tony Blair. Il giorno stesso in cui un attentatore ha esploso una bombola di gas davanti alla sinagoga Beth-Yaacov, sabato a La Grande-Motte nel Sud della Francia, Jacques Attali, ex “consigliere speciale” del socialista Mitterrand, ha affermato, senza arrossire, che il responsabile è Mélenchon, colpevole di “genocidio simbolico”. La categoria è raggelante e inedita, ma l’intervistatore l’ha digerita senza scomporsi.

Eppure Mélenchon aveva tentato una contromossa, prima del diniego presidenziale. Aveva ipotizzato un governo senza ministri del proprio partito, se davvero era lui il problema. L’uscita, astuta, smaschera l’Eliseo: continuando a opporre il veto a un governo di sinistra che cerchi le maggioranze sulle singole leggi, Macron conferma che è il programma del Fronte Popolare a dargli la nausea e non la presenza di ministri del partito di Mélenchon. Il pretesto è che un governo che non ha la maggioranza sarà subito rovesciato. Nemmeno lui l’aveva, dopo le Legislative del 2022.

Sono oltre sei settimane che il governo Attal governa come se non fosse dimissionario, che la tele-realtà perdura, e che la Realtà continua a essere oscuro oggetto di esecrazione nella testa di Macron. E non solo nella sua testa, ma in quella dei grandi gruppi economici, delle classi che Macron ha blandito con ripetute agevolazioni fiscali, dei padroni delle reti televisive e di gran parte dei giornali nazionali. Il programma del Fronte Popolare è classicamente socialdemocratico, ma per tutti costoro è un incubo, perché prevede aumenti di salari, giustizia fiscale progressiva, fine delle agevolazioni fiscali macroniane, gratuità scolastica estesa, tasse sui superprofitti di multinazionali e industrie come energia e farmaceutica.

La grottesca battaglia di Macron contro la Realtà è iniziata alla vigilia delle Olimpiadi, il 23 luglio, in un’intervista che aveva come sfondo la Torre Eiffel. È stato il momento in cui il presidente ha inaugurato il fumetto delle Olimpiadi, presentandole addirittura come modello: se “sono state organizzate così bene da un sindaco socialista, da una presidente della regione a destra, da un presidente della Repubblica al centro”, perché non provare pure in politica? Ha poi detto che “nessuno può applicare il programma” del Fronte Popolare: per stare a galla, occorre che le sinistre “escano in qualche modo dalle evidenze, si assumano le loro responsabilità, sappiano fare compromessi”.

Ancora una volta è dalla Realtà che bisogna uscire: dalle evidenze. Nella stessa intervista ha esortato: “L’urgenza del Paese non è distruggere quello che si è fatto sinora, ma costruire e andare avanti”. Il verbo ricorrente è continuare: “Continuare a essere più forti e più giusti… continuare a creare ricchezza e a andare avanti… continuare a reindustrializzare, a creare competitività, a essere il Paese più attraente d’Europa”. Continuare come se nulla fosse e le elezioni fossero chimere. “Da cinque anni è questa la nostra fierezza e tutto questo va consolidato, reinvestendo al contempo nel nostro esercito, nelle nostre forze di sicurezza interna, nella nostra giustizia, nella nostra scuola”.

Macron continua a non accettare il verdetto elettorale e a ignorare le volontà di un popolo che votando in parte sinistra unita e in parte estrema destra rifiuta proprio questo: continuare come si è fatto sinora, con Macron al centro e nell’illusione di “uscire dall’evidenza”.

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La sinistra “indomita” non piace alle élite (e sconfigge Macron)

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 9 luglio 2024

Alla fine i francesi hanno sorpreso l’intera classe politico-mediatica, domenica, dando la vittoria al Fronte Popolare delle sinistre – La France Insoumise di Mélenchon, Socialisti, Verdi, Comunisti – e mostrandosi leali nella strategia delle desistenze grazie a cui è stato possibile opporre un vasto “Fronte Repubblicano” all’avanzata di Marine Le Pen e Jordan Bardella. L’estrema destra viene addirittura confinata al terzo posto, dopo le sinistre e la coalizione di Macron, che perde più di 80 deputati ma non crolla. Non crolla per la verità neanche Le Pen, che aveva 89 deputati e ne ha ora 143; e che è pronta a prendersi una rivincita alle presidenziali del 2027, se la Camera diverrà ingovernabile come tanti predicono.

Le desistenze del secondo turno hanno visto il ritiro sistematico dei candidati di sinistra a favore di quelli del centro-destra in grado di battere Bardella, lì dove restavano in lizza tre candidati. In buona parte si sono ritirati anche i centristi, malgrado il disgusto che tuttora provano per Mélenchon.

Nonostante le profezie del centrismo macroniano sulla fine della dialettica destra-sinistra, la contrapposizione riaffiora e la sinistra è premiata. Non con forza sufficiente tuttavia, dal momento che il Nuovo Fronte Popolare è molto lontano dalla maggioranza assoluta (182 parlamentari invece di 289) e perché il peso del centro destra resta notevole. Insieme, ex Macroniani e Repubblicani sono più forti delle sinistre.

Diciamo ex macroniani perché sciogliendo l’Assemblea Macron ha dissolto anche sé stesso. Credeva di restare chiave di volta del sistema politico e invece i più importanti dirigenti del suo raggruppamento hanno preso le distanze da lui, nella campagna elettorale e ancor più domenica sera. In prima linea si sono dissociati il Premier Gabriel Attal e l’ex Premier Édouard Philippe, che da tempo si era chiamato fuori: entrambi hanno annunciato domenica una “nuova era” più democratica, e si sono presentati come leader non ancora ufficiali di un radicale cambiamento della Quinta Repubblica, destinato a spostare il baricentro della vita politica dall’Eliseo al Parlamento. È una battaglia condotta negli ultimi anni da Mélenchon. È nell’Assemblea che tocca ora cercare maggioranze più o meno fluttuanti, restituendo ai parlamentari un potere che De Gaulle aveva drasticamente ridotto nel 1958. Fenomeno non nuovo: si parla di maggioranza presidenziale perduta ma è dalle legislative del 2022 che Macron ha una maggioranza relativa, e che si è abituato a stringere ripetuti patti con le destre, specie sulla migrazione.

Per la quarta volta dunque, negli ultimi ventidue anni, l’estrema destra è bloccata quando è sul punto di prendere il potere. È accaduto nel 2002, quando Jean-Marie Le Pen sorpassò al primo turno i socialisti e fu battuto al secondo da Jacques Chirac, che nel duello finale raccolse l’82,2% dei voti pur avendo ottenuto il 19,8% al primo turno. Seguirono altri due sorpassi, quando Macron fu eletto Presidente nel 2017 e nel 2022, grazie alle desistenze delle sinistre. Nel 2022 i francesi lo detestavano più che mai, e infatti gli diedero alle legislative una maggioranza relativa. Nonostante questo respinsero Le Pen figlia. La loro incaponita resistenza continua ed è qui la singolarità della Francia.

Logica parlamentare vorrebbe che sia il Fronte Popolare, primo gruppo, a proporre il Premier all’Eliseo. Che governi con il suo programma e magari con una provvisoria maggioranza relativa, come Macron dopo il 2022. E logica vorrebbe che il candidato a Primo Ministro provenga dalla Francia Indomita, che a sinistra arriva prima malgrado il rafforzamento di Socialisti e Verdi. Ma Macron prende tempo: ieri ha respinto le dimissioni del Premier Attal. In parte perché incombono le Olimpiadi, in parte perché vuol osservare quel che accade nelle sinistre e punta al loro sfaldamento, nel desiderio di evitare il governo con gli Indomiti di Mélenchon. Quel che vuol vedere è se Socialisti e Verdi prenderanno le distanze dal Fronte e da un programma che l’Eliseo e il centro destra esecrano, perché imperniato sulla giustizia sociale, l’economia keynesiana espansiva, la tassazione finalmente progressiva, le imposte sui redditi alti e sulle corporazioni che più hanno profittato del Covid e della crisi inflazionista.

Per il momento l’unità delle sinistre regge, pur scricchiolando molto. Difficilissimo, dopo una vittoria simile, dire ai francesi che è stato tutto un bluff, che il programma di giustizia sociale e di non discriminazioni per cui hanno votato si sfalda il giorno dopo, e che ricominciano da capo le divisioni e gli intrallazzi. Ma nell’area di Socialisti e Verdi riaffiora una sorta di libido autodistruttiva, che si esprime nel desiderio di rompere con la sinistra radicale e di adottare il punto di vista che domina all’Eliseo e in tutte le reti Tv, secondo cui Mélenchon e i suoi parlamentari rappresentano l’ “estrema sinistra”. Così viene chiamata oggi la sinistra che non si rinnega: estremista, e se non basta si affibbia il marchio infamante dell’antisemitismo, che già emarginò Jeremy Corbyn in Gran Bretagna.

Negli ultimi giorni si sono avute alcune avvisaglie di regolamenti dei conti a sinistra. Prima ancora di affrontare il secondo turno, alcuni esponenti del Fronte Popolare hanno fatto capire che con Mélenchon non si governa (l’ex Presidente François Hollande, l’eurodeputato Raphael Glucksmann che ha provato a rovinare il secondo turno dicendo che Mélenchon “è un enorme problema” per la sinistra). Non è chiaro quale sia il loro peso effettivo. Dar vita a una coalizione senza la France Insoumise, con Macronisti e destra dei Repubblicani, è un formidabile azzardo. Mélenchon sarebbe solo a opporsi, e a incarnare il tradito Fronte Popolare.

Altra singolarità francese: gli elettori non si sono limitati a sorprendere, affluendo massicciamente alle urne e salutando la sinistra vittoriosa con imponenti manifestazioni di sollievo e gioia, non solo a Parigi. Hanno sconfitto l’estrema destra, scalfito spettacolarmente il potere di Macron, e screditato gli istituti di sondaggio e soprattutto la stampa scritta e audiovisiva, che per settimane ha fatto disinformazione – continua a farlo – bollando Mélenchon e il suo partito di antisemitismo, estremismo e anti-repubblicanesimo.

Uno schieramento simile disinforma anche in Italia. Il Tg della Sette, per esempio, diceva spensieratamente, sabato, che le elezioni francesi sono “importanti anche per l’Europa, i mercati e gli imprenditori”, fingendo di dimenticare che in democrazia esiste un popolo elettore un po’ più ampio. Questo rivelano le elezioni in Francia, come hanno già hanno rivelato in Italia: i cittadini non sono rappresentati dalla classe politica e lo sono ancor meno dal potere mediatico/industriale, che tranne qualche eccezione pare occuparsi solo di mercati, imprenditori e padroni della stampa. La differenza tra Francia e Italia è che la prima va a votare in massa, mentre la seconda ancora fugge nell’astensione.

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I giochi proibiti di Macron

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 3 luglio 2024

Macron voleva vedere l’effetto che fa. Il 9 giugno aveva appena sciolto l’Assemblea, per brutale ripicca e senza neanche avvisare il premier Attal, e con sorriso beffardo bisbigliò a un amico finanziere incrociato all’Eliseo: “Certo che sto bene! Gli ho gettato tra le gambe una bomba a mano senza sicura, e adesso vediamo come ne escono”.

Giocava ai soldatini e gli è andata male. Credeva di controllare tutto, e ora controlla giusto il rettangolino di terra su cui poggia i piedi.

Al primo turno delle Legislative ha assistito all’agonia del proprio partito, Renaissance, e alla quasi scomparsa della destra postgollista dei Radicali. Questi ultimi già s’erano disintegrati, l’11 giugno, quando Éric Ciotti, loro presidente, si alleò con i vincitori provvisori del giochetto di Macron: Marine Le Pen e Jordan Bardella. La lotta ora avrà come protagonisti cruciali la sinistra unita, che supera di gran lunga Macron, e un’estrema destra che non ha la maggioranza assoluta, ma che spera al secondo turno di ottenerla. E di trascinare con sé i Repubblicani restati fuori, se la maggioranza sarà parziale.

Torna dunque il conflitto destra-sinistra, solo che non è più destra ma estrema destra (Marine Le Pen tentò di abolire l’aggettivo “estrema”, ma nel marzo scorso il Consiglio di Stato glielo lo vietò). Macron aveva definito arcaico il conflitto, alle Presidenziali del 2017 e 2022. In ambedue le occasioni aveva promesso di sbarrare la strada a Le Pen, e ora è proprio lui ad aprirle i cancelli del potere, in una campagna che lo ha visto usare la sinistra radicale di Mélenchon come principale se non unico bersaglio.

Lunedì è parso svegliarsi. Ora auspica un Fronte Repubblicano per evitare che l’estrema destra ottenga la maggioranza assoluta, e non esclude più la desistenza dei propri candidati che al turno di domenica prossima restano in lizza come terzi (cosiddette triangolari). È giunto sino a ricordare ai ministri che nel 2017 e 2022 furono le sinistre a dargli la maggioranza: “Senza di loro nessuno di voi sarebbe qui”. Neanche lui.

Ben tardiva resipiscenza, che potrebbe raddrizzare le cose ma difficilmente. È mancato l’appello pubblico: dall’Eliseo è arrivato appena un sussurro a redazioni e reti Tv. E manca l’invito esplicito a ritirare tutte le candidature centriste arrivate al terzo posto e a votare per le sinistre, anche quelle calunniate di Mélenchon (“Bisognerà valutare caso per caso”). Per tutta la campagna elettorale, fin quando a sinistra è nato il Nuovo Fronte Popolare, Macron è stato ben più aggressivo con Mélenchon che con Bardella, e così si sono comportati Attal e i ministri. L’estrema destra era un pericolo per l’economia, ma Mélenchon era l’ignominia personificata: dopo il primo turno Macron lo definì antirepubblicano, antiparlamentare e soprattutto – l’accusa più infamante e menzognera – antisemita, per via del sostegno di France Insoumise (“Francia Indomita”) allo Stato Palestinese. Non solo: il costo delle riforme di Bardella ammontava secondo l’Eliseo a 100 miliardi, quello delle sinistre a 300.

La svolta in extremis del presidente pesa poco, per ora. Ben sette ministri ripetono come automi la formula presidenziale delle settimane scorse: “Né Bardella né Mélenchon”. Solo alcuni auspicano una “desistenza incondizionata” a favore di qualsiasi candidato di sinistra capace di vincere nelle triangolari.

Il ripensamento presidenziale, la presa di coscienza di alcuni macroniani, la proposta di Attal di una maggioranza alternativa che comprenda tutta la sinistra, qualora Bardella non avesse la maggioranza assoluta: sono elementi che potrebbero contare, ma è probabile che le scelte degli elettori abbiano ormai messo radici. In primo luogo perché anche se al primo turno non votano maggioritariamente Le Pen, di sicuro la maggioranza detesta Macron. In secondo luogo perché Bardella stesso ha cambiato idea. Aveva detto che avrebbe governato solo con la maggioranza assoluta e ora gli va bene anche quella relativa, sicuro com’è che i Repubblicani non passati all’estrema destra lo sosterranno dopo il secondo turno.

Il fatto è che la vittoria totale o parziale di Bardella/Le Pen non si decide solo tra i partiti e neppure solo tra gli elettori. Essa è oggi favorita da una vasta maggioranza in parte occulta, potente, spregiudicata. Sono i veri poteri che muovono le pedine: i grandi magnati che posseggono giornali e Tv (Vincent Bolloré in prima linea, detto anche Barone Nero perché protettore di Le Pen, Dassault, Bouygues, l’armatore Rodolphe Saadé), e inoltre i poteri finanziari, la Confindustria, le varie lobby industriali che temono come la peste le proposte delle sinistre: la giustizia fiscale progressiva in primis, smantellata da Macron, e le tasse sui redditi alti, le imposte sulle multinazionali e sulle aziende che più hanno profittato della crisi pandemica e inflazionistica (farmaceutica, energia, ecc.). C’è infine la lobby israeliana, sostenuta da intellettuali fossilizzati e tuttavia regolarmente invitati in Tv (Bernard Henri Lévy). Serge Klarsfeld, illustre studioso della Shoah, ha annunciato che in ogni caso meglio Le Pen di Mélenchon.

Per tre settimane c’è stato un coro unanime contro Mélenchon, figura trainante del Nuovo Fronte Popolare. Se si esclude qualche giornalista, nessuna rete radiotelevisiva, pubblica o privata, ha maneggiato senza malafede l’accusa di antisemitismo, lanciata contro chiunque avesse manifestato per i palestinesi decimati a Gaza, pur condannando il pogrom del 7 ottobre. Nessuna che abbia cercato di capire il ruolo di Mélenchon, la sua popolarità nell’elettorato popolare.

Macron e i suoi fedeli fanno capire che si può discutere e governare con “socialdemocratici e moderati” del Fronte Popolare, in caso di vittoria parziale dell’estrema destra. Quello che non calcolano è che Mélenchon esce dal primo turno molto più forte di socialisti, ecologisti e moderati.

In Italia ci sono commentatori – ad esempio al «Foglio» – che non s’allarmano, perché le Borse son calme e “l’instabilità politica non vuol dire automaticamente instabilità economica e finanziaria, in particolare se si tratta della seconda economia dell’Eurolandia”. Forse ci siamo talmente abituati all’estrema destra governante che ci abbiamo fatto il callo. Non a caso Bardella studia l’Italia, ripromettendosi di caldeggiare come Meloni Eurolandia e Nato.

Forse però si trascura il fatto che il piano Bardella ha elementi da noi improponibili. Tra i suoi progetti c’è l’impegno a non assumere in imprecisati “posti sensibili” i cittadini binazionali (3,5 milioni); l’assistenza sanitaria negata a immigrati irregolari, con rischi enormi per la salute di tutti; gli assegni familiari tolti ai genitori di minorenni recidivi. Alle domande scomode di sinistra, Bardella risponde con sorriso agghiacciante: “Eccoci, Jean Moulin è di ritorno!” (resistente morto in deportazione).

I mercati forse apprezzano, mini-comuni e Francia rurale si sentono ascoltati, ma il Paese intero non potrà che soffrirne e spezzettarsi.

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Antisemitismo, nuova lettera scarlatta

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 23 giugno 2024

Se l’estrema destra uscirà vincente dalle elezioni legislative in Francia, nei turni del 30 giugno e 7 luglio, sarà perché il presidente Macron le ha aperto i cancelli del potere, concentrando tutti i suoi attacchi contro i due opposti estremismi, ma riservando speciale perfidia e le invettive più incandescenti alla sinistra radicale di Jean-Luc Mélenchon, alleato con Socialisti e Ecologisti nel Nuovo Fronte Popolare.

Al centro della requisitoria presidenziale, l’accusa/insinuazione che può distruggere le carriere politiche, che pietrifica le conversazioni civili, che ti mette all’angolo trasformandoti in paria: l’accusa di antisemitismo. L’antisemitismo è la Lettera Scarlatta che viene incollata sulle vesti di chiunque, oggi, denunci la guerra contro i civili condotta da Israele e faccia risalire al lungo soggiogamento dei Palestinesi a Gaza e in Cisgiordania la furia omicida di Hamas del 7 ottobre 2023.

Macron non poteva non sapere, quando ha temerariamente sciolto il Parlamento subito dopo le elezioni europee, che i candidati dell’estrema destra di Marine Le Pen e dell’aspirante Premier Jordan Bardella avrebbero fatto propria l’accusa, che l’antisemitismo sarebbe diventato il fulcro della loro campagna. Non poteva non sapere che quasi l’unanimità dei giornali mainstream, e praticamente tutti i canali televisivi, avrebbero minimizzato la pulizia etnica che il governo israeliano sta conducendo a Gaza, e si sarebbero uniti al coro: c’è del marcio a sinistra nel Fronte Popolare – questa l’insinuazione ricorrente – c’è l’odio dell’ebreo nella Francia Indomita ovvero France Insoumise di Mélenchon, che da mesi manifesta contro gli stermini di Palestinesi a Gaza e le violenze dei coloni in Cisgiordania. Mai si sospetta che l’antisemitismo, se cresce in Francia, abbia qualche rapporto con le politiche d’Israele.

La France Insoumise è anche tacciata di putinismo, sull’Ucraina: ma questo secondo peccato appare d’un tratto minore, forse perché condiviso con Le Pen. Ambedue le accuse non corrispondono al vero, ma la menzogna come sempre ha gambe più forti per correre.

Il fenomeno oltrepassa i confini francesi, e non è nuovo. Una campagna simile è in corso negli Stati Uniti, alla vigilia delle presidenziali, e vede i candidati di Trump sostenuti contro i democratici da massicci aiuti finanziari della principale lobby pro-israeliana, la potentissima AIPAC: più di 14 milioni di dollari nelle sole primarie di New York, per far fuori il candidato democratico di sinistra. Il marchio di antisemitismo inabissò anni fa Jeremy Corbyn, eletto leader del partito laburista inglese nel 2015, espulso dal partito a seguito di una campagna denigratoria condotta dall’ala conservatrice del partito, oggi rappresentata da Keith Starmer. Corbyn, al pari della France Insoumise di Mélenchon, aveva messo fine alla Terza Via di Tony Blair combattendo le guerre occidentali in Siria, la nuova guerra fredda con Mosca, l’espansionismo a Est della Nato che ha originato la reazione violenta di Mosca. La Terza Via incarnata da Keith Starmer festeggiò il proprio ritorno liquidando la corrente di sinistra. Quel che Starmer dimentica è che se si prepara a vincere contro i Conservatori, è perché Corbyn nel 2015 salvò il Labour dal tracollo.

Tra gli sponsor occulti del Rassemblement National di Marine Le Pen e Bardella c’è il governo israeliano, e non è una sorpresa. Netanyahu intesse da tempo una vasta rete di amicizie e complicità con le destre islamofobe, illiberali e pro-Israele, in Usa come in Europa (Centro Europa in testa, dove corteggia perfino formazioni neonaziste). La sconfitta della sinistra in Francia è auspicata a Tel Aviv.

Nell’immediato, la Lettera Scarlatta che serve a marchiare d’infamia una parte del Fronte Popolare è una manna per la destra estrema, che astutamente mescola la prudenza sull’economia con frasari infuocati pro Israele e contro l’“islamo-gauchismo”. Non è detto che la manna sarà totale, perché la determinazione con cui le sinistre si sono unite ha stupito positivamente molti francesi e ha spiazzato Macron. La coalizione centrista del Presidente mette in guardia contro i due “opposti estremismi”, ma è più condiscendente verso il partito di Le Pen: su immigrazione, sicurezza interna, difesa. Le promesse economiche del Fronte Popolare costerebbero 300 miliardi di euro contro i 100 di quello delle destre: la sua agenda, deduce Macron, “è peggiore” di quella di Bardella.

Quanto all’immigrazione, Macron da tempo si allinea alle destre estreme: il 16 giugno è uscito allo scoperto definendo “totalmente immigrazionista” il programma delle sinistre. L’aggettivo “immigrazionista” figura nel vocabolario di Marine Le Pen dagli anni Novanta. Il Presidente giunge fino a accusare le sinistre di sostenere “cose completamente deliranti (ubuesques – da Ubu Re di Alfred Jarry, ndr), come andare al municipio per cambiare di sesso”. È chiaro che il Presidente preferisce coabitare con l’estrema destra, senza dimettersi. Ha precipitato le legislative lasciando ai contendenti solo tre settimane, per decidere su programmi e alleati. E forse l’ha fatto per capriccio forse per calcolo: puntando sulle forze lepeniste pensa magari di logorarle prima delle presidenziali del 2027. Bardella ha subito replicato annunciando di voler governare solo se otterrà la maggioranza assoluta.

Per il partito socialista che ha creato con Mélenchon il Fronte Popolare per impedire l’avvento dell’estrema destra, la diatriba sull’antisemitismo è nell’immediato una maledizione. Non lo è tuttavia nel lungo termine, per tutti i socialisti che a partire dell’ottobre 2023, e nella campagna per le elezioni europee, hanno scelto come bersaglio la sinistra radicale. Il capofila di questa linea è Raphael Glucksmann, capolista non socialista dei socialisti alle Europee, fautore di un’economia di guerra per debellare Putin, di un aiuto all’Ucraina con tutti i fondi russi congelati in Europa (non solo coi proventi), dello sgombero delle università occupate da filo-Palestinesi.

Subito dopo le Europee, Glucksmann è stato preso in contropiede dall’immediata riconciliazione delle sinistre e dopo aver cercato d’impedirla si è associato, temendo l’emarginazione. Non smette tuttavia di ricordare quel che lo divide da Mélenchon, e di attaccare l’antisemitismo di destra e sinistra. Nei prossimi tre anni, se la sinistra unita sarà sconfitta, apparirà come un ricorso per i socialisti che hanno vissuto passivamente, con vergogna imbarazzata, la Lettera Scarlatta dell’antisemitismo. La sua battaglia contro Mélenchon ha dato frutti nelle europee. Potrebbe darne anche nelle presidenziali del 2027.

I sondaggi prevedono per ora che né l’estrema destra né le sinistre otterranno la maggioranza assoluta. E constatano l’indebolirsi ulteriore del centro, tanto diffusa è l’esecrazione del Presidente anche tra i centristi. In tal caso Macron avrà aperto i cancelli del potere non a questo o quel partito, ma al caos e alla più grave paralisi istituzionale nella storia della Quinta Repubblica.

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“Macron pensa di fare De Gaulle e invece è solo una marionetta”

Intervista di Tommaso Rodano, «Il Fatto Quotidiano», 16 marzo 2024

Barbara Spinelli, ieri Macron e Scholz avrebbero concordato di “non prendere mai l’iniziativa di un’escalation militare”. È un passo indietro per il presidente francese, ormai calato nelle vesti del falco?
Non credo che Macron abbia fatto marcia indietro. Anche nella conferenza stampa di giovedì aveva parlato di uno scatto in avanti dell’Occidente come reazione militare alle avanzate russe. Non credo nemmeno che Scholz faccia marcia indietro sui missili Taurus da inviare a Kiev. Anche se in Germania si sta discutendo una manovra piuttosto disgustosa, su spinta dei Verdi e Liberali: i missili verrebbero inviati all’Inghilterra affinché siano gli inglesi a inviarli in Ucraina, con esperti britannici che si occupino della loro manutenzione e destinazione. In questo modo i tedeschi eviterebbero di inviare i propri uomini, incaricati di decidere se i missili saranno impiegati sul suolo ucraino o anche su quello russo. Scholz non lo vuole.

Nelle prime fasi del conflitto ricordavamo Macron al tavolo con Putin, tra i pochi leader internazionali a promuovere un dialogo. Poi cosa è successo?
È vero, all’inizio Macron insisteva sulla necessità di non umiliare la Russia. Aveva adottato una logica da prima guerra mondiale (evitare gli errori che seguirono il ’14-18). Ora è in una logica da seconda guerra mondiale: “guerra esistenziale”, sostegno all’Ucraina per recuperare tutti i territori Crimea compresa, rinuncia a parlare con Putin. È un cambiamento impressionante, Gli occidentali, per fortuna con alcune differenze interne, prendono atto che la controffensiva ucraina è fallita e si stanno preparando a una seconda controffensiva, nella quale l’appoggio dell’Occidente sarà ancora più forte, con l’invio sul territorio ucraino non ancora di soldati, ma sicuramente di consiglieri militari con il controllo sulla destinazione dei missili a lunga gittata. Ci sono rischi molto grandi: il primo è la morte di altre centinaia di migliaia di soldati ucraini. Quanti ne resteranno alla fine della carneficina? Il secondo è l’incidente nucleare. Oggi i droni ucraini hanno colpito la città di Kaluga, a meno di 160 chilometri da Mosca. Si sta giocando col fuoco.

Anche in Francia c’è un’opinione pubblica contraria all’escalation militare, ma il presidente si muove in direzione opposta.
L’operazione di Macron è condivisa dalle altre forze politiche, tranne l’estrema destra, la sinistra di Mélenchon e i comunisti. Macron sta facendo campagna elettorale, è questo l’aspetto nefasto della faccenda. È la politica interna che spiega il cambio radicale nella politica estera francese. Lui vuole apparire alla vigilia delle elezioni europee come un De Gaulle, dimenticando però che De Gaulle era per l’autonomia della Francia dagli Usa e dalla Nato e per i buoni rapporti con la Russia. È un finto De Gaulle, un finto Churchill. Una marionetta che nasconde la realtà e mente su tutto: sul proprio isolamento mondiale, sulle responsabilità ucraine nel fallimento degli accordi di Minsk, sull’espansione della Nato e le sue responsabilità, sui necessari negoziati, attorno alla neutralità ucraina.

I sondaggi gli danno torto: Marine Le Pen è di nuovo in crescita, se si votasse oggi il partito di Macron rischierebbe di rientrare in Parlamento dimezzato.
Infatti siamo all’improvvisazione. Nell’intervista di giovedì, quando gli hanno domandato se ritenesse possibile l’invio di truppe francesi, Macron ha risposto alla giornalista: “Lei è seduta su una sedia. Può escludere che dopo si alzerà in piedi?”. Come se l’escalation fosse un movimento naturale del corpo.

Macron è al secondo mandato, non potrà ricandidarsi. Che partita sta giocando?
Nell’immediato vuol dare una mano al proprio partito e ai socialisti, che hanno esattamente le stesse idee sull’Ucraina. Poi c’è il lungo termine. Macron fa parte di una élite, non solo francese, molto atlantista, legata all’industria delle armi. Le sue posizioni somigliano a quelle di Draghi. Immagino stia preparando il proprio futuro personale.

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Guai a chi osa toccare il totem “Europa”

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 28 dicembre 2023

Da quando sono apparse in Italia le prime critiche forti dell’Unione europea, e di uno sfacelo che va ben oltre la vicenda del Mes, i benpensanti sono in allarme. Militano a destra, nel centro, nell’ex sinistra Pd.

Nei grandi giornali hanno la penna pronta e la supponenza facile, perché l’Unione che pensano e piantonano non è un progetto che evolve ma un totem immobile, non perfettibile, antenato mitico che si venera sempre allo stesso modo, come se il mondo non cambiasse di continuo. Il totem è indifferente ai contesti e alla storia. Spiega il dizionario De Mauro che totem vuol dire “segno del clan”: grazie a esso “i membri del gruppo si riconoscono parenti”.

La bocciatura parlamentare del Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes) è solo l’ultimo episodio di quello che gli editorialisti dei principali giornali denunciano come sacrilego assalto al totem. L’Europa “è naturaliter il nostro orizzonte morale e valoriale”, si legge nei commenti, oppure: “Sovranisti di destra e populisti grillini si ritrovano nella stessa trincea (…) l’identità europea è il vero spartiacque fra le nostre forze politiche”. Non viene spiegato cosa significhi orizzonte valoriale: quali siano i princìpi in una Comunità che li sta calpestando in massa, e non a caso preferisce parlare di valori anziché di diritto esigibile. Né è afferrabile l’identità europea, non identificato oggetto vittima di guerre di trincea.

Intanto andrebbe chiarito un punto sul Mes, omesso ieri alla Camera dal ministro Giorgetti: fin da quando nacque, nel 2012, il Meccanismo fu concepito come dispositivo intergovernativo. Essendo esterno all’Unione, il suo mandato non è la difesa di un comune interesse europeo. Commissione e Bce disciplinano gli Stati assistiti e impongono vincoli che non mutano – tagli a spese sociali, disuguaglianze, privatizzazioni – ma sono solo esecutori. Il Parlamento europeo è estromesso. Come disse l’economista Giampaolo Galli nel 2019, i poteri molto ampli del meccanismo “si sovrappongono a quelli della Commissione sull’intera materia dell’analisi e valutazione della situazione economica e finanziaria dei Paesi dell’eurozona, non solo di quelli sottoposti a un programma di aggiustamento”.

Naturalmente il Parlamento italiano poteva ratificare la riforma del Mes senza pagare prezzi, visto che ratificare non significa chiedere prestiti. Se non lo ha fatto, e la riforma è stata bocciata da un’inedita maggioranza Fratelli d’Italia, Lega, M5S, è perché il contesto della ratifica è stato giudicato insoddisfacente: il giorno prima il Consiglio europeo aveva varato un nuovo Patto di Stabilità piuttosto rigido, ma approvato da Roma perché “migliore del precedente” anche se “peggiore della proposta della Commissione” (parola di Giorgetti). Ma se era migliore perché il No di Meloni al Mes?

Il Patto rinnovato mette in realtà un termine al comune indebitamento europeo, che Conte ottenne con grandi sforzi negoziali durante la pandemia, che rivoluzionò il dogma secondo cui l’“ordine in casa propria” va anteposto alla solidarietà, e che assegnò all’Italia ben 209 miliardi. La rivoluzione è finita, la Restaurazione ordoliberista torna a regnare restituendo al mercato lo spazio perduto: questa l’iniqua scelta di un’Unione che con l’arma dell’austerità ha già immiserito e umiliato la Grecia, nel 2009-2019. Dei tre protagonisti della troika, solo l’ex presidente della Commissione Juncker ha pronunciato un mea culpa (“Abbiamo calpestato la dignità dei Greci”). Olivier Blanchard del Fondo Monetario Internazionale ha ammesso un “peccato originale”. Unico privo di rimorsi: Mario Draghi che dirigeva la Banca centrale europea. È elogiato perché con tre parole “salvò l’euro”. Non si dice mai a che prezzo, per il welfare e la dignità degli Stati “salvati”. Gli anni del debito comune non sono una rivoluzione europea per Giorgetti, ma “quattro anni di allucinazione psichedelica” indotta dal debito italiano facile.

È da qualche tempo che la parola contesto è equiparata a eresia anti-europea. È eretico indicare il contesto – cioè le radici – dell’aggressione russa all’Ucraina (veto di Washington e Nato alla neutralità di Kiev) o della violenza di Hamas (rapporti rovinosi Israele-palestinesi). Così per quanto riguarda il Mes. Meloni ha detto più volte che la riforma andava vista “nel contesto” di un Patto di Stabilità meno castigatore. Non senza ragione: accettare centri di controllo paralleli all’Ue è pericoloso, se contestualmente non si punta all’indebitamento comune. Patto e Mes aggiornati certificano l’impossibilità di un’Unione fondata sulla solidarietà, che preceda i “compiti da fare in casa”.

Il guaio è che né Meloni né Giorgetti hanno mostrato di sapere cosa dicono quando difendono, ma poi dimenticano, l’idea di contesto: né su Ucraina, né sulla sovranità limitata dalla Nato, né infine, oggi, sul controrivoluzionario nuovo Patto di Stabilità, nato da un accordo fra Parigi e Berlino senza sostanziali interferenze italiane. Senza che Macron mantenesse la promessa di fronteggiare con noi i falchi dell’austerità europea. Contrariamente a quanto proclamato da Meloni, l’Italia non ha “ottenuto moltissimo”. I vincoli non solo restano ma si moltiplicano, i controlli concedono qualche esenzione ma sono onerosi, la sovranità solo sbandierata a destra è sbrindellata. Solo per tre anni ci sarà un po’ di flessibilità (riduzione annuale del debito dello 0,5 per cento del Pil, poi dell’1,5). Sono gli anni del governo Meloni. Si può solo sperare in emendamenti incisivi, quando il Patto sarà votato dal Parlamento europeo. Quanto al sovranismo, c’è da sperare che cessi di essere un insulto mai approfondito.

Si capisce il sì al Mes dei neocentristi Renzi e Calenda. Sono gli scimmiottatori di Macron, artefice ultimamente di una legge sull’immigrazione che non ha avuto bisogno dei voti di Le Pen in Parlamento, solo perché aveva assorbito grandissima parte delle idee lepeniste. Macron in Francia è un mito spento. Veramente incomprensibile di contro è il Pd. “Non ci hanno visto arrivare”, aveva detto Elly Schlein, ma nel frattempo è arrivata e non ha ancora scelto se liberarsi della fallimentare Terza via di Blair, Renzi, Enrico Letta. Prodi si augura che Schlein diventi il federatore del centrosinistra allargato, senza intuire che missione primaria del segretario, al momento, è federare il Pd. Missione per ora incompiuta. Schlein non sta creando un Pd diverso, pur volendolo intensamente. Difende i diritti, il salario minimo, i migranti, ma ammutolisce in Europa sull’ordoliberismo di stampo tedesco, sulla Nato, sulle guerre. I socialisti nel Parlamento europeo, italiani compresi, non hanno mai condannato l’umiliazione della Grecia, avendo sempre anteposto l’alleanza coi Popolari. Ma soprattutto: se si esclude il Movimento di Conte, difficile che i partiti azzardino critiche radicali e non occasionali all’Unione. Basta un momento di lucidità, sullo sfacelo europeo, e subito partono le mitragliatrici degli affratellati guardiani del totem.

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Il vuoto di Macron, egemone mancato

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 23 aprile 2023

Impossibile edificare nuove politiche limitandosi a declamazioni presto appassite, come quella di Macron sul vassallaggio europeo o del governo italiano e delle istituzioni Ue su nuovi accordi di rimpatrio verso Paesi africani, se non vengono rispettate almeno tre condizioni.

Chiarire in cosa consista il vassallaggio (anche della Francia) e dunque spiegare a se stessi la genealogia di una guerra in Ucraina scatenata tecnicamente da Putin, ma favorita da una serie di provocazioni di Washington, della Nato e dell’Unione europea; sapere sino in fondo come funziona oggi l’Unione europea e come funzionano i Paesi chiamati a riprendersi i migranti nel Sud Mediterraneo o in Afghanistan e in Pakistan; stringere alleanze ben congegnate con i Paesi che potrebbero condividere l’idea di un’Europa indipendente da Nato e Usa. Nessuna di queste condizioni è oggi rispettata. Ci sarebbe poi una quarta condizione – l’obbligo di adattare le politiche alle parole – anch’essa non rispettata. Quando è senza conseguenze, la parola è un sacco vuoto. La verità perisce non solo quando scoppia una guerra in casa ma anche, e più insidiosamente, nelle guerre per procura.

Prendiamo il vassallaggio e lo “spirito gregario” (suiviste, in francese) dell’Unione Europea, denunciati da Macron dopo la visita in Cina: vassallaggio per quanto concerne i rapporti con Russia, Cina, e l’impropria “extraterritorialità del dollaro Usa”. Denuncia più che opportuna: meglio tardi che mai. Ma il concetto diventa significativo solo se spieghi come mai – una volta appurato che Mosca è responsabile dell’aggressione del febbraio 2022 – si è scivolati a partire dal 2014 in una guerra per procura; e come mai l’Europa non trova un suo modo indipendente di uscirne presto, e lascia incredibilmente che sia il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg a dettare l’agenda, giovedì scorso a Kiev: “Il posto dell’Ucraina è nella Nato. I membri sono d’accordo. La priorità ora è che l’Ucraina prevalga in questa guerra. Proprio per questo motivo dobbiamo continuare a sostenerla militarmente”. Dove stanno l’indipendenza Ue e la fine del vassallaggio, se continuiamo a far finta che Putin non abbia mai indicato come linea rossa l’adesione di Kiev alla Nato?

Non solo: il concetto d’indipendenza cesserebbe di essere il sacco vuoto che è se Macron s’accollasse la fatica di raccogliere consensi europei, come fece Conte durante il Covid, quando convinse Merkel ad accettare un indebitamento comune avversato da Berlino per decenni. Tutto questo Macron non l’ha fatto, come se ignorasse che i Verdi tedeschi sono più atlantisti che mai e che tutto il fronte Est – egemonizzato dalla Polonia – non si sente affatto vassallo di Washington, ma piuttosto dell’Unione europea.

Non meno responsabili sono le cosiddette sinistre europee, gregarie sul fronte guerra (la sinistra francese è divisa). Elly Schlein aveva annunciato svolte decisive, ma erano proclami futili, e anche sulle parole di Macron tace. “Ereditiamo scelte già fatte e non è sul terreno delle scelte già fatte che si misura come noi proviamo a costruire ciò che c’è nella piattaforma congressuale”, ha detto mercoledì sul “termovalorizzatore” a Roma, ma l’eredità Letta pare intatta anche per l’Ucraina. In che consista la svolta Schlein, su guerra e pace, non è dato sapere. Come svoltare senza ribaltare “scelte già fatte”?

Se le cose stanno così non ha senso parlare di difesa comune europea: con quali alleanze nell’Ue? Contro chi? Contro Mosca e Pechino? O Mosca va umiliata, ma Pechino non tanto, come suggerisce il segretario al Tesoro Usa Janet Yellen (il tetto al prezzo del petrolio russo è una sua idea, Draghi s’è accodato)? L’Ue non segue Macron, secondo il quale non è nel nostro interesse schierarsi su Taiwan. Fino a oggi, difesa europea significa aumento delle spese militari, uniformi tagli al Welfare State ed equiparazione fra interessi geopolitici europei e atlantico-statunitensi, visto che torna la guerra fredda e l’Ue allargata ha stravolto l’Unione dopo la caduta del muro di Berlino. La monotona, istupidita menzione dell’asse franco-tedesco perde senso da quando l’egemone effettivo è la Polonia.

Egualmente sconsiderato è, sulle migrazioni, l’appello ai Paesi terzi in Africa perché impediscano le fughe, anche con la forza. Non dimentichiamo che l’Europa ha la faccia tosta di difendere la democrazia e i nostri cosiddetti valori, esportandoli anche con le armi. Che si guarda dal confutare l’aspirazione Usa all’unipolare supremazia sulla terra, nonostante l’opposizione della maggior parte degli Stati Onu. Non si capisce cosa c’entri Enrico Mattei con simile vassallaggio. E se dall’Ucraina spostiamo lo sguardo verso Africa del Nord, Asia occidentale, Afghanistan, dobbiamo ricrederci.

Gli Stati Europei non hanno mai fatto autocritica sulle guerre di regime change (Afghanistan, Iraq, Libia). Con la Libia abbiamo stretto accordi che dal 2017 finanziano con soldi europei e nazionali le guardie costiere e i campi di tortura che rinchiudono chi tenta la traversata del Mediterraneo. Lo stesso era accaduto nel 2016 con la Turchia (aiuti Ue per 6 miliardi di dollari), dove i migranti sono spesso rispediti nella Siria da cui erano scappati.

Lo stesso succede ora in Tunisia, con cui Italia e Ue stanno negoziando accordi che blocchino le fughe. Il guaio è che Kais Saied, presidente tunisino dal 2019, sta adottando forme violente di xenofobia (pogrom ricorrenti) verso gli immigrati dall’Africa nera. Una dichiarazione pubblicata il 17 aprile da una sessantina di associazioni certifica che “la Tunisia non è né un Paese di origine sicuro né un Paese terzo sicuro e pertanto non può essere considerato un luogo sicuro di sbarco (Place of Safety, POS)”. L’Unione europea ha stanziato per la Tunisia, fra il 2016 e il 2020, più di 37 milioni di euro attraverso il Fondo fiduciario Ue per l’Africa, per esternalizzare la “gestione dei flussi migratori e delle frontiere”. Altri milioni sono in arrivo. L’Ue “sostiene Tunisi attraverso l’addestramento delle forze di polizia, la fornitura di attrezzature per la raccolta e la gestione di dati, il supporto tecnico, l’equipaggiamento e la manutenzione delle imbarcazioni per il pattugliamento delle coste e altri strumenti per il tracciamento e il monitoraggio dei movimenti”.

Quando Meloni annuncia cacce agli scafisti lungo il globo terracqueo c’è da domandarsi se sappia o non sappia quel che dice. Con quali Stati abbiamo negoziato o negoziamo il diritto a operare in acque territoriali non nostre? Oppure Meloni finge che esista una giurisdizione italiana sull’intero globo terracqueo?

Macron si presenta come nuovo De Gaulle, a parole, ma nei fatti la sua strategia è succube della strategia Usa e isolata. Le sue sono parole senza contenuto, dette per occultare dissennate politiche interne di repressione dei movimenti sociali e della democrazia parlamentare. Non è uno stratega, ma un “dilettante senza febbre da palcoscenico”, come diceva Karl Kraus dell’arte teatrale del suo tempo.

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